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Smontato lo statuto dei lavoratori L'ultima sorpresa del ddl Tremonti

Articolo 18. Il testo arriva in aula giovedì. Limiterà i poteri del giudice su licenziamenti e contratti

(10 Ottobre 2008)

Sottotraccia, senza grandi clamori, la camera dei deputati si appresta a stravolgere ancora un po' il diritto del lavoro. E, già che siam lì, a limitare le competenze dei giudici del lavoro.

Il colpaccio è contenuto nel Disegno di legge 1441 quater, ultimo erede di quell'enorme disegno di legge (il 1441, appunto) che il governo aveva presentato a giugno, collegandolo alla finanziaria, per poi trovarsi costretto a spacchettarlo in quattro tronconi. Ognuno con un frutto avvelenato, compreso questo, a sua volta geometricamente smontabile in quattro pessime mosse.

La prima, contenuta nell'articolo 65, alla voce «Clausole generali e certificazione», ha l'obiettivo, neppure nascosto, di limitare l'azione del giudice del lavoro alla sola valutazione di legittimità. Il testo è piuttosto chiaro: «In tutti i casi in cui le disposizioni di legge contengano clausole generali \ il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente».

Vuol dire, a farla breve, che il giudice del lavoro, non potrà andare oltre il controllo di legittimità. Lo spiega bene Claudio Treves, coordinatore del Dipartimento Politiche attive del lavoro nella Cgil: «Se prima un giudice, davanti ad un contratto a tempo determinato stipulato per l'aumento di produttività poteva valutare ed eventualmente sanzionare un contratto stipulato con un titolo inadeguato, adesso - chiarisce - dovrà valutare solo i requisiti formali del contratto».

Al comma due il quadro non migliora: «Il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro», così come previsto dalla legge Biagi. E ancora - e siamo al comma 3 - «nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento, il giudice fa riferimento alle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi ovvero nei contratti di lavoro stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione», di cui parla sempre la legge 30. Tradotto, vuol dire che il magistrato dovrà limitarsi a controllare che il contratto stipulato concordi col patto su cui si basa. E, quindi, non sarà sottoposto solo alla legge, ma pure ad un accordo che in astratto (ma, a sentire i sindacalisti, anche in concreto) potrebbe contenere parecchi problemi di legittimità.

Infine, negli articoli successivi, il testo si propone di «incentivare» l'arbitrato per risolvere le controversie di lavoro. E ai lavoratori licenziati, precari o no, lascia come unica strada 120 giorni di tempo per proporre ricorso al giudice, chiudendo la strada alle richieste «non giuridiche» che in molti casi risolvevano il problema grazie alla mobilitazione sindacale.

Il Partito democratico ieri pomeriggio ha firmato comunicati di fuoco. L'ha fatto il ministro della giustizia ombra Lanfranco Tenaglia - «si fa carta straccia dello statuto dei lavoratori, si torna indietro a trenta anni fa» - e quello del Lavoro, Cesare Damiano - «è grave che il governo tenti in modo surrettizio di cambiare radicalmente il processo del lavoro».

Si sa già come andrà a finire. Anche se la legge dovesse subire qualche scivolone, come è già capitato alla riforma del processo civile cascata in aula grazie alle assenze dei parlamentari Pdl, queste norme rischiano di volare all'approvazione del senato. E chiudere il cerchio che in pochi mesi ha fatto fuori la stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione e, se non fosse stato per una modifica ottenuta dal pd in commissione, rischiava di limitare il diritto ai permessi retribuiti. Una riforma del lavoro vera e propria. Spacchettata e confezionata per un consumo rapidissimo.

Sara Menafra (il manifesto del 07 Ottobre 2008)

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