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La difesa della razza

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(25 Maggio 2010) Enzo Apicella
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In Congo: l'anestesia del terrore

(25 Novembre 2008)

Nella Repubblica Democratica del Congo è ricominciata la guerra civile. In realtà non era mai finita: si era nascosta nelle pieghe del confine ad Est, lontana da Kinshasa, ma era legata comunque a questa città attraverso un elastico orrore insinuato negli imprevedibili movimenti di truppe. L’ambiguità degli eserciti percorre la capitale insieme ai carri armati bianchi con la scritta UN. La visione di questi carri armati della Monuc dovrebbe essere rassicurante, invece quando li incrociavo a Kinshasa tra la fine del 2005 e la primavera del 2006, pensavo alle voci che avevo sentito alle Journees Philosophiques presso il Philosophat Saint Augustin, a Limete, che avevano come argomento “Justice Internationale & Promotion des Nations”. Qui, il Prof. Charlie Mbadu ed altri intellettuali congolesi, insieme al rettore P. Levesque, discutevano sul caso delle violenze dei militari della MONUC su alcune bambine. Era il 19 Dicembre del 2005.

Kinshasa è una città nella quale è veramente difficile capire quale sia il militare giusto al quale rivolgersi in caso di necessità. La popolazione congolese cerca costantemente di evitare i roulage (gli agenti corrispondenti alla nostra polizia stradale) ai posti di blocco, perché per arrotondare lo stipendio sequestrano le patenti e chiedono un sacco di soldi per la restituzione del documento. Tra loro c’è anche la polizia di stato (in tuta blu metalmeccanico) che non dovrebbe occuparsi del traffico stradale, invece – mitra in spalla – ferma spesso le auto che transitano sull’unica strada che congiunge Masina (un quartiere talmente popoloso da essere soprannominato “Cina”) e il centro di Kinshasa. Blocca i mezzi in transito per gli stessi motivi dei roulage, che si distinguono dai primi perché la loro divisa prevede una camicia gialla.
D’altra parte di militari avevamo avuto bisogno fin dal nostro arrivo all’aeroporto internazionale di N’djili, dove eravamo stati scortati da un agente dell’esercito privato dell’aeroporto, fino al furgoncino che ci aspettava a due passi dall’uscita. Egli urlava a mitra spianato verso il gruppo di questuanti che ci stava stringendo in un cerchio: “Lasciate in pace i passeggeri!”. “LASCIATE IN PACE I PASSEGGERI!” intimò un’ultima volta, avvicinandosi a me per permettermi di salire senza essere derubata. Così, una volta caricata la valigia dietro i sedili, gli dissi “Merci!”, salutandolo militarmente con la mano alla fronte, e mi sorrise in un modo che è impossibile dimenticare. Perché i suoi occhi brillarono improvvisamente, e appena ebbi trascinato dietro di me la porta scorrevole dell’automezzo, un gruppo di giovani in tuta arancione (dipendenti dell’aeroporto) insieme a un gruppo di bambini di strada che ci avevano seguito, battevano dei forti pugni sui vetri e sulle portiere, impedendoci di partire.

La notizia di questa sera durante un tg nazionale, le parole ferme e gravi dell’inviato dell’Onu che denuncia 3.500 stupri avvenuti in questi giorni, mentre i caschi blu stanno a guardare senza intervenire in alcun modo, ma solo “osservando” le più incredibili violenze sulle donne, è veramente sconfortante.

Secondo l’articolo di Massimo Alberizzi sul Corriere della Sera del 7 novembre 2008, “la Monuc non ha mosso un dito” per proteggere gli sfollati che stavano scappando dall’avanzata dei ribelli guidati da Nkunda. Sempre nello stesso articolo di Alberizzi, si dice che l’organizzazione di difesa dei diritti umani Human Right Watch, criticando l’operato dei caschi blu che non hanno organizzato pattuglie per limitare le violenze, ha lanciato un appello insieme ad altre due organizzazioni umanitarie (International Crisis Group e Oxfam) chiedendo ai Ministri della Difesa europei di mobilitare una forza di pace che sia in grado di assicurare la sicurezza dei civili. Questa forza di pace europea dovrebbe essere di sostegno alla Monuc.

Ma ammesso che l’Europa decida di inviare un contingente di sostegno, sarà davvero utile per il popolo del Congo? Metterà in atto una strategia di difesa abbastanza efficace per salvare la vita della popolazione, oppure si farà travolgere dal carosello di interessi che ruota attorno ai terreni ricchi di risorse, per la conquista dei quali si sta perpetuando da anni una carneficina?

Ripenso alle giornate filosofiche. Ripenso al sorriso di un militare congolese in tuta mimetica e kalashnikov, che si è sentito disarmato da un semplice ringraziamento. Mi sento ancora sopraffatta dall’emozione nel ricordare con quale passione gli studenti della R.D.C. hanno cantato l’inno nazionale in apertura del convegno dedicato alla giustizia internazionale, alzandosi in piedi e a piena voce, all’unisono. Patrioti in tempo di guerra. Partigiani della diaspora.
Per le strade di Kin-la-belle, vedo una donna vestita elegantemente, che sta scavando a mani nude nelle fognature a cielo aperto, per risolvere qualche problema della sua città. Vedo i bambini di strada riuniti in bande, di notte, che giocano sui marciapiedi mentre pensano a cosa ruberanno domani per poter mangiare.

Che fare?

Nel Kivu, a Goma, a Kiwanija, la situazione sarà certamente diversa, ma il concetto è sempre lo stesso: i governi, anche quello italiano, dovrebbero fare pressioni affinché gli accordi di pace siano rispettati, e le milizie dovrebbero agire negli interessi della popolazione perseguitata. Invece tutto questo terrore rischia di diventare un anestetico. Il dolore assopisce ogni volontà. Arrivati a questo punto, alla privazione di ogni speranza, la strategia di guerra avrà ottenuto ciò che voleva: deprimere la gente a tal punto da renderla incapace di reagire, in modo da annientarla. E prendere così possesso dei terreni ai quali appartenevano. Per arricchirsi sempre di più.

Le ragazze di Kinshasa ospitate nell’orfanatrofio, avevano i segni della tortura sul viso e sulle gambe e – ancora più profondamente – nell’anima. Ognuna di loro aveva storie dolorose alle spalle. Tutto questo non deve far dimenticare, però, che la gente africana è ospitale, ha il senso della famiglia. Solo che in questa “normalità” del bene, ne è dilagata un’altra, attraverso la guerra civile: la banalità del male. La normalità dell’odio.

C’è molto da fare, poco da capire.

Le donne del Kivu, nel 2003, alla fine della guerra civile, manifestavano con canti e cartelli la loro volontà di pace. Prima di arrivare ad un altro genocidio, dovremmo fare in modo che la loro voce non rimanga inascoltata e che possa essere una testimonianza di quanto la guerra porti solo orrore e dolore, e anestetizzi col terrore più profondo l’innata gioia di vivere che ogni essere umano ha.

Manuela Calvieri

Fonte

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