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Per l’attentato a Rafiq Hariri Nasrallah accusa il Mossad

Il peso delle Intelligence nella politica libanese

(10 Agosto 2010)

Hariri Nasrallah

Hariri e Nasrallah

Finora s’era parlato di Servizi, siriani o iraniani, da lunedì scorso nell’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri entra anche l’ipotesi dell’Intelligence israeliana. La chiamata è di parte, l’ha proposta in conferenza stampa con tanto di video e testimonianze diffuse il leader del Partito di Dio Nasrallah. Seppure nella lunga e articolata analisi, come suo costume politica, il sayyid ha ammesso che “Non si tratta di prove certe, esse possono servire a scoprire la verità”. Soprattutto perché dopo cinque anni né l’Onu, né il Tribunale Speciale per il Libano, creato per indagare sul clamoroso attentato che fece 21 vittime (oltre al capo del governo morì il ministro dell’economia Fleihan), non producono nessun passo concreto in avanti. La tesi di Nasrallah punta su taluni filmati ricavati dai famosi droni che da anni Israele utilizza nella regione - i Territori Occupati palestinesi ne sono costantemente monitorati - per controllare e colpire nemici veri o presunti. Hezbollah catturandone alcuni ha raccolto il materiale video che veniva filmato, fra cui una ripresa che un aereo di ricognizione MK ha compiuto su alcune zone di Beirut: sia la cintura sud della capitale con la roccaforte sciita di Haret Hreit, quindi il piccolo colle dove ha sede il Parlamento, il centro dell’Hamra dove ci sono alcune ambasciate sino al punto del lungomare teatro dell’esplosione del camion-bomba che nel febbraio 2005 colpì premier e scorta che s’accingevano a transitare. Unico particolare: quel documento non ha data e neppure il marchio dell’Idf. Sicuramente i suoi comandi lo disconosceranno.

Che il Libano, privo di aviazione e difesa aerea, sia comunque un territorio in balìa di controlli esterni, in primis da parte israeliana, non è una novità. Satelliti e apparecchiature elettroniche aeree audio-video rappresentano un’evidente realtà, per quanto l’occhio d’osservazione tecnologico e umano abbia al tempo stesso altre nazionalità. E spie che lavorano per loro. A conferma delle proprie congetture il leader sciita mostra le testimonianze di agenti, catturati fino all’anno scorso, che collaboravano con Tel Aviv. La storia parte da lontano, da quando nel 1996 tal Ahmad Nasrallah (non un parente, solo un omonimo!) che prestava i servigi alle informazioni del Mossad veniva intercettato dalla sicurezza di Hezbollah. L’agente era in contatto coi comandi delle guardie del corpo di Rafiq Hariri e ne influenzava i tragitti, avallando le ipotesi d’un probabile attentato alla sua persona di cui da tempo il premier era al corrente. Fra i possibili attori un militante Hezbollah (un agente o un traditore non si sa) che venne arrestato dai siriani. Attraverso le voci dell’agguato e le infiltrazioni si potevano orientare spostamenti del leader e scegliere quando colpirlo. Per poi poter rivolgere le accuse a senso unico sulla componente siriana, che in effetti dopo la sua morte e le immense manifestazioni della piazza beirutina sgombrò il terreno dall’ultima propria presenza armata (Tsahal s’era ritirato dal sud del Libano nel 2000). Altre testimonianze di quelle che risultano spie al soldo sionista, pur essendo come l’agente Nasser un musulmano sciita, o l’agente Sader rivelano d’aver raccolto informazioni su residenze e tragitti extra beirutini di politici di primo piano quali il presidente Suleiman.

Con quest’uscita il capo Hezbollah opera un doppio intervento. Uno mediatico-giuridico per invitare l’ingessato Tribunale, di cui ha fatto parte anche l’italiano Antonio Cassese, ad allargare i suoi orizzonti, visto anche la caduta di accuse rivolte alle forze interne che nel 2009 ha fatto rilasciare i vertici di sicurezza (Sayyed), polizia (Haij), intelligence militare (Azar), guardia presidenziale (Hamdan) di cui s’ipotizzava un coinvolgimento nella strage. La riapertura del tema serve al sayyid anche per ripulire definitivamente il movimento sciita dal fango che Der Spiegel gli aveva gettato addosso con l’accusa a mezzo stampa mai suffragata da prove. L’altro scopo è apertamente politico. E cavalca il momento di ampia tensione vissuto nei giorni scorsi con l’incidente di frontiera nei pressi di Adaissé. E’ grazie all’uso della forza - che ha visto scontrarsi con Tsahal non proprie milizie armate dal vessillo giallo ma l’esercito del Cedro – che Nasrallah può richiamare quei concetti espressi con forza dal presidente Assad anche nei recenti colloqui con Adbullah e Suleiman: la resistenza fa parte della difesa strategica del nuovo Libano. Una linea che, dopo gli iniziali tentennamenti, l’attuale premier libanese Saad Hariri ha incarnato e che lega la componente sunnita e quella sciita passando per le alleanze pur tattiche di Aoun e Jumblatt.

Quanto lo spirito patriottico sia sentito dalle giovani generazioni che cercano sul lungomare di Beirut di dimenticare i rischi provenienti dal cielo e guardano più alla vita civile e al divertimento che alla militanza, è una realtà con cui partiti e confessioni devono fare i conti. Però l’instabilità del quotidiano resta e travalica le stesse differenze sociali che permangono smaccate. L’ultima guerra, quella dei 33 giorni del 2006, ha portato lutti e morti anche nei luoghi simbolo della capitale che rinasce e cercava, già con Hariri padre, un volto ipermercantile e un ritorno alla leggerezza del vivere. Allora, oltre alle teorie di Hezbollah sulle responsabilità del Mossad, possono prender piede ulteriori ipotesi che cercano per altre strade intrecci e mandanti di quell’omicidio che potrebbe scoprire risvolti non solo politici e della politica non solo mediorientale. Poi le conseguenze sono state giocate in loco nell’ampia conflittualità della regione e nel frammentato quadro interno.

10 agosto 2010

Enrico Campofreda

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