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17.5.2011 - Il sindacato insostenibile

(17 Maggio 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.rete28aprile.it

Martedì 17 Maggio 2011 14:43
Analisi del documento finale approvato dal direttivo della CGIL (...)

Il documento finale approvato dal direttivo della CGIL l’11 maggio, può essere analizzato distinguendo gli aspetti più specificamente sindacali e quelli più generali di ordine politico.

La scelta di una simile scansione tematica, è operata con la consapevolezza di un loro necessario successivo ricongiungimento nella fase interpretativa.

Ritengo che il punto più fragile del documento, sia quello in cui vengono avanzate proposte sul nuovo modello di contrattazione. Il facile sfrondamento linguistico per addivenire al nocciolo sostanziale di quanto deliberato, sarà un’operazione posposta all’analisi dell’impostazione politica di fondo, poiché credo che quanto deciso in materia sindacale, rappresenti solo la obbligata traduzione delle coordinate strategiche che si è deciso di far proprie.

Il documento del direttivo segue un’impostazione politico-economica che individua nella crescita, la soluzione della crisi in atto. In tal senso crescita e sviluppo assumono una valenza congiunturale. Nel passo che segue, è ben condensato tale significato:

[…] Il Paese è bloccato, non cresce a sufficienza per garantire la sostenibilità del debito pubblico, la buona occupazione, un welfare universale e inclusivo oltre che un reddito, da lavoro e da pensione, sufficiente ad assicurare un’esistenza dignitosa […

La portata e il significato politico della crescita e dello sviluppo, non vengono però relegati ad una funzione meramente anti-ciclica. Assurgono a paradigmi economici ineludibili, su cui fondare la scelte politiche. Il governo della fenomenologia economica è poi inteso come il fondamento su cui si reggono i nostri “costosi” diritti sociali e del lavoro e, in ultima analisi, la stessa tenuta civile del mondo cosiddetto sviluppato.

La crescita che si indica come obiettivo prioritario, viene spesso accompagnata nel documento, dall’aggettivo sociale.

Per comprendere in cosa si espliciti l’obiettivo di crescita e sviluppo, bisogna partire dal seguente passo:

[…] Tale accordo poggia su una convinzione di fondo: non esiste crescita economica quantitativa che non sia anche crescita qualitativa e miglioramento sociale generale del Paese […

L’intento di qualificare la crescita con una sua necessaria appendice sociale, viene sovrastato dall’ansia di fornire garanzie, che è insita nelle succitate parole.

Il documento sembra voler rassicurare che nessuna crescita qualitativa e miglioramento sociale generale, sarà mai azzardato mettendo in discussione la priorità di una crescita economica quantitativa.

L’obiezione che può essere mossa ad una simile interpretazione, e cioè che la diversa posizione dell’aspetto quantitativo e qualitativo è frutto dell’arbitraria collocazione di chi scrive, è facilmente smontabile, evidenziando che il fatto determinante non è se sia prioritaria l’una o l’altra dimensione, ma proprio la loro contestuale considerazione.

L’impostazione seguita dalla maggioranza della CGIL è la stessa del padronato e delle espressioni politiche multicolori dello stesso.

Questa impostazione è viziata da limiti e ritardi politici gravi:

1) Nonostante almeno quattro decenni di discussioni ed elaborazioni sui limiti fisici della crescita, immagina l’agire economico ancora immerso nel vuoto astratto creato dall’economia politica del pensiero dominante

2) Mancandole il supporto del punto di cui sopra, è ben lungi dall’individuare il nesso che unisce il costo ecologico dello sviluppo con quello sociale. Ossia, per tornare alla terminologia adoperata nel documento, l’incompatibilità tra la auspicata crescita qualitativa e il miglioramento sociale, con la crescita quantitativa.

Ma per poter accendere una luce definitiva sul significato politico che vive tra le parole del documento, bisogna fare riferimento ad un comunicato precedente (“Contratti: Cgil, serve scelta politica che guardi alla crescita”, datato sempre 11 maggio), in cui viene presentato il documento che verrà approvato:

[…] E se queste sono le scelte di fondo che si vorrebbero imporre, non meno preoccupante è lo scenario economico complessivo. “In vista di una riduzione della quota di Pil prodotta dall'Europa nel mondo a vantaggio dei paesi emergenti - ha continuato il sindacalista - sarà inevitabile, da qui al 2015, scaricare i costi di questo riflusso dell'Occidente sul welfare. Si mette in conto una progressiva riduzione dello spazio del welfare pubblico che potrebbe essere sostituito da welfare privato assicurativo e individuale” […

E ancora:

[…] Quale modello dunque si propone? “Un sindacato può fare tante cose ma non può fare a meno di fare contrattazione”, ha detto Solari illustrando le linee del documento della segreteria “legato ad una scelta politica, al raggiungimento di un obiettivo che allo stato attuale è la crescita del paese”. Nella consapevolezza, ha precisato il dirigente sindacale, “che c’è un rapporto diretto tra la crescita e il miglioramento delle condizioni di vita per le fasce che rappresentiamo […] [1

Ecco la maschera cha va giù. La crescita e lo sviluppo, ancorché declinati con gli aggettivi sociale e sostenibile, corrispondono in realtà a null’altro che alla crescita del PIL.

Il legame tra quest’ultimo e il “lusso” di un welfare efficace, è ancor più dogmaticamente accettato (un ridimensionamento del welfare pubblico, viene addirittura definito “inevitabile”, a fronte di una riduzione della quota di PIL).

La volontaria remissività analitica ingenera il tragico effetto comico, di accostare una paventata sostituzione del welfare pubblico con uno di tipo privato, a causa della scarsa crescita, scambiando nuovamente l’effetto per la causa, visto che proprio i dettami della crescita quantitativa, impongono una progressiva mercificazione dei servizi che sono tuttora regolati in regime diverso da quello privato (non solo i servizi sociali, ma anche la gestione di risorse basilari per la vita come l’acqua o la qualità ambientale dipendente dallo smaltimento dei rifiuti, per non parlare del consolidato “core business” padronale concernente il modello energetico, vera ipoteca del nostro futuro).

L’impostazione politica sottesa, risulta completamente refrattaria ai fermenti che anche in Italia (per esempio con la creazione del coordinamento “Uniti contro la crisi”) indicano sempre più nitidamente la necessità di un strategia di lotta, che superi non solo l’ipocrisia dello sviluppo sostenibile (dove ad essere sostenibile negli intendimenti di chi utilizza il concetto, è solo la crescita del PIL) ma anche le surrettizie conciliazioni delle esigenze di sviluppo, giustizia sociale e rispetto dell’ambiente, le quali sono viziate geneticamente dal concepire le tematiche suddette come scompartimenti stagni.

Una strategia che, partendo da un’analisi della devastazione ambientale e sociale come prodotti simultanei delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, riesca non solo a contribuire a livello politico alla costruzione di un soggetto realmente alternativo alle destre e sinistre agenti politici del capitale, ma anche, per tornare all’ambito sindacale, ad incistare quale incipit dell’attività conflittuale e delle pratiche rivendicative, le omesse domande sull’oggetto del lavoro e le sue conseguenze in termini di impatto ecologico.

Questo implica lo sganciamento definitivo da una logica economica in cui la creazione di posti di lavoro e il loro mantenimento, divengono fenomeni intrinsecamente giustificati, svincolati da un effettivo soddisfacimento dei nostri bisogni attuali e prospettici.

Proprio qui si innesta concettualmente l’incrocio obbligato tra temi politici e sindacali di cui si diceva ad inizio di questo scritto.

Nella visione padronale alla Marchionne, territori, regioni, Stati, rappresentano le unità di riferimento della competizione globale in atto. Blocchi sociali indistinti che hanno come unico obiettivo quello di risultare vincitori.

Il diritto, nella guerra economica planetaria, rappresenta un fattore di rigidità che va rimosso.

Il ruolo che ha assunto la contrattazione collettiva nazionale nella regolazione degli interessi del capitale e del lavoro, non può che risultare un elemento disfunzionale nella logica suddetta.

L’ammissione di una simile svolta nel modello di relazioni sindacali, viene diluita nel documento del direttivo, attraverso una serie di sottili distinguo.

Così, mentre si fa una dichiarazione di principio come la seguente:

[…] La CGIL pensa che vada superato il rischio di un’ulteriore frammentazione del sistema produttivo e del mondo del lavoro insito nella pratica della derogabilità dei CCNL. I CCNL devono fissare regole universali e diritti certi per tutti i lavoratori che fanno riferimento al loro perimetro […].

Si incide proprio quella realtà tuttora ancora vigente, richiamata nella dichiarazione, con il bisturi del cambiamento sostanziale qui di seguito riportato:

[…] Fermo restando il ruolo di regolazione generale normativa ed economica del Ccnl, i nuovi Contratti collettivi Nazionali dovranno essere meno prescrittivi e più propositivi di una contrattazione di secondo livello sulle reali condizioni di lavoro […

Distinguo e sottigliezze di cui è facile cogliere la contraddittorietà, finanche lessicale, come accade per il seguente passo, presente nel comunicato “Contratti: Cgil, serve scelta politica che guardi alla crescita”:

[…] La proposta della Cgil vuole quindi “provare ad aggredire i nodi della scarsa crescita attraverso un modello che escluda la logica delle deroghe ma che preveda la possibilità di aderire a situazioni diverse, che si adatti cioè a realtà sempre meno omogenee” […] [2

Laddove la ricerca in un dizionario del termine deroga, produce un simile risultato:

diversamente da, facendo eccezione rispetto a

Ossia quanto detto (aderire a situazioni diverse) nella parte propositiva, è identico a quanto affermato nella parte negativa (escludere la logica delle deroghe).

Il comunicato “Contratti: Cgil, serve scelta politica che guardi alla crescita”, risulta ancora una volta determinante per la comprensione della portata dispositiva, che invece nel documento approvato, come abbiamo visto, viene sepolta da perifrasi e coperture lessicali

[…] Ci vuole, cioè, “un salto non banale, visto che le scelte che stanno in campo riguardano la radicale trasformazione del sistema della contrattazione” […] [3

Ed infine:

[…] Abbiamo bisogno di un nuovo modello contrattuale ‘appiccicato’ ad una precisa scelta politica come è successo nel 1993 […

Dove per scelta politica, si può leggere, alla luce di quanto detto in questa analisi, quella che si è indicata come opzione della crescita infinita.

Una crescita in cui il progressivo deterioramento delle condizioni di produzione fisiche e sociali, si accompagna necessariamente ad una riduzione delle loro espressioni politico-giuridiche.

Un avvitamento in cui, il ruolo che la maggioranza del più grande sindacato italiano sembra aver scelto, è quello di certificatore subalterno delle esigenze del sistema delle imprese, pronto, in virtù delle insorgenti difficoltà della competizione globale, a negoziare la perdita di diritti certi, in cambio di un lavoro sempre più incerto, disancorato dagli effettivi bisogni ed ecologicamente insostenibile.

Rete del 28 aprile per l'indipendenza e la democrazia sindacale

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