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Indignados

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(16 Ottobre 2011) Enzo Apicella
15 ottobre 2011. 900 manifestazioni in 80 paesi

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    La violenza, la rivolta

    (16 Ottobre 2011)

    Roma 15/10

    Tante facce sorridenti nel corteo e poi i bastoni dei cartelli, come nell’antica canzone. E i fuochi e i danneggiamenti. Lo spettro della violenza che dilaga, devasta, infanga gli ideali. Davvero? A sentire pacifisti e pacificatori è così. Con l’aggiunta della scomunica di chi, traendo rendite di posizione nelle vesti di leader si sente pontefice e discetta su bene e male. Sui cancri da estirpare per poter disporre dell’altrui indignazione al piacimento dei rinati disegni politici della sua parrocchia. E’ la supponenza che evita di osservare e confrontarsi con la complessità di un pezzo di società che rifiuta di vivere schiavizzata dal liberismo e dai poteri delle banche. Uno dei due elementi che salta agli occhi nella manifestazione di Roma è proprio quello di una piazza enorme, antagonista, dignitosa, indignata, rabbiosa e ribelle. Ricca di esperienze e risorse diverse, che non si fida dei partiti - anche per quello che i partiti di una recente sinistra nata antagonista e finita poltronista rappresentano - ma che non può camminare nella spontaneità e deve fare i conti con la politica. Una piazza con anime e provenienze differenti, legate a successi ottenuti con l’urna del referendum (Acqua bene comune) e altre che non possono fare a meno della rottura (No Tav). Trattativa e sampietrino sono solo strumenti rivolti a un fine, come insegnano decenni di lotte sociali. I protagonisti delle stesse devono decidere quando e come usarli, senza teorizzare vie salvifiche per l’una e inferni nel caso opposto.

    Sulla violenza, l’altro elemento apparso a Roma, si riapre il can-can mistificatorio. Tralasciando quello dell’informazione di Stato che pratica il lavoro sporco di un aprioristico supporto ideologico, nelle voci politiche e mediatiche della sinistra che ha tagliato i ponti con la stessa storia di cui portava simboli il tema riappare come un fantasma. Questione non da oggi scomoda perché correlata con obiettivi e finalità. I quali, se diventano il fare l’eco al sistema, non possono concepire né rotture né lotte ma solo simboliche deleghe per la cogestione. Lo sanno da anni i precari, giovani e maturi, e l’ultima classe operaia che si vuol far sparire, alla Fiat o a Fincantieri. Lo sa chi difende coi denti l’occupazione in ogni settore. Lo sanno i giovanissimi senza futuro che, alla stregua dei guerriglieri (per tutti Black block) del corteo romano o di uno Stato in dissoluzione come la Grecia, parlano solo di presente. Loro, forse a ragione, non vedono altro. Il problema non è la vetrina rotta. Il problema può essere la comprensione dell’utilità e del momento per farlo. E credere che non farlo sia garanzia di futuro per una protesta solo pacifista oppure finalizzare a un luddismo autoreferenziale la rabbia di contraddizioni sociali devastanti nelle vite comuni e soggettive è follia. La ragione non ama la forza, ma lo strumento della forza ha ragione d’esistere per alleviare dolori. Le pene profondissime che il mondo globalizzato realizza ovunque sono sotto gli occhi di tutti. Oggi solo gli stolti e le cattive coscienze possono guardare ai cocci.

    16 ottobre 2011

    Enrico Campofreda

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