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REFERENDUM SUL LAVORO (ART. 18 L. 300/70 E ART. 8 L. 138 bis),
UN’OPPORTUNITA’ DI MOBILITAZIONE O UNA RINUNCIA ALLA LOTTA?

(3 Ottobre 2012)

Uno schieramento vario e composito delle sinistre, Di Pietro, Vendola, Ferrero, Diliberto, Bonelli, la Fiom, Alba, due giuslavoristi come Romagnoli e Alleva, altri pezzetti della Cgil, tra cui Gianpaolo Patta e Gianni Rinaldini, ha costituito il Comitato Promotore che ha depositato in Cassazione questi due quesiti referendari relativi all’art. 18 L. 300/70 (Statuto dei Lavoratori) e dell’art. 8 L.138 bis(Manovra Finanziaria). A sostegno di questi Referendum si stanno accodando altri soggetti della sinistra politica, sociale e sindacale.
La nostra non sarà un’analisi completa del problema, proviamo però a presentare alcuni aspetti critici secondo noi importanti e, possibilmente contribuire ad una riflessione più generale. Certo queste riflessioni sono un punto di vista di parte, di alcuni compagni attivi sui propri posti di lavoro e nel territorio.
L’articolo 18 è diventato già da anni un problema simbolico molto forte. Allo stesso tempo si tratta di una maniera per distogliere l’attenzione da un attacco più complessivo che riguarda i salari, gli ammortizzatori sociali, i contratti nazionali di categoria, etc.. Oggi con la scusa dell’emergenza prodotta dalla crisi, si vuole completare lo smantellamento delle conquiste ottenute dal movimento operaio nel passato. Per i padroni e per i loro governi l’art. 18, da una parte, è una questione di principio, visto che questo strumento è utilizzabile in casi sempre più limitati e che milioni di lavoratori e precari sono oggi già esclusi dalla sua tutela. Per la borghesia è quindi una questione di principio perché si tratta di recidere ogni ricordo delle lotte degli anni ‘60 e ‘70, per concludere un periodo di restaurazione antisociale iniziato oramai molti anni addietro. Dall’altro l’abolizione parziale o completa di quest’articolo dello Statuto dei Lavoratori è un modo concreto ed efficace per eliminare le avanguardie più combattive dalle aziende medie e grandi.

Nella fase attuale di crisi del capitalismo, il riformismo nostrano offre armi sempre più spuntate che si trasformano in brucianti sconfitte per i lavoratori e le lavoratrici.
Sembra che la storia, anche quella molto recente, non insegni proprio nulla, a neanche dieci anni, era il 2003, dalla batosta del Referendum promosso da Rifondazione Comunista, per l’estensione dell’art. 18 ai lavoratori delle aziende con meno di quindici dipendenti, si vuole ripercorrere la strada che portò a quella cocente disfatta. Non era, del resto, la prima volta che si perdeva un Referendum, ma mai con quelle proporzioni. Il 15 giugno 2003 andarono a votare 12.667.178 cittadini e cittadine pari al 25,6% degli aventi diritto al voto, lontanissimi dal quorum necessario alla validazione della consultazione. Un fallimento pesante ed inconfutabile che ha ulteriormente deluso e demoralizzato i lavoratori e le lavoratrici. Un risultato pessimo che i padroni hanno sfruttato al meglio.
Sarebbe interessante sapere dai promotori di questa iniziativa, cosa sia cambiato in meglio in Italia, in termini di consenso e coscienza rispetto a nove anni fa, perché a noi sfugge proprio.
Prima di addentrarci in alcune critiche sull’istituto referendario, sui suoi pro e contro, è forse il caso anche brevemente di rinfrescarci la memoria su alcuni dei precedenti Referendum, relativi al mondo del lavoro, promossi negli anni ’80 e ’90.
Il 9 e 10 giugno 1985, si votò per esprimersi se abrogare il cosi detto decreto di San Valentino poi divenuto legge, che tagliava quattro punti percentuali della Scala Mobile. Per l’abrogazione, si schierarono il PCI(promotore del Referendum), DP, Lista Verde e MSI. Dall’altra parte schierati per il NO, tutto il Pentapartito più i Radicali. Nonostante vi fosse ancora un forte e combattivo movimento dei lavoratori, votarono 34.959.404 persone, il quorum fu raggiunto e il SI ottenne il 45,7 mentre il NO arrivò al 53,3. Una grave disfatta che peserà non poco tra i lavoratori e le lavoratrici. Il lavoro iniziato da Craxi sarà portato poi a termine da un altro socialista, Amato, neanche dieci anni dopo con l’eliminazione della Scala Mobile che sarà “sostituita” dal cosi detto Elemento Distinto della Retribuzione.
Finita la prima Repubblica, nel 1995, alcuni sindacati di base, Rifondazione e sinistra Cgil si fecero promotori di due Referendum relativi entrambi alla modifica dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, più un terzo sulla Contrattazione nel Pubblico Impiego, mentre un quarto quesito, invece era promosso da Radicali e Lega, e riguardava l’abrogazione della norma che imponeva la contribuzione sindacale automatica ai lavoratori. L’11 giugno gli italiani andarono alle urne per esprimersi su un totale di 12 quesiti referendari(tranne i tre di cui sopra, gli altri erano promossi dai radicali), questo ed altri fattori favorirono l’afflusso ai seggi e il raggiungimento del quorum. Si ebbe una “vittoria fittizia”. Il primo quesito sull’articolo 19, quello promosso da una parte del sindacalismo di base che voleva l’abrogazione dell’articolo, che attribuiva alle Confederazioni maggiormente rappresentative la titolarità della rappresentanza(richiesta massimale) non passò. Con un quorum del 57,2%(27.218.366 voti), i SI arrivarono al 49,97%, mentre i NO ottennero il 50,03%.
Al primo quesito su l’articolo 19, se ne era aggiunto un secondo in opposizione al primo, promosso dalla sinistra Cgil dell’epoca, di parziale abrogazione dell’articolo stesso(richiesta minimale), la cui approvazione ha prodotto l’attuale situazione. Con il 57,2%(27.702.339 voti) si raggiunse il quorum. Il SI ottenne il 62,1%, mentre il NO il 37,9%.
Gli altri due quesiti relativi alla contrattazione nel pubblico impiego e alla contribuzione sindacale automatica videro il raggiungimento del quorum e una vittoria del SI.
Incredibilmente e a sfregio di quella consultazione il segretario della Fiom, oggi, chiede (al Governo?) di ripristinare l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori come era prima del Referendum abrogativo parziale(intervista a Landini su la Repubblica del 17 gennaio di quest’anno), cioè di ripristinare quel primo comma che attribuiva alle Confederazioni maggiormente rappresentative(CGIL,CISL,UIL e oggi la cooptata UGL) il monopolio della rappresentanza. Oggi la formulazione uscita dal Referendum del ‘95 colpisce, penalizzandola, la Fiom, così sostengono sia Landini che Fassina, divisi sull’attuale proposta referendaria, ma uniti nell’avversare l’esito della Consultazione del 1995, per imporre alle controparti padronali la Fiom come organizzazione riconosciuta tramite una legge dello Stato. Rinunciando così ad imporsi alla controparte sulla base dei rapporti di forza(il Sindacato dei Metallurgici conta più di 360.000 iscritti, ma ci sembra abbia un potere contrattuale minore di quello che hanno qualche migliaio di tassisti). Negli anni l’abrogazione parziale dell’art.19 ha colpito e fortemente limitato anche la crescita del sindacalismo alternativo impedendogli spesso di avere le trattenute sindacali, il diritto a tenere assemblee in orario di lavoro, di sedere ai tavoli negoziali anche nelle aziende in cui rappresenta una cospicua e/o maggioritaria parte dei lavoratori. Questo scempio si è andato ad aggiungere all’accordo della triplice, CGIL,CISL,UIL del ‘93 che attribuiva ai firmatari di contratto nazionale la riserva del 33% degli eletti nelle RSU a prescindere dai risultati elettorali, e di cui anche la Fiom ha lungamente beneficiato.
Comprendiamo l’inquietudine ed il tormento del Sindacato dei Metallurgici, attaccato frontalmente da Marchionne, messo all’angolo in aziende in cui la presenza della sua organizzazione è forte e radicata. Ma la dirigenza Fiom invece di farsi punto di riferimento di una ricomposizione del sindacalismo di classe e conflittuale, aldilà di qualche distinguo come questo dei Referendum, utile al recupero di consenso a sinistra, ci sembra sempre più appiattita ad una visione del Sindacato non troppo distante dal resto della Confederazione diventata da decenni una burocrazia parastatale con un’idea dell’organizzazione dei lavoratori che ha come modello, delle relazioni sociali basate sulla collaborazione(cogestione) tra le classi nell’interesse generale della nazione. Una visione e una pratica del sindacalismo in sostanza neocorporativo.
L’istituto referendario meriterebbe un approfondimento maggiore, viste anche tutte le implicazioni relative a quale tipo di democrazia ci interessa coltivare e sviluppare. Alcune brevi considerazioni sono però d’obbligo, visto che in questi ultimi anni c’è capitato di dover prendere posizione di fronte ad alcuni appuntamenti importanti come quelli sull’acqua ed il nucleare. Si tratta dunque di uno strumento di democrazia diretta che consente agli elettori-cittadini di fornire - senza intermediari - il proprio parere o la propria decisione su un tema specifico oggetto di discussione? Alcuni sostengono che l’utilizzo dell’istituto referendario è tuttavia indesiderato dalla maggior parte dei partiti politici, perchè il potere più rilevante dei partiti, consiste proprio nel controllo sulle procedure mediante le quali viene presa la decisione e si legifera, e quindi con il Referendum è l’intera classe politica che si sente espropriata della sua funzione.

Il Referendum è per noi un’arma a doppio taglio, da una parte infatti questo tipo di strumento oggi come oggi, in questa società, può essere un’arma plebiscitaria in mano ad una borghesia che detiene il monopolio dei mezzi di comunicazione, e che quindi è in grado di manipolare a suo piacimento informazioni e notizie, capace di determinare un consenso ampio tra le masse alla sua politica. Dall’altra parte, in alcune situazioni specifiche, è innegabile che su alcuni temi particolari(di carattere più interclassista) ci possa essere un sentimento diffuso di opposizione anche a ciò che i mass media propagandano, è stato così con le consultazioni relative al no al nucleare, alla depenalizzazione delle droghe leggere, fino a quella sull’acqua pubblica(accenniamo solo ai Referendum vinti, più recenti). In questi casi, nonostante i risultati delle votazioni, i Referendum sono però rimasti in buona parte lettera morta. Del resto per rendere inefficace una Consultazione basta che il Parlamento modifichi la legge in questione prima delle votazioni e il Referendum salta. Così come la vittoria in una consultazione referendaria non è garanzia di nulla, poiché la maggioranza parlamentare può sempre fare una legge, anche peggiorativa di quella precedente la Consultazione e vanificare così il Referendum e tutti gli sforzi fatti in tal senso. Un’altro problema non secondario è relativo al requisito del raggiungimento di un quorum per la validità del voto e dei suoi effetti. Se i contrari, in una consultazione, si dividono tra chi vota no e chi non vota per non far raggiungere il quorum, il sì può vincere anche con una minoranza: ad esempio se il 25% più 1 votano sì, il 25% vota no, il 25% non vota per non far raggiungere il quorum, e un’altro 25% sono quelli che comunque non vanno a votare, il quorum viene raggiunto e vince il sì, anche se i sostenitori del no sono il doppio. Del resto il 50% più uno è una maggioranza reale? Non vogliamo però sostenere che il Referendum non possa essere, in alcuni casi, uno strumento da utilizzare, ma visti i limiti e le contraddizioni insiti di per sé in questo istituto, crediamo che ne vada fatto un uso attento ed intelligente. D’altro canto non possiamo neanche nasconderci che oggi dietro i Referendum si cela un modo per attingere ai finanziamenti pubblici, sappiamo bene infatti che per i promotori delle consultazioni ci sono lauti rimborsi elettorali.
Alla fine di questo ragionamento ci chiediamo: “Perché mai dovremmo andare a chiedere di votare per noi, a commercianti, liberi professionisti, datori di lavoro, ect., su un tema così particolare? Più in generale perché una massa eterogenea di lavoratori impiegati nelle piccole aziende, milioni di precari e lavoratori al nero senza contare la miriade di lavoratori formalmente autonomi, tutti lavoratori che l’articolo 18 dello Statuto non lo hanno mai conosciuto come una tutela concreta, dovrebbero recarsi alle urne e votare per l’abolizione dell’attuale modifica all’articolo?
Saremo maliziosi ma questa storia dei Referendum sul lavoro non ci piace proprio e ci sembra funzionale ad un ceto politico della sinistra inamovibile che unitamente alle burocrazie sindacali tenta di salvare la faccia di fronte alla propria base. Già li sentiamo, questi signori, argomentare la sconfitta con parole del tipo: “Noi ci abbiamo provato…ma che colpa abbiamo noi se questo paese è diventato di destra…”
Questa iniziativa è quindi per noi fuorviante e pericolosa per tutti i lavoratori “garantiti“ e/o precari che siano. Il problema non è solo la ricerca di visibilità della maggior parte delle forze politiche del Comitato Promotore, in vista delle prossime scadenze elettorali. Il vero problema è la rinuncia totale a costruire campagne di mobilitazione e lotte articolate a livello nazionale per la difesa dell’art. 18. Paradossalmente Cofferati, che non è certamente più a sinistra degli attuali promotori di quest’iniziativa, una grande mobilitazione di massa è riuscito a promuoverla!
La battaglia in difesa dell’articolo 18 e più in generale, di tutte le conquiste sociali ha un senso solo se si trasforma in una battaglia più generale per l’allargamento dei diritti a chi ne è escluso. Unico elemento, questo, che può trasformare una lotta di difesa, in una battaglia offensiva, di rilancio di una prospettiva tesa alla riconquista di diritti, agibilità, libertà nonché di salario, e che può unificare una classe frammentata e divisa, contro l’Europa dei padroni e della finanza e le loro politiche di rapina e guerra.

Roma sett. 2012

CENTRO DOCUMENTAZIONE ANTAGONISTA –LA TALPA

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