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Ricordando Stefano Chiarini

Ricordando Stefano Chiarini

(6 Febbraio 2007) Enzo Apicella
E' morto Stefano Chiarini, un giornalista, un compagno,un amico dei popoli in lotta

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    Togliatti e togliattismo: anniversario di lacrime e collaborazionismo

    (4 Settembre 2004)

    Era il 21 agosto del 1964, quando a Yalta Palmiro Togliatti, alias Ercole Ercoli, “Alfredo-Madrid-Contreras (pseudonimi assunti in Spagna), Mario Correnti (nell’Italia di Badoglio), dava l’addio ad un’esistenza perpetuata attraverso crimini contro compagni e lavoratori e al servizio di un lavoro sistematico dal nome di controrivoluzione.

    “Clown buono per tutti gli usi” (la celebre locuzione appartiene al compagno Tresso, morto assassinato in Francia per ordine di Cerreti e su complicità di chi sopra) ha incarnato meglio d’altri, ma anche come i più che prenderanno dopo di lui il timone del partito, quella bramosia di stampo bonapartistico che non mancherà certo di un crescendo di survoltaggi opportunistici, capriole e abbracci politici letali.

    Togliatti fu con Bordiga negli anni di Bordiga, con Gramsci al tempo di Gramsci, collaboratore fedele di Bucharin fino al VI Congresso dell’Internazionale Comunista, allorquando sorprenderà l’allora capo del Komintern (insieme col quale poco tempo addietro si era adoperato –con successo- per silurare Zinov’ev) approdando sulle coste di Stalin e raccogliendo quella zavorra nota sotto la sigla di “terzo periodo” (formula di Stalin-Thaelmann satura di avventurismo e condita con l’altra aberrazione del “socialfascismo”).

    Bucharin, spiegherà nel 1933 Victor Serge, contava al Comitato Esecutivo dell’I.C. su una maggioranza combattuta, gracile, ma nei numeri granitica. “Come è potuta avvenire la conquista del Komintern da parte di Stalin? Bucharin è tradito! Da Ercoli!”.

    A margine di quest’ “accidente”, con impudica infiorettatura politica, Togliatti scrive:
    “Bucharin aveva i caratteri di un professorino presuntuoso e intrigante. Era il lui, come negli altri, la stoffa del doppiogiochista e del traditore” (si pensi allo zoppo che accusa l’altro di claudicazione…).

    Togliatti indosserà, a partire da questo episodio e senza più smetterla , la divisa di Stalin; una nuova divisa che ungerà del sangue dei lavoratori ed ornerà dei meriti riconosciutigli dai riformisti dell’oggi e da quella borghesia italiana che pazientemente ha trascinato fuori dal pantano del dopoguerra. A fare immediatamente le spese di questo suo personale nuovo corso saranno, su tutti, i “tre” Blasco, Leonetti, Ravazzoli (i quali aderiranno successivamente all’Opposizione di Sinistra Internazionale), ma è chiaro che non saranno gli unici ostacoli rimossi brutalmente e con l’arma della menzogna sulla strada della definitiva ascesa al potere di Togliatti.

    Gramsci, dal canto suo, nulla può in una fase nodale della lotta alla nuova bisogna stalinian-togliattiana.

    Costretto in galera dai fascisti e dal gruppo dirigente del PCI (si rammenti l’episodio della lettera a lui spedita da Grieco, come a tanti altri avvenimenti segnalati a profusione in questi ultimi anni), in molti faranno luce sull’origine del suo isolamento, accentuatosi proprio in un momento di battaglia campale contro la nuova politica dei becchini della rivoluzione. Il giudice istruttore ad esempio chioserà al processo del compagno sardo: “Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano lei rimanga un pezzo in galera” ; e Stalin stesso denuncerà –strumentalmente- la sua carcerazione prolungata attribuendone la colpa al Togliatti appena di ritorno dalle scorribande spagnole (Ercoli seppe però bordeggiare nel rischio della sua trasformazione ad unico capro espiatorio di questa ed altre responsabilità, dando nuove garanzie d’affidabilità a Stalin).

    Togliatti non ebbe, nonostante tutto, remore nel fare di Gramsci un eroe, un’immagine mistica cui invitare tutti ad ispirarsi. Ma indubbiamente non era, questa, una novità nella storia dei tradimenti e dei traditori del marxismo.

    Già Lenin scriveva chiaramente in “Stato e Rivoluzione”, riferendosi ai rivoluzionari:
    “dopo morti si cerca di trasformarli in icone, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a «consolazione» e a «mistificazione» delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce”.

    Ai fascisti che lasciarono morire di tisi proprio Gramsci, Togliatti aveva avuto modo di rivolgere un accorato appello nel 1936 dalle colonne di “Stato Operaio”:

    “Diamoci la mano, figli della Nazione italiana.
    Diamoci la mano, fascisti e comunisti, cattolici e socialisti,
    uomini di tutte le opinioni”
    ,

    indicando altresì quale base di percorso politico comune il programma sansepolcrista dei fasci di combattimento mussoliniani! E non rifuggì dal dichiararsi soddisfatto -scrivendo di sua mano, il 25 agosto, un comunicato d’approvazione a nome del PCI sul nuovo accordo raggiunto- per il nuovo patto Stalin-Hitler del 23 agosto 1939, ovvero per l’intesa Ribbentrop-Molotov che sanciva la non-aggressione tra nazisti e sovietici e colla quale si procedeva alla spartizione della Polonia.

    Ad Hitler Stalin consegnò personalmente migliaia e migliaia di comunisti tedeschi ed austriaci rifugiatisi in Urss, mentre Ercoli, che già era stato tra i demiurghi dei sanguinari processi di Mosca, nelle vesti di segretario del Komintern si era prima dedicato alla eliminazione di diversi dirigenti del KPD (si pensi ad Eberlein, Neumann, Remmele, Kiepenger), poi a quella di alcuni capi del partito ungherese come Bela Kun e dell’intero gruppo del Partito Comunista Polacco (lo ha raccontato Renato Mieli, ex dirigente della sezione esteri del PCI, nel suo Togliatti1937).

    Indi in Spagna (restiamo nel 1937), Togliatti sarà commissario politico del Partito Comunista locale su mandato di Stalin. Trosky ne “La lezione della Spagna” evidenzia la necessità da parte dell’opportunismo termidoriano di commissari, cellule, uomini senza scrupoli preposti al sostegno della proprietà borghese e a soffocare la rivoluzione in terra iberica, si’ da garantire quindi un passaggio progressivo dei poteri verso Franco.

    Togliatti è l’uomo giusto per assolvere a tale compito. Porteranno la sua firma la repressione degli anarchici a Barcellona e Bilbao, la liquidazione del POUM, l’uccisione di Andrès Nin e Camillo Berneri.

    Arrestato in Francia allo scoppio della guerra, avrà la “fortuna” di evadere dalle carceri e di sistemarsi subitaneamente, grazie alle ingenti somme di denaro spese dal Komintern , in un albergo parigino.

    Tornerà in Italia nel 1944, su consiglio e osservazione della burocrazia moscovita, dando vita alla “svolta di Salerno” , prima tappa della “via italiana al socialismo” lanciata all’VIII Congresso del PCI. C’è chi (magari qualche storico barese indecorosamente prestato alla politica) in questi ultimi passaggi storici ha visto un moto di allontanamento di Togliatti da Stalin, nonché lo yin e lo yang che permetteranno poi al PCI di mantenere durevolmente una rotta “altra” rispetto agli accadimenti russi. Nulla di più falso!

    Quasi religiosamente il PCI, che pure vedeva nell’Italia del dopoguerra un succulento boccone per il soddisfacimento dei propri appetiti nazionali, seguiva alla lettera le incipienti disposizioni di Stalin.

    Prima ancora che il Komintern venisse sciolto (1943), Stalin e Dimitrov, vedi per consolidare la collocazione dei comunisti all’interno degli apparati imperialisti europei, vedi per allontanare i riflettori d’Europa e del mondo sulle tensioni in Russia, scrivono:

    “Bisognerebbe far diventare i partiti comunisti assolutamente autonomi e non sezioni dell’Internazionale Comunista. Essi devono trasformarsi in partiti comunisti nazionali con diverse denominazioni. Il nome non è importante… debbono basarsi su un’analisi marxista, ma non con lo sguardo rivolto a Mosca: che risolvano autonomamente i compiti concreti” (Stalin, 20 aprile 1941) ;

    “Bisogna sviluppare l’idea di un sano nazionalismo: nella fase attuale è necessario che i partiti comunisti si sviluppino come partiti nazionali autonomi” (Dimitrov, 12 maggio 1941).

    Queste dunque son le faville anche di bolle iridescenti postume, scoppiate nel compromesso storico e nell’eurocomunismo di berlingueriana memoria.

    Togliatti diventerà nel frattempo ministro senza portafoglio con Badoglio e sotto il primo governo Bonomi; è vicepresidente del Consiglio di nuovo con Bonomi, in seguito ministro della giustizia con Parri e De Gasperi. Il suo servigio alla borghesia (come da copione per i comunisti attori di un patto governativo con i poteri forti) è magistrale: il carteggio Churchill-Mussolini, sottratto al duce dai partigiani e sconosciuto in Italia, giungerà in Gran Bretagna senza più far ritorno nel nostro Paese; l’amnistia ai fascisti e l’occultamento dell’elenco dei collaboratori dell’Ovra saranno altri due prodotti esemplari della sua attività bigia di governo (il fascista Marchesi per giunta diventerà suo prezioso collaboratore); il codice Rocco resterà un pernio della nuova organizzazione giudiziaria.

    Togliatti partecipa attivamente alla stesura della Costituzione italiana, solido inno alla proprietà privata, votando a favore dell’art. 7, frutto dei Patti lateranensi stretti tra Mussolini e Pio XI (voto accompagnato dalla infausta previsione: “Questo voto ci assicura un posto al governo per i prossimi venti anni!”).

    Morto Stalin nel 1953 (“il nostro più grande amico” scriverà quel Berlinguer segretario della Fgci, messo a capo sempre da Stalin della Federazione mondiale della gioventù democratica), Togliatti, “l'uomo che, alla scuola di Stalin, più ha fatto per la liberazione nazionale e sociale del nostro Paese” (così recitava il comunicato del PCI del 7 marzo), avverserà fino al giorno del suo ictus cerebrale qualsiasi, pur timido -come ingannevole- tentativo di messa in discussione del “culto della personalità” e dei suoi strascichi criminosi. I gemiti d’indignazione, lo iato politico che aprirà con Khrustciov , che non gli impediranno comunque di sostenere questi nella repressione della lotta ungherese (“un putsch fascista e reazionario” per l’Unità) e nell’impiccagione di Nagy, ne sono una testimonianza vivida.

    Così commentò in Russia il rapporto al XX Congresso (i cui contenuti anti-staliniani saranno poi bollati come “inesistenti; cattive voci della stampa reazionaria” anche da un Ingrao evidentemente non ancora votatosi alla non-violenza), rivolto a Scoccimarro, Bufalini e Cacciapuoti, desiderosi di delucidazioni in materia: “Non c’è nulla. Panni sporchi, pettegolezzi”, e una volta in Italia aggiunse: “La linea del partito fu giusta prima della guerra, nella guerra, dopo la guerra” . Nel 1958, cogliendo –va ammesso!- il vero nerbo della “nuova fase”, replicò: “La destalinizzazione è una di quelle parole che servono ad erudire i fessi. Cioè a creare nozioni cui non corrisponde nulla di reale”.

    Questa, in estrema sintesi, è stata la storia della vita e degli orrori di Ercoli; una storia abietta e ancor più densa di pagine oscure rispetto a quanto si è appena scritto. Ma non andremo più ad infierire, né a rivangare altre vicende spiacevoli per il movimento operaio: il “Maestro” è morto, così come stanno morendo tante false convinzioni costruite sulla sua persona. Se c’è qualcosa però che ancora ha da essere seppellito è il togliattismo, insieme con le sue sedimentazioni quotidiane.

    Riprendendo quelle che son state le coordinate dettate al suo tempo da Togliatti (il potere è tutto, il cambiamento è nulla, potremmo dire parafrasando Bernstein) il Partito della Rifondazione Comunista si appresta a governare con i rappresentanti della borghesia, piegando gli interessi dei lavoratori, le potenzialità di lotta dei movimenti di massa e delle nuove generazioni in favore dell’Ulivo, dei Prodi, dei D’Alema e dei Montemezolo.

    Se con Togliatti e lo stalinismo vogliamo chiudere, è con questa tradizione e approccio ai fatti, con questi vecchi e nuovi compromessi, per dinamici che siano, che noi iscritti al PRC, militanti dei movimenti e fautori di un “altro mondo” dobbiamo fare i conti !

    Roberto Angiuoni
    (AMR Progetto Comunista - sinistra del PRC - Roma)

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