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La battaglia del clima

(13 Dicembre 2012)

Più la scienza del clima si precisa e acquista certezza, «più l'azione politica diventa incerta», scrive Sunita Narain in un commento pubblicato del Centre for Science and Environment, centro di ricerca e di intervento per la giustizia ambientale che ha sede a New Delhi, in India. «Da vent'anni - scrive - il mondo mercanteggia su chi deve tagliare le emissioni di gas di serra, e di quanto. In questi vent'anni, la scienza è diventata molto più precisa nel descrivere il cambiamento climatico. E il mondo sta cominciando a vedere a cosa assomiglierà il futuro: sempre più frequenti fenomeni estremi come l'uragano tropicale Sandy o il tifone Bopha devastano vita e sopravvivenza di milioni di persone». Ma la conferenza delle Nazioni unite appena conclusa a Doha, in Qatar, dimostra che questi disastri ripetuti non hanno infuso un senso di urgenza nei governi, continua Sunita Narain. «Il documento di Doha è pieno di parole, ma niente azione. C'è l'accordo per un secondo periodo di impegni secondo il Protocollo di Kyoto, ma con obiettivi deboli e un sacco di scappatoie. Gli Stati uniti [che non hanno mai ratificato quel Protocollo, ndr ] non si sono impegnati a nessuna significativa riduzione delle loro emissioni. Il pacchetto finanziario è una promessa non mantenuta». Eppure, scrive la direttrice del Cse indiano, «la conferenza di Doha resta significativa per una cosa: il fatto che non ha smantellato i principi che governeranno gli sforzi per tagliare le emissioni. Dopo feroci battaglie questi principi sono stati riaffermati e rafforzati; il documento finale infatti afferma che gli sforzi delle parti saranno presi «sulla base dell'equità e delle comuni ma differenziate responsabilità e capacità». Riconosce dunque che i paesi di industrializzazione più antica hanno una responsabilità storica, avendo accumulato emissioni di gas di serra per un secolo o due. Ma è anche il principio che gli Stati uniti hanno avversato fin dai tempi di George W. Bush (che nel 2001 ha deciso di tirare gli Usa fuori dal Protocollo di Kyoto, che prescrive tagli obbligatori delle emissioni solo ai paesi industrializzati, non a quelli «in via di sviluppo»), ed è rimasto irrinunciabile anche per la successiva amministrazione Obama: tanto che al vertice sul clima di Copenhagen nel 2009 le parole equità e «responsabilità differenziate» erano state cancellate dal documento finale proprio su pressione Usa. L'anno scorso, al vertice di Durban in Sudafrica, dove è stata adottata la Piattaforma su cui ora si svolge il negoziato per un nuovo accordo globale, di nuovo la parola «equità» è stata bandita - anche se si rimanda alla «Convenzione sul clima» delle Nazioni unite, in cui quel concetto è affermato chiaramente. Anche a Doha i negoziatori Usa, guidati da Todd Stern, hanno espresso «riserve»: e questo, commenta Narain, «renderà più difficile la strada» per rispondere alla sfida del cambiamento del clima. Anche perché Doha ha fallito su altri terreni: ha affermato la necessità di contare «perdite e danni», cioè il costo del cambiamento del clima sulle economie e la sopravvivenza delle regioni più fragili del pianeta. Ma ha rinviato ogni decisione sui finanziamenti per colmare il gap finanziario tra chi inquina e chi paga le conseguenze - e in modo drammatico, come mostrano i 17 tifoni di quest'anno sulle Filippine...

Giorgia Fletcher - Il Manifesto

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