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"La giornata di una memoria". Da un articolo di Eugenio Curiel sul genocidio dei popoli slavi.

(13 Febbraio 2013)

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Eugenio Curiel

Lunedì 11 febbraio 2013


Un articolo di Eugenio Curiel del 1944 sul riscatto dei popoli jugoslavi, dopo il genocidio subito per opera degli italiani per ben 25 anni, mi da modo di tornare su un tema di scottante attualità politica, la cosiddetta "giornata della memoria".

Eugenio Curiel, scienziato e partigiano triestino morto a soli 32 anni nel febbraio 1945, aveva sempre dedicato molta attenzione, sin dall’adolescenza, al genocidio umano e culturale delle popolazioni slave inglobate a forza nel regno d’Italia dopo la prima guerra mondiale. Se ne occupò nuovamente nell'ottobre del '44, quando la vittoria contro i nazifascisti da parte dell'Esercito nazionale di liberazione jugoslavo (Belgrado fu liberata il 20 ottobre), determinò una situazione nuova di fondamentale importanza per la guerra a Hitler e soci in tutto il resto d’Europa. Con l’esigenza della lotta di liberazione, in Italia, di riaffermare la propria indipendenza, libertà e unità conculcate dal nazifascismo, la guerra aveva però posto anche il problema di quelle realtà nazionali violentemente menomate dalle mire di grandezza dello sciovinismo italiano, prima e dopo l’avvento del fascismo.

Come sappiamo, in tempi recenti, proprio gli accadimenti di questo periodo (1943-45), hanno suscitato l’attenzione del "nostro" mondo politico e culturale per le sorti degli italiani costretti alla fuga dalle terre occupate e soprattutto per quelli tragicamente finiti nelle “foibe”, un’esigenza ritenuta tanto forte da spingere le autorità governative a dedicargli una giornata commemorativa ufficiale. Senza voler entrare in dettaglio su questo argomento, sul quale del resto esiste una vastissima bibliografia, fa riflettere che nella gran parte dei casi la trattazione di questi fatti finisca per omettere o trascurare del tutto la durezza dell’occupazione italiana: i crimini compiuti negli anni del regime fascista a danno delle popolazioni slave, fino ai massacri compiuti con i rastrellamenti, le deportazioni, l’uso sistematico dei campi di concentramento prima e durante la guerra.

Su tutto ciò tornò invece Eugenio Curiel in un articolo, La nuova Jugoslavia, (pubblicato su «La Nostra Lotta», a. II, n.17, ottobre 1944), scritto proprio nella fase più calda di questa storia. Secondo il suo giudizio, con la fine della prima guerra mondiale, il regno jugoslavo fu il risultato di un compromesso deteriore tra le potenze occidentali interessate a spartirsi quanto più possibile i vecchi domini asburgici nei Balcani. Il piccolo regno, costruito attorno a Serbia e Montenegro, si vide privato di parte significativa del suo territorio a favore degli Stati confinanti, all’Italia venne assegnata la fetta più consistente di territorio. Per croati e sloveni iniziò da subito un periodo drammatico, ben più duro e disumano del già pesante dominio austriaco, segnato da violenze e prevaricazioni finalizzate a sradicare le tradizioni culturali slave dei territori appena assimilati.

L’italianizzazione forzata con l’avvento del fascismo si fece ancora più brutale, insieme alla proibizione dei partiti e la soppressione della loro vivacissima stampa, a croati e sloveni venne impedito l’utilizzo della loro lingua, nelle scuole come nei luoghi di culto. Alla massiccia occupazione militare e burocratica fascista si accompagnò la consapevole distruzione della struttura economico-sociale locale: annientato il «ricco patrimonio cooperativo», le casse artigianali e l’articolazione sociale e cultrale del mondo contadino, sulle regioni dell’Istria e della Carsia il capitale bancario italiano finì per stritolare ogni residuo di vivacità autonoma fino a fare di queste le regioni con il più alto debito ipotecario in Italia, queste le parole di Curiel in proposito:

"Chi non ricorda con orrore lo strazio che il fascismo ha fatto del popolo sloveno e del popolo croato, chi non ricorda la loro indomita volontà di liberazione che il regime di terrore non riusciva a fiaccare, chi non ricorda i martiri di Pola del 1929, i martiri di Basovizza del 1931 e tutti gli altri eroici caduti fino al compagno Tomasic e a tutti i fucilati di Trieste del 1941".

Distrutta l’economia contadina, basata sull’allevamento zootecnico, strangolato il suo sistema di credito tradizionale a queste regioni fu imposta una condizione di miseria e abbandono resa ancora più intollerabile dalle vessazioni di un’occupazione militare e culturale conforme alle pagine più buie della peggiore tradizione coloniale. Con lo scoppio della guerra e la fine del debole regno jugoslavo la brutalità dei fascisti italiani e dei nazisti tedeschi si fece assoluta, ciò nonostante dal basso si formò da subito, con le divisioni partigiane guidate da Tito, una fortissima resistenza armata popolare capace di sconfiggere truppe di occupazione e fiancheggiatori, ancora Curiel:

"A decine di migliaia gli arditi combattenti del popolo, a migliaia le coraggiose donne del popolo jugoslavo venivano massacrati e seppelliti nei campi di concentramento. Le truppe d’occupazione, ma anche le truppe dell’esercito fascista, italiani vesti dell’uniforme disonorante dell’aggressione e dell’infamia, distrussero villaggi, incendiarono case, decimarono intere regioni: ma per l’eroico popolo jugoslavo la brutalità, la barbarie scatenata furono la gran diana per la lotta di riscossa popolare".

In un contesto di guerra i torti si sommano ai torti e, per quanto possa essere più o meno condivisibile, prima o poi arriva il momento del "redde rationem". E' assolutamente corretto studiare storicamente e far conoscere politicamente quanto accaduto nelle Foibe, ma lo è altrettanto ricordare che prima quelle stesse Foibe furono utilizzate per le popolazioni slave: sottoposte (dal 1918 al 1943) a deportazioni di massa, cancellazione della propria specificità culturale, linguistica ed economica; soggette a operazioni di pulizia etnica di massa e su larga scala. Portare in rilievo solo il tragico epilogo di una brutta pagina storica, omettendo tutto quel che l'ha preceduta e, soprattutto, cancellando la responsabilità del nazionalismo italiano (affermatosi in quelle terre ben prima dell'avvento fascista), significa fare opera di mistificazione dei fatti. Si è sentito spesso dire negli ultimi anni che l'Italia ha necessità di una "memoria condivisa", tralasciando l'assurdità di una tale aspirazione (si può auspicare la condivisione del futuro e del presente ma la storia riguarda fatti già accaduti e vissuti, con relative scelte di parte, e condividerla significa riscriverla tendenziosamente), in realtà, anche in questo caso ciò che si vuole imporre non è una "memoria condivisa", bensì un punto di vista, parziale e unilaterale, quello italiano. Si sorvola con troppa disinvoltura sull'esistenza, ancora oggi, in quelle stesse regioni, di popolazioni slave oramai italianizzate ma che portano nel loro codice genetico le sofferenze, le violenze e le umiliazioni patite con l’accorpamento all’Italia. Sarebbe questa la “memoria condivisa” che si vuole offrire? Quale “giornata della memoria” sarebbe quella che mette sotto i riflettori della storia solo i “torti subiti dagli italiani” e cancella totalmente il “nostro” violento dominio sui popoli slavi?

Gianni Fresu

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