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(22 Febbraio 2011) Enzo Apicella
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Cambiamento e islam politico, la modernizzazione incompiuta

IL VOLUME COLLETTIVO «LE RIVOLTE ARABE E L'ISLAM», A CURA DI MASSIMO CAMPANINI

(15 Agosto 2013)

cambislam

Se questo volume collettivo, segnato peraltro dalla personalità culturale e dalle scelte di Massimo Campanini (Le rivolte arabe e l'Islam, il Mulino, 2013), fosse uscito tre mesi più tardi avrebbe potuto verificare analisi e proiezioni tenendo conto della catastrofe egiziana.

Il colpo di stato militare del 3 luglio è invece solo menzionato di sfuggita grazie evidentemente a un'aggiunta sulle bozze nel capitolo introduttivo dello stesso Campanini. Nessuno degli autori è in grado così di commisurare i propri saggi all'epilogo anticipato e forzoso del governo dei Fratelli e tanto meno i fatti sanguinosi di ieri. Il migliore elogio che si può fare al libro, tuttavia, è che questa «lacuna» non si sente affatto. Quello che serve per comprendere (e giudicare) gli avvenimenti successivi è tutto scritto qui. Le ragioni della vittoria elettorale della Fratellanza musulmana in Egitto e Tunisia sono spiegate con dovizia di argomenti senza ignorare però i limiti di una responsabilità toccata a un partito-movimento catapultato d'improvviso al potere dopo un'esperienza solo di opposizione. È soprattutto con riguardo all'Egitto che si prende atto che l'alleanza fra militari e Fratelli era destinata a essere precaria perché essi competono per lo stesso potere e le stesse risorse.
La lettura della cosiddetta Primavera araba, allargata in modo da includere Giordania e Libano ma trattando solo indirettamente Siria e Palestina, si muove fra cambiamento e islam politico. Non si tratta di una tesi e di un'antitesi ma poco ci manca. Pur in assenza di pregiudizi anti-islamici si avverte quasi ovunque la convinzione che le «rivolte» non hanno trovato nell'emergere di governi islameggianti il loro sbocco naturale, giusto e per quanto possibile definitivo. Non è solo un caso di «cattivo governo». Il mantra della modernità induce a valutare con diffidenza il modello che qua e là viene brandito dall'islam politico e presuppone che prima o poi ci sarà un «ordine» che garantirà i diritti di tutti. Che ci siano problemi di sintonia fra la modernizzazione, tanto più se nella configurazione «neo-coloniale» di prima e dopo il 2011, e i principi che hanno ispirato e ispirano gli islamici con il loro attaccamento alla tradizione e in ultima analisi con la loro stessa ragion d'essere è fin troppo evidente. Il processo di modernizzazione, incompiuto, deve essere portato a termine. Ma da chi e con chi? Gli autori dovrebbero chiedersi come la modernità insufflata dall'opinione liberal-secolarista, e fatta propria almeno tatticamente dai vertici delle forze armate, possa «includere» l'islam e gli islamici. Gli studi di Zygmunt Bauman sull'Olocausto hanno dimostrato quanto laceranti siano le «diversità» nella società moderna, non più disposta nel nome dell'uguaglianza a tollerare le segmentazioni tipiche dell'epoca pre-moderna. È adesso non ieri che il dualismo fra laici e religiosi nel mondo arabo, tanto più nel caso deprecato di una sua «razzializzazione» (la città e le zone rurali, gli istruiti e gli analfabeti), diventa un casus belli. Gli islamici e persino gli islamisti, a voler prendere per buona questa differenza, non possono essere allontanati, esclusi o soppressi come avvenuto in altri contesti. A differenza degli ebrei nella concezione del Terzo Reich, gli islamici non possono neppure essere accusati di essere contro il völkisch perché, tutt'al contrario, hanno la pretesa di interpretarlo, difenderlo o restaurarlo.
Anche per questo la mancanza di un'adeguata trattazione delle conseguenze delle «rivolte arabe» su quello che è stato e resta il tema centrale per il Medio Oriente - l'affaire israelo-palestinese è più forte della disattenzione dell'opinione pubblica internazionale e delle omissioni della diplomazia ufficiale - rischia di inficiare in tutto o in parte il ragionamento d'insieme. La questione palestinese è il test per la modernizzazione del mondo arabo. Gli ebrei hanno monopolizzato le ragioni e le leve del progresso non appena i pionieri del sionismo si sono impiantati nella Terra promessa, facendo scivolare gli arabi sullo sfondo. Israele cerca di far valere la propria unicità (la sola democrazia del Medio Oriente) come il principale titolo, non tanto per sopravvivere, quanto per dominare e se necessario conculcare i diritti altrui. Neppure l'Egitto da solo, certo non la Tunisia o la Libia, è all'altezza del compito, anche per la sua posizione geografica. Solamente la Siria - a certe condizioni - avrebbe la centralità giusta per fare della «rivolta» un passaggio insieme di riscatto e integrazione.
È inutile dire che nessuno può aspettarsi che una soluzione minimamente coerente con gli obiettivi di dignità e giustizia che da Piazza Tahrir in poi qualificano virtualmente la transizione nel Nord Africa e Medio Oriente arrivi da fuori. Nel libro non spira nessuna predilezione per le operazioni «umanitarie». La Libia non si trova in condizioni migliori dell'Egitto. Già adesso in Siria, a dispetto del luogo comune corrente, non c'è disinteresse del mondo ma se mai troppa pressione da parte delle forze esterne. L'Europa è ferma a proposte che ripropongono uno scambio ineguale e la «sicurezza» come facoltà di accesso facile alle risorse energetiche della sponda Sud.
Il libro curato da Campanini si avvale di collaboratori che si muovono nel contesto del sapere «arabista»: studiosi arabi o italiani che in maggioranza conoscono bene la lingua e la letteratura araba classica. I loro contributi, al riparo dai vizi dell'orientalismo, hanno il merito ulteriore di confrontare gli istituti di cui si tratta padroneggiando la teoria politica dell'islam. Anche le parole hanno una loro importanza. L'esatto significato di termini che sulla stampa e nel dibattito pubblico vengono usati a proposito e più spesso a sproposito è di per sé un fatto di conoscenza e chiarezza. Peccato che l'uso e abuso del Gramsci dell'egemonia, a misura pur sempre di una società del Centro benché arretrata, oscuri quasi del tutto il Said dello scontro fra Impero e popoli oppressi.

Gian Paolo Calchi Novati, il manifesto

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