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Raffaele De Grada 1916 2010

Raffaele De Grada 1916 2010

(4 Ottobre 2010) Enzo Apicella
E' morto all’età di 94 anni Raffaele De Grada, comandante partigiano, medaglia d’oro della Resistenza, critico d'arte.

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OLTRE L'AGIOGRAFIA VELTRONIANA: ENRICO BERLINGUER E IL COMPROMESSO STORICO

(20 Marzo 2014)

enriberli

In questi giorni si è tornati a discutere sulla figura di Enrico Berlinguer: l’occasione, in vista dei trent’anni dalla scomparsa avvenuta il 7 giugno 1984 a Padova nelle drammatiche circostanze che tutti ricordiamo, è stata fornita dall’annuncio dell’uscita di un documentario sulla vita del segretario del PCI firmato da Valter Veltroni, tornato alle sue origini di studioso del cinema e di aspirante regista.
Dalla lettura delle recensioni si deduce che il documentario veltroniano contiene, nella sostanza, una visione agiografica, da “Padre della Patria” e da custode della “questione morale” puntando soprattutto sulla grande commozione popolare verificatasi al momento della scomparsa.
Enrico Berlinguer, però, non può essere trasformato in un’icona come pure si sta tentando di fare da più parti ormai da diversi anni.
Berlinguer era un dirigente politico, la cui biografia che vale la pena di ripercorrere ne dimostra l’assoluta internità alle logiche e alla dinamiche di quel che era il PCI di allora (non a caso, in un’intervista di qualche giorno fa Emanuele Macaluso lo ha definito “ il più togliattiano tra tutti noi).
Enrico Berlinguer era nato a Sassari nel 1922. Aveva aderito al PCI a 14 anni, ed era stato il primo segretario della FGCI ricostituita dopo la Resistenza. Alla morte di Togliatti aveva sostituito Giorgio Amendola nel ruolo di coordinatore dell'organizzazione del PCI e nel 1969 era diventato vicesegretario, numero due del Partito dopo Luigi Longo (sull'avvento di Berlinguer alla direzione politica del PCI ci sarebbe da aprire un punto di riflessione, relativo alla battaglia politica seguita alla morte di Togliatti e culminata nell'XI congresso, tenutosi a Roma nel 1966: non mancheranno le occasioni per farlo). Diventato segretario nel 1972, Berlinguer lanciò, a cavallo del 1973 e dei fatti accaduti in Cile con il golpe dei colonnelli, la strategia del "compromesso storico": di un accordo di governo, cioè, comprendente comunisti, democristiani e forze laiche.
L'ipotesi berlingueriana parve realizzarsi, dopo i grandi successi elettorali del PCI tra il 1975 e il 1976, ma le difficoltà derivanti dalla situazione economica e dall'incrudelirsi del fenomeno terroristico, culminato con il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro, fecero fallire l'esperimento (che in realtà si era concretizzato in una dimensione politica molto modesta, con l'appoggio esterno del PCI a un monocolore DC guidato da Giulio Andreotti). Nell'ultima fase della sua vita Berlinguer impresse una forte spinta alternativistica al ruolo del PCI, sia sui temi della politica economica, sia su quelli della pace, con la ferma opposizione all'installazione dei missili USA all'interno delle basi NATO in Italia.
Fin qui alcune schematiche note biografiche ma avviare, oggi una discussione sulla figura politica di Enrico Berlinguer costituisce un'operazione culturale e politica particolarmente importante che non può, almeno dal nostro puntato di vista, essere avviata senza dimostrare fastidio sia per il tono agiografico di Veltroni, sia per quello liquidatorio usato, in nome della superiore modernità di Craxi, qualche anno fa, ad esempio, da Piero Fassino nel suo libro "Per passione". Della "modernizzazione" - così è definito, in quel libro, il nuovo corso liberista mondiale, cui adeguare i partiti ex-operai rinunciando all'ottica e al conflitto di classe, Craxi avrebbe capito tutto mentre Berlinguer nulla, finendo con il morire di una specie di crepacuore politico sotto il peso dei suoi errori, ultimo la difesa della scala mobile.
Il fastidio che ritengo giusto debba essere espresso rispetto a posizioni di questo tipo va rivolto, prima di tutto, al fatto che non ci troviamo di fronte ad una pur discutibile revisione del passato, ma a una operazione politica rivolta al presente: in sostanza, a una evidente strumentalizzazione. A chi è indirizzata, allora, quest’ operazione strumentale?
Soprattutto a quella parte degli stessi ex PCI oggi confluiti nel Partito democratico che nello stesso PCI ostacolarono fino in fondo Berlinguer, quando dalla fase della "solidarietà nazionale" passò alla politica di "alternativa democratica", con la seconda svolta di Salerno conseguente al terremoto dell'Irpinia del 1980.
Prima di inoltrarci in un tentativo, sia pure modesto e schematico di entrare nel merito occorre premettere come sia sempre necessario usare le armi della complessità, non riducendo mai l'analisi storico-politica alle esigenze dell'oggi: nel caso, poi, di Enrico Berlinguer circoscrivere il tutto dentro al rapporto indissolubile tra la politica e l'etica, interpretata in chiave di onestà personale. Questo, in fondo, è stato Enrico Berlinguer: un politico provvisto di principi, personalmente onesto, prima di tutto sul piano intellettuale.
Naturalmente il punto di discussione di maggiore interesse, riguarda la fase del "compromesso storico". Berlinguer, come abbiamo già avuto occasione di ricordare, è l'uomo del "compromesso storico", anche se, come ha sostenuto a suo tempo Beppe Chiarante sulle colonne della "Rivista del Manifesto", quella politica aveva un fondamento in atti precedenti, compiuti dal PCI, in precedenza ai tre famosi articoli dedicati al colpo di Stato in Cile, apparsi nell'autunno del 1973. Sotto questo aspetto è individuato l'esito del XIII Congresso del PCI, svoltosi a Milano dal 13 al 17 marzo 1972, ma chi redige queste frettolose note azzarda addirittura una origine più lontana, collocata addirittura nel DNA del Partito Comunista Italiano, nella logica - cioè - del Fonte Popolare e dell'"arco costituzionale".
Sia come sia, è bene precisare la natura che la "vulgata" berlingueriana assegnava a quel progetto, ed anche in questo caso è necessario riferirci al periodo immediatamente precedente al golpe cileno: nella relazione svolta al Comitato Centrale del 7/9 Febbraio 1973, era indicato infatti "un programma di rinnovamento e risanamento nazionale", che per realizzarsi richiedeva "l'incontro e la collaborazione di tutte le forze democratiche e anzitutto delle tre grandi componenti del movimento popolare italiano: quella comunista, quella socialista, quella cattolica" (qui, detto per inciso, le reminiscenze con la politica del Fronte Popolare mi appaiono, davvero, fondate). Della possibilità di tale incontro Berlinguer vedeva una conferma nella convergenza fra CGIL, CISL, UIL, nella larga partecipazione di forze cattoliche alle manifestazioni per il Vietnam e alla battaglia antifascista, nelle comuni iniziative per le riforme soprattutto in sede regionale e locale.
La linea della "grande convergenza" precipitò, però, quasi subito nella "questione democristiana". Questo è il punto, se si vuole compiere un'operazione corretta di analisi storico-politica, da scavare maggiormente: come ricorda Chiarante, infatti, già nel 1973 assunse un particolare rilievo, all'interno del dibattito che animò il PCI e la sinistra in quella fase, la preparazione di un numero speciale del "Contemporaneo" (allora supplemento mensile di Rinascita) dedicato all'analisi e al dibattito, appunto, sulla "questione democristiana" (quasi a ricercare un punto di incontro tra le posizioni che si erano aspramente confrontate, nel post Togliatti, all'interno del Partito sull'atteggiamento da tenere nei riguardi del centro-sinistra, tra Amendola che pensava ad un immediato "connubio" con i socialisti ed Ingrao che proponeva una manovra alternativa a vasto raggio, puntando sulla separazione tra le parti più avanzate del mondo cattolico e la DC, per arrivare a formare un nuovo "blocco sociale").
Il "Contemporaneo" uscì, con dodici articoli che affrontavano vari aspetti della realtà democristiana, inserito nel numero di Rinascita del 25 Maggio 1973. Ricorda ancora Chiarante come l'articolo principale, che apriva il fascicolo, fosse opera di Gerardo Chiaromonte e come risultasse particolarmente significativo che, in quell'editoriale, che pure era precedente di molti mesi rispetto al colpo di Stato in Cile, Chiaromonte anticipasse quasi alla lettera (persino sul tema, che più tardi suscitò tante polemiche, dell'impossibilità di governare con il 51%) le analisi e le argomentazioni usate, in seguito, da Berlinguer nei tre famosi articoli sul golpe cileno, già più volte citati.
La "questione democristiana", considerata ovviamente all'epoca dei fatti, rappresenta, allora, la prima questione da affrontare se si vuol discutere seriamente della figura politica di Enrico Berlinguer, analizzando quanto questa abbia pesato nel ridurre, appunto, il tema del "compromesso storico" alle logiche politiciste della "solidarietà nazionale": sbagliata l'idea, l'analisi, che Berlinguer si era fatto della DC, in quanto partito e soggetto del radicamento sociale cattolico (come sostiene Rossanda)? Oppure il frutto avvelenato di una stagione terribile, segnata dal terrorismo e soprattutto dal rapimento Moro, che segnò definitivamente l'esito di quella vicenda?
Si tratta di interrogativi che vanno posti, se vogliamo andare al fondo di un giudizio politico corretto, così come è necessario ritornare sulla fase successiva, quella della resistenza all'aggressione capitalistica (era partito il reaganismo-tachterismo) ed all'iniziativa craxiana, fondata su di una idea di "riduzione" nel rapporto tra politica e società che, in ogni caso, Berlinguer non avrebbe mai potuto accettare. Il secondo blocco di questioni sulle quali non è possibile mantenere reticenze è quello relativo ai rapporti tra il PCI e l'URSS (tanto per tornare a Fassino c'è da ricordare che, nel suo libro appena citato, al momento dell'iscrizione dell'attuale segretario DS al PCI, siamo negli anni'60, non compare traccia dell'URSS e della Rivoluzione d'Ottobre). Si tratta di un argomento difficile da affrontare per chi redige queste note, entrato in rotta di collisione con il Partito fin dalla "Primavera di Praga". Ovviamente escludo qualsiasi velleità dell'"avevamo sempre detto".
Si tratta di ricordare, con attenzione, come il PCI si fosse mosso con grave ritardo sulla stessa linea del memoriale di Yalta, nel quale Togliatti riteneva fosse il momento non certo di un distacco plateale, ma di una sostanziale presa di distanza. Al "tragico errore", come fu giudicata dalla Direzione del PCI, l'invasione di Praga, seguì una sostanziale accettazione dello "status quo", almeno fino al 1981, allorquando scoppiarono le questioni polacca ed afgana. Così come risultò troppo evidentemente legata a problemi di politica interna la dichiarazione sull'"ombrello della NATO" alla vigilia delle elezioni del 1976.
Certo si trattò di un itinerario non facile da percorrere: non credo che Berlinguer si facesse illusioni sul gruppo dirigente sovietico (del quale pensava il peggio possibile), ma, piuttosto del timore che (chi ha fatto parte del gruppo del Manifesto può essere buon testimone su questo punto) che se il PCI avesse aperto il dossier sull'URSS il PCUS avrebbe organizzato una frazione al suo interno (come era stato con Lister rispetto al PCE) e dell'idea che, infine, era utile per il PCI avere, comunque, alle spalle una grande potenza, per degenerata che fosse.
Si trattò di un insieme di valutazioni opinabili, che impedirono a tutto il PCI di avere rapporti con le dissidenze dell'Est, almeno fino agli anni '80 inoltrati: dissidenze che non erano tutte di destra (sono disponibili gli atti del convegno "Potere ed opposizione nelle società post - rivoluzionarie", svoltosi a Venezia nell'autunno del 1977 che registrò, per il PCI, le sole partecipazioni, a titolo personale di Lucio Lombardo Radice e Bruno Trentin).
Questi sono i punti salienti (e gli interrogativi) sui quali riflettere, anche disponendo di limitate capacità intellettuali come accade nella nostra situazione di periferia dell'Impero. Preme una precisazione conclusiva: tentare di valutare appieno la figura morale e politica di Enrico Berlinguer oltre le omissioni e le distorsioni nella ricostruzione della sua storia di dirigente del movimento operaio, deve significare cercare la strada per una valutazione seria e obiettiva, non solo del suo operato, ma di un’intera fase storica, il cui esito sostanzialmente è risultato del tutto decisivo per determinare un periodo di difficile transizione che stiamo, ancor oggi, attraversando e che pare degenerando in un’operazione di vero e proprio stravolgimento dell’impianto della democrazia repubblicana così come disegnato dalla Costituzione Repubblicana.

Franco Astengo

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