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LA FINE DELLA POLITICA? BLOCCO STORICO, EGEMONIA, IDENTITA',DIVERSITA'

(21 Aprile 2014)

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John Berger

Il punto di partenza del ragionamento contenuto in questo intervento risale alla necessità di formulare un tentativo di risposta all’affermazione che John Berger (87 anni artista poliedrico, scrittore, pittore, filosofo) ha sviluppato in una sua intervista apparsa sulla “Lettura” del Corriere della Sera il 20 Aprile, con una sua premessa “Comunque è la politica il filo rosso che unisce tutto, politica come passione totalizzante, imprescindibile”. Una premessa da condividere in toto.
L’affermazione cui è necessario rispondere, però, è questa: “La politica com’è definita nel corso degli ultimi tre secoli non esiste più. Siamo in una fase di capitalismo speculativo che io definisco una forma di fascismo, ed è proprio questo fascismo economico che governa il mondo. I politici continuano a parlare nel vuoto del loro potere.”.
Per rispondere adeguatamente è necessario, quindi, riprendere le fila dell’analisi e pensare agli sbocchi politici possibili riprendendo due categorie classiche del nostro pensiero: quella “relativa alla costruzione del blocco storico” e quella relativa al “soggetto in grado di sviluppare egemonia nella società e nella politica”.
Il tentativo in atto deve svilupparsi a questo livello, mentre l’analisi di partenza non può che presidiare rami più bassi partendo dalla realtà del “caso italiano”.
Dunque andando per ordine:
Il quadro complessivo dello scontro politico e sociale in atto in questa fase della vicenda politica italiana (da inserire, naturalmente, nel quadro più ampio delle complesse dinamiche internazionali e più specificatamente europee) richiede ai soggetti comunisti, anticapitalisti e d’opposizione presenti in una forma variegata e complessa nelle residue soggettività politiche, nei movimenti sindacali e quelli di contestazione rivolta a “single issue” l’esercizio di diversi livelli di espressione dell’opposizione e di una “diversità” che non può essere, semplicemente, l’orgogliosa dimostrazione di una superiorità morale, come pretendeva, invece, il PCI.
I livelli da intrecciare strettamente tra loro sono due:
1) L’opposizione sociale rivolta alla difesa delle condizioni materiali dei ceti sociali colpiti dalla ristrutturazione capitalistica che sta mutando i rapporti di forza complessivi, deprivando i lavoratori dai diritti elementari, puntando a ottundere il conflitto consentendone soltanto le espressioni di tipo corporativo e reprimendo con violenza tutti i tentativi di far valere, nel pieno dello scontro, le idee di trasformazione della società;
2) Strettamente collegato al primo livello si colloca il secondo relativo alle condizioni di agibilità della democrazia, nelle sue forme indicate dalla Costituzione Repubblicana: personalizzazione, presidenzialismo, legge elettorale liberticida.Abbiamo più volte richiamato l’attenzione su questi deleteri fenomeni in atto ormai da molto tempo e che hanno stravolto l’insieme dell’agire politico svuotando di significato la militanza e riducendo il tutto a un indiscriminato “individualismo competitivo” modellato sull’”individualismo consumistico” attraverso cui si tende a strutturare bisogni, consumi, esigenze di una società composta indistintamente da “individui” non collegabili tra loro in un progetto politico collettivo in grado di proporre una “alternativa”.
Il punto di riferimento per agire davvero questi due elementi di opposizione dovrebbe essere quello dell’idea di una “diversità”. Una “diversità” non ridotta alla “questione morale” ma come espressione visibile di modelli culturali, di stile di vita, di propositività alternativa da sviluppare in tutti gli interstizi della vita politica e sociale.
A chi tocca, però, esprimere questi livelli di opposizione e questa presenza costante di “diversità”.
Il compito precipuamente politico di un soggetto capace di farsi carico della complessità sociale sintetizzandone le aspirazioni in un “progetto” di cambiamento di carattere “in primis” culturale deve essere quello di costruire un “nuovo blocco storico”.
Uscire dall’economicismo e dalla rivendicazione settoriale rappresenta il primo passo in questa direzione, così difficile da perseguire dopo i disastri di questi ultimi anni.
Riprendere, dunque, il concetto di “blocco storico” partendo proprio dall’accezione fornita a questo termine da Antonio Gramsci: un riferimento da utilizzare non tanto per l’autorevolezza della realtà storica, ma per la straordinaria attualità delle riflessioni che stavano alla base di quella elaborazione.
Fondamentale sotto questo aspetto lo stabilire il nesso tra riforma economica e riforma intellettuale e morale.
Scrive Antonio Gramsci (“Quaderni del Carcere” ed. Editori Riuniti 1975, riportato anche in Nicola Badaloni “Gramsci: la filosofia della prassi come previsione” nella “Storia del Marxismo” Einaudi 1981, volume III 2° tomo): “ Il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale. Il moderno principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno principe stesso e serva a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il principe prende il posto, nelle coscienze della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume”.
Su questa base teorica si può sviluppare il concetto di “blocco storico” in stretta connessione con la costruzione del soggetto politico “agente” il processo di trasformazione.
Sono due i punti teorici sui quali basare questa costruzione:
1) Il nesso tra riforma intellettuale e morale e trasformazione economica;
2) L’interpretazione del tutto laica della figura del “moderno Principe” essenzialmente al riguardo del rapporto tra iniziativa individuale ed economia collettiva con un’interpretazione del concetto di materialismo storico posti al di fuori dal fatalismo e dalla passività.
Si pone così il tema dell’identità: un tema che si rinnova anche per noi, proprio nel momento in cui, proclamiamo la necessità non solo di un’opposizione di sistema ma di una proposizione di alternativa posta oltre alle esperienze accumulate nel XX secolo dal complesso del movimento comunista e dalla sinistra nel suo insieme.
Preso atto delle condizione nella quale ci troviamo, di guerra di posizione la nostra proposta non potrà che comprendere l’idea del costituirsi di nuove libertà comprendendo nell’economia la stringente alternativa tra pratica autoritaria e pratica democratica della politica.
Il campo di forze che dobbiamo delineare nella costruzione del blocco storico nell’attualità dello scontro politico e sociale deve comprendere , prima di tutto, quei soggetti in grado di rifiutare sia il dominio burocratico, sia quello delle élite, annullando le funzioni oppressive che il capitalismo ha delegato agli intellettuali e trasformandole in capacità politiche e tecniche integrabili nell’individuo sociale.
Questo si può realizzare soltanto nel rapporto tra blocco storico e soggetto politico e in questo risiede il punto di aggiornamento che proprio l’interpretazione gramsciana ci consente appunto sul terreno della riconnessione dell’opposizione al presente con la prospettiva della conquista del potere.
Blocco storico, ruolo degli intellettuali, soggetto politico: è l’identità che fornisce una coerenza logica all’insieme di un impianto teorico che saldi questi punti di riferimento. Soprattutto perché è dall’identità che può e deve scaturire la proposta dell’egemonia.
Sul tema dell’identità vale la pena di citare Lucio Magri, nella sua relazione tenuta ad Arco nel 1990 nel corso del seminario della sinistra comunista (da “Alla ricerca di un altro comunismo” Il Saggiatore 2013):
“L’ecclettismo culturale, anche se mosso da giustificate intenzioni e produttivo di idee diventa dunque facilmente, a livello di massa, il ventre molle in cui per canali organizzati penetra la cultura corrente e l’egemonia degli apparati dominanti. Tutto ciò rende il problema dell’identità delicatissimo e cruciale nel rapporto tra storia, ideologia radicata nel senso comune, sforzo rifondativo. Non è astratto che se ne occupa, è astratto chi lo sottovaluta. Per questo abbiamo dato e diamo tanta rilevanza alla questione dell’identità”.
In conclusione, assumendo del tutto laicamente il tema della necessità “politica” del costruire oggi l’opposizione al sistema dominante, non si può che affermare la necessità del soggetto non solo dell’opposizione ma dell’alternativa politica e di sistema: gli strumenti teorici della nostra storia, della storia della sinistra comunista in Italia (e altrove) del blocco storico e del partito sui quali fondare non solo la pratica politica e di movimento ma l’ipotesi stessa del cambiamento storico non potrà che realizzarsi producendo un’identità definita, al di fuori da qualsivoglia visione imposta dall’imperativo categorico, ma nella prassi della lotta quotidiana e nella logica di una prospettiva di lungo periodo, di una lotta di posizione nella quale affermare l’egemonia dei principi.
Trasformazione economica e rivoluzione intellettuale e morale, questi i due lasciti più importanti venuti fuori dalla nostra storia, intorno ai quali aprire la riflessione per il futuro.

Franco Astengo

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