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Neoschiavismo e ritorno al paradigma delle classi subalterne come “carne da macello”

(20 Maggio 2014)

neoschiavismo

Luciano Canfora

Tra le tante menzogne che ci vengono propinate dai media e fatte ingoiare a forza dalle nuove narrazioni che hanno acquistato ampia risonanza anche nei comitati scientifici, senza dubbio quella più grave è che la lotta di classe costituirebbe ormai un rottame novecentesco inapplicabile qui e ora.

La “new economy”, “il progresso tecnologico”, “la terziarizzazione” avrebbero dovuto spianare la strada alla tanto agognata e mai raggiunta eliminazione della classe operaia. In modo silenzioso e il più indolore possibile il soggetto che avrebbe dovuto muovere la storia a un certo punto è stato fatto fuori anche dal campo delle ipotesi scientificamente accreditate. Queste erano le promesse: niente più classi, niente più lotta, niente più guerra e pace per tutti, la ormai celebre “fine della storia” per l’appunto (nella versione aggiornata pare che si includa pure il niente più fascismo, ergo niente più antifascismo, basta crederci). La crisi del 2008 ha poi rivelato che il motore del meccanismo della pace sociale aveva più problemi di quanto i propagandisti potessero aspettarsi, il ritorno alle manifestazioni di massa anche nell’occidente sviluppato ha poi dimostrato che il discorso imbonitorio delle élite dominanti aveva perso molta della credibilità che ancora auspicava di avere; d’altra parte il crescente astensionismo e il reflusso dal sistema partitico veniva ormai letto unitariamente come la conseguenza dell’allontanamento delle masse sfiduciate da un qualcosa che era percepito distante e autoreferenziale. Dunque, i subalterni dovrebbero accontentarsi di rimanere tali, senza creare troppo disordine, figurarsi che ne resta della coscienza, dell’auto-organizzazione, della rivendicazione. Peccato il discorso delle élite sia stato forzato un po’ troppo, ossia dopo aver vinto nell’89, la pretesa di stravincere ha portato a far scoppiare macroscopiche contraddizioni e ad innescare meccanismi che le stesse teorie liberali avevano annunciato, anche convincendo, di eliminare. Questi meccanismi, guidati dalla necessità di uno sfruttamento cieco sempre maggiore sulle risorse che generano il profitto, hanno portato al ritorno delle forme di estrema dipendenza di un essere umano da un altro, forme di sfruttamento sempre più barbaro, di disumanizzazione e ,dunque, all’annientamento nei fatti della libertà liberale che per l’appunto annunciava la liberazione dell’individuo da queste piaghe. A ricordare come “una delle grandi novità del XXI secolo” sia stata proprio “il riapparire su larga scala delle forme di dipendenza schiavile e semischiavile” è stato Luciano Canfora con un articolo per il Corriere in cui recensisce il libro di Herbert S. Klein Il commercio atlantico degli schiavi, Carocci, pp. 288 (http://lettura.corriere.it/debates/cosi-il-nuovo-capitalismo-crea-e-sfrutta-i-nuovi-schiavi/). Secondo Canfora le cause di questo mefistofelico ritorno sono da rintracciare nella “mondializzazione dell’economia e il venir meno di qualunque movimento – o meglio collegamento – internazionale dei lavoratori” che “ha creato le condizioni per questo ritorno in grande stile di forme di dipendenza che in verità non erano mai scomparse del tutto”. Importantissime queste poche righe di Canfora poiché ci ricordano come capitalismo e schiavismo abbiano viaggiato assieme seppur tra fortune altalenanti, ma sostanzialmente mantenendo il pieno sostegno delle ideologie politiche liberali. Questo è potuto avvenire per il più banale e semplice dei motivi, ovvero perché “il profitto si centuplica se il lavoratore è schiavo (schiavo di fatto, se non proprio formalmente)”. Il lavoratore che rivendica meno ore settimanali, paghe più alte, stabilità d’impiego e magari diritti non fa altro che togliere tempo al processo produttivo e dunque agli occhi del padrone non fa altro che sottrarre soldi dalle sue tasche! Che bello sarebbe se potesse impiegare animali da soma invece che uomini! E allora tanto vale cercare di rendere i secondi come i primi con sofisticati e fini processi pavloviani d’induzione nel ciclo produzione/consumo, ed ecco l’eterno ritorno dello schiavismo all’interno dell’economia di mercato, senza nemmeno più il bisogno delle catene e delle palle di piombo al piede. Quali sono le categorie sociologiche che oggi riproducono le forme di lavoro schiavistico, a cui peraltro l’economia capitalista non ha mai rinunciato? In una fase neo-coloniale in cui ufficialmente non vi è nemmeno più uno sfruttamento diretto di alcuni paesi su altri le migrazioni rappresentano l’unico fenomeno che ci permette di analizzare direttamente quali siano i tassi di sfruttamento sul proletariato e il sottoproletariato nelle cosiddette “economie avanzate”, sono il condensato di più ampi fenomeni di dipendenza che si riverberano nelle società liberali facendo emergere contraddizioni insanabili per l’ideologia dominante. Gli esempi che possiamo raccogliere dalle notizie che ci giungono dal mondo solo nell’ultima settimana ci restituiscono un unico panorama che va dalla miniera di Soma; alle piantagioni di tabacco nel North Carolina, Kentucky, Tennessee, Virginia; alle tristemente note campagne italiane dove il caporalato è ormai un fenomeno endemico e dove la mafia risulta la prima (se non l’unica) agenzia di lavoro nel settore; alle miniere di minerali richiestissimi in occidente (platino, uranio, cobalto, palladio) del SudAfrica, dove per produrre i componenti fondamentali dell’elettronica sono ridotte in schiavitù intere popolazioni, che vengono semplicemente prese a fucilate. Qui il proletariato è quello classico, quello della falce e martello (o del piccone) e laddove l’attività produttiva è situata nell’occidente “a sviluppo avanzato” sono gli immigrati a svolgerla. I minatori turchi sono immigrati (alcuni siriani e altri dall’interno del paese) che dalle aree più povere si spostano a lavorare in miniera nelle stagioni di riposo per l’attività agricola; i piantatori dell’inchiesta di Human Rights Watch (qui il link del report: http://www.hrw.org/reports/2014/05/13/tobacco-s-hidden-children ; qui del video: https://www.youtube.com/watch?v=0-8TBceaO5Q ) sono chicanos; i “nostri” neo-schiavi sono tipicamente immigrati dall’estero (anche se iniziano a registrarsi casi di autoctoni, segno che la crisi ha colpito duro soprattutto tra gli espulsi dalle attività manifatturiere). La cosa che ancor di più stride con il pacchetto di diritti che teoricamente una democrazia liberale dovrebbe garantire è il ritorno in carreggiata di un altro mostro che credevamo scomparso definitivamente, ossia il lavoro minorile. Sono proprio le categorie più deboli di lavoratori quelle più utilizzate da quest’economia mondializzata: le donne nei lavori di cura, i migranti spesso oberati dai debiti, i bambini costretti ad aiutare famiglie sempre più impoverite. Dai risultati che emergono dall’inchiesta di Human Rights Watch i lavoratori minorenni nelle piantagioni delle multinazionali del tabacco si aggirano tra le 130,232 unità direttamente impiegate nelle piantagioni e le 388,084 unità dislocate nelle fattorie e, sorpresa, il tutto risulta perfettamente legale. In Turchia tra i corpi recuperati da quello che è “il più grande incidente sul lavoro della storia del Paese” (o almeno, così raccontano i media, mentre in realtà il quadro restituisce responsabilità ben precise, come al solito mosse dalla frenesia del profitto a tutti i costi e da ben precise politiche neoliberiste) ci sono pure quelli di alcuni ragazzini che per il fisico minuto risultano da sempre particolarmente utili al lavoro in miniera e vengono assunti in nero, quindi non inseriti nel conteggio ufficiale dei deceduti (la cifra dei morti potrebbe arrivare a sfiorare quota 500 infatti). Ma sarebbe limitativo rinchiudere l’analisi a questi settori, infatti l’attacco globale alle condizioni lavorative partito in occidente negli anni ’80 ha colpito a più ampio spettro anche quelli emergenti, e l’emblema dell’intreccio tra lavoro migrante, nuovi working-poor ed estremo sfruttamento lo si ritrova proprio nei mercati aperti dalle multinazionali che operano dal settore alimentare (del 15-05 lo sciopero globale dei dipendenti dei fast-food), a quello logistico. La flessibilità contrattuale introdotta da ben precise riforme politiche risulta quale presupposto imprescindibile per incastonare il lavoro in nuovi paradigmi dello sfruttamento funzionali ad ottenere maggior ricattabilità dalla parte debole, quindi una maggior estrazione di pluslavoro e plusvalore. La tragedia di Soma, come evidenziano bene le inchieste che stanno emergendo (“Un report della General Miners Union del marzo 2010 certifica che, tra il 2000 e il 2009, sono avvenuti 25.655 incidenti nelle miniere di proprietà statale del turco Coal Corporation ( TTK ), e che il 98% di questi avrebbero potuto essere evitati se solo i problemi di ispezione e sicurezza fossero stati adeguatamente affrontati” citato da: http://roarmag.org/2014/05/turkey-soma-coalmine-disaster/ ), riporta i classici caratteri di una tragedia costruita metodicamente da politiche rivolte a lucrare sulla vita delle persone, che venivano già ammazzate, ma lentamente, in sordina, quando ogni volta che si scendeva non si sapeva se si ritornava in superficie sani. Così accade per i ragazzi che nelle piantagioni di tabacco della Philip Morris si prendono il cancro per guadagnare qualcosa, alcuni solo nella stagione estiva altri abbandonando la scuola; il tutto “in nome del profitto che è più sacro del Santo Graal nell’etica del «mondo libero»”, direbbe Canfora, e con buona pace dei liberali che oggi gridano alla tragedia. Guardatevi attorno, la tragedia è questa economia.

Alex Marsaglia

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