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CEIman contro Caiman

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(25 Gennaio 2011) Enzo Apicella
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    QUELLO DI MATTEO RENZI E DEL SUO “CERCHIO MAGICO” NON E’ CENTRALISMO DEMOCRATICO MA CONCEZIONE PROPRIETARIA DELLA POLITICA

    (14 Giugno 2014)

    renziprop

    La polemica sulla sostituzione di due senatori in sede di Commissione Affari Costituzionali del Senato perché non allineati ai progetti di riforma del Governo sta salendo di tono e si stanno usando, da più parti, argomentazioni di merito sbagliate dal punto di vista teorico e fuorvianti da quello politico.

    Emerge una gran confusione tra il funzionamento di un partito e quello delle istituzioni, tra ruolo degli organismi dirigenti e quello dei gruppi parlamentari, si fraintende il senso dell’articolo 67 della Costituzione (che dovrebbe rappresentare il punto di riferimento di principio per la valutazione dell’attività del singolo parlamentare) addirittura si tira in ballo l’antico “centralismo democratico”.

    E’ necessario far chiarezza su di un punto, distinguendo proprio tra partito e istituzioni. La mossa della sostituzione dei due senatori è avvenuta ovviamente in sede parlamentare ma sulla base di un input di allineamento confusamente (come si cercherà di dimostrare) di tipo partitico.

    Una idea di partito che vien fuori da questa vicenda che, davvero, ha del “mostruoso” dal punto di vista della teoria politica: laddove (come hanno ben dimostrato la vicenda delle primarie e successivamente quella dell’ascesa al governo) Matteo Renzi e il suo terribile “cerchio magico” confondono il partito, il Parlamento, il Governo in un tutt’uno che considerano “proprietà privata”. Un po’ come il fascismo quando affiancò agli organi costituzionali il Gran Consiglio e la Milizia.

    Questa situazione deriva, infatti, da una concezione “proprietaria” della politica che nel “caso italiano” più recente ha precedenti illustri.

    In questo caso di attualità però si oltrepassa la situazione descritta nell’analisi elaborata da Mauro Calise nel suo fondamentale “Il partito personale”.

    Non c’è più la personalizzazione della politica e neppure l’idea del “partito – azienda”: non c’è neppure più la divisione dei poteri retaggio insostituibile della rivoluzione borghese di Francia del 1789 .

    Lo dimostra anche la vicenda dell’autorità anti-corruzione e, in questo caso, non ci deve essere timore di parlar male di Garibaldi : la corruzione c’è ed è enorme, fattore di distruzione dell’economia del Paese quanto la criminalità organizzata, ma l’occasione è colta per centralizzare ancora il potere, renderlo inaccessibile al controllo democratico, non ponendosi mai – nell’empireo delle certezze stellari del Presidente del Consiglio – l’antico interrogativo di Giovenale: Quis custodiet ipsos custodes?

    Quella di Matteo Renzi e dei suoi accoliti è – appunto – una concezione proprietaria della politica alla quale, come già era capitato con Berlusconi, una parte dell’elettorato sfibrato dalla crisi, disilluso, marginalizzato ha tentato ancora una volta di affidarsi quasi come una sorta di “Lord Protettore” .

    Una scelta che, nella storia d’Italia, ha già fornito prove molto negative.

    Beninteso, una parte dell’elettorato perché è bene ricordare che ci sono 49 milioni di iscritti nelle liste. IL PD ha raccolto 11 milioni di voti, di conseguenza non è stato votato da 38 milioni, quindi da meno del 30% e per chi ha idea di una democrazia “ a vocazione maggioritaria” e non semplicemente rappresentativa come nel nostro caso, il dato dovrebbe far riflettere.

    Si accennava a come qualcuno abbia tirato in ballo il centralismo democratico, allora la nota teorica che seguirà, riprenderà i termini “classici” della nozione di centralismo democratico così com’è derivata dalla tradizione leninista applicata anche, almeno fino al caso del “Manifesto” nel 1969 da Partito Comunista Italiano.

    Così, forse, a qualche “giovane turco” si chiariranno le idee e verranno i brividi.

    NOTA TEORICA SUL CONCETTO DI “CENTRALISMO DEMOCRATICO”:

    Il partito di classe è il depositario dell’ideologia scaturita dalle lotte del proletariato: quella socialista. La pretesa che le masse, al di fuori del partito, siano in grado di maturare un’ideologia di classe elaborata nel corso del loro movimento è tanto errata quanto falsa. Questa ideologia indipendente in una società dilaniata dalle contraddizioni di classe negherebbe la coscienza rivoluzionaria che non può sorgere che sulla base di profonde cognizioni scientifiche ed è importata nella lotta dall'esterno.

    Verrebbe meno la considerazione ormai acquisita (se detta coscienza emanasse da sé dalla lotta di classe), che al partito compete l'introduzione nel proletariato della consapevolezza della sua missione storica.

    Dice Lenin nel suo Che fare?:

    «La questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c'è via di mezzo... Ecco perché ogni menomazione dell'ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell'ideologia borghese».

    È resa perciò evidente la necessità del partito, dell'organizzazione atta a difendere sino in fondo le idee e il programma di lotta per la rivoluzione. Ma la lotta diventa anche e (in alcuni momenti) soprattutto problema di organizzazione che comporta a sua volta gerarchia, disciplina ed esercizio di autorità. Com'è quindi che deve disciplinarsi il partito?

    Ancora nella risoluzione del II Congresso dell'IC, nel suo punto 14, viene fermamente ribadito: «Il partito comunista deve basarsi sul principio del "Centralismo democratico"».

    Ma perché «centralismo» e perché «democratico»?

    Il centralismo ha una sua prima motivazione negli effetti di quella centralizzazione cui, soprattutto nei momenti dell'approssimarsi del moto rivoluzionario, perviene il capitalismo già nelle cose. La crisi è per antonomasia momento di centralizzazione e quanto è più grave tanto più energicamente vedremo serrarsi le forze politiche della borghesia attorno alle proprie organizzazioni di classe, alle massime istituzioni prodotte dal sistema borghese. È il momento in cui le forme mediate dell'ideologia borghese, quella socialdemocratica ad esempio, abbandonano finanche il loro verbalismo riformista, contrabbandato per marxismo, per porsi alla difesa aperta della borghesia nel suo complesso. Non senza aver esaurito però i tentativi di far presa sul proletariato e spingerlo verso fini che sono reazionari, che servono alla causa della conservazione dei privilegi di classe.

    Ma questo processo produce il suo opposto: fa nascere dialetticamente la necessità a che la classe operaia, oggettivamente e soggettivamente, serri le sue file esprimendo una centralizzazione politica che si traduce nell'organizzazione di un disciplinato, ferreo e «burocratico» partito di provata impenetrabilità.

    Ma sarebbe errato pensare che il centralismo politico debba esprimersi soltanto quando si approssima «la data» dell'assalto per la presa del potere: esso deve essere una costante invariabile del partito della rivoluzione affinché, temperandosi nelle lotte quotidiane, sul principio del centralismo e della sua continua pratica, sia infine preparato a condurre il proletariato alla vittoria. Per assicurare comunque, in tutta la fase della sua presenza storica (prima e dopo l'assalto) e garantire l'impenetrabilità alle ideologie borghesi e alle tendenze opportunistiche del movimento operaio stesso.

    Due termini che, dialetticamente, sembrerebbero negarsi reciprocamente ma che invece diventano sintesi tra due tendenze espresse oggettivamente dall’epoca storica attuale.

    Infatti all'interno della dialettica del partito quali sono i rapporti che devono intercorrere tra centro e base? Cioè tra il potere di un saldo comitato centrale e una rete di rivoluzionari professionali? E ancora, tra i pericoli sempre presenti di un’involuzione autoritaria, della politica dall'alto che degenerano inevitabilmente nell'opportunismo, e le garanzie di una giusta interpretazione dei fenomeni della storia? Precisiamo. Non è nella «fiducia ›, incondizionata in questo o quel capo che il partito si può tutelare dai pericoli della degenerazione; essa e, sì, importante, ma i caratteri positivi che possono porre il partito all'altezza dei suoi compiti si concretizzano attraverso il suo processo di sviluppo mirante alla realizzazione del programma fondamentale, quello comunista, che si precisa come coscienza collettiva e sicura disciplina di organizzazione al contempo; e non tanto nei meccanismi delle sue regole e del suo statuto.

    Queste le condizioni obbiettive presupposte dal momento storico dato ma che, nello svolgersi della vita del partito, della partecipazione alle lotte della classe operaia, si realizzano in formule organizzative e statutarie che corrispondono alle esigenze di vita, di difesa e soprattutto di efficienza e funzionalità del partito.

    Quindi l'unica possibilità di vita interna che è poi, in definitiva, a livello più vasto, lo stesso identico problema del rapporto che deve intercorrere tra partito e classe, è nella stretta interdipendenza tra centro e base del Partito. Non azione unilaterale dall'alto verso il basso e neanche dal basso verso l'alto, il che equivarrebbe ad attribuire ai due termini la capacità di autodeterminazione: essi possono operare e realizzarsi solamente attraverso una dialettica di interdipendenza, di vicendevole implicazione. V'è un salire dal basso di precise istanze che diventano insostituibile accumulo di «coscienza» e di «scienza» fintanto che il centro opera in stretta armonia e aderenza al programma comunista. Lo stesso rapporto, ripetiamo, intercorre tra partito e classe; vale a dire tra teoria e realtà politica. Il partito giustifica se stesso solo nella misura in cui opera nella classe raccogliendone le istanze che elabora per trasformarle in «scienza» o dottrina rivoluzionaria. Solo così può assolvere al suo compito storico di forza motrice della rivoluzione: per avere accumulato cioè tanto di esperienza, di teoria e di potenziale di forze espresse dalla classe nella sua immune lotta contro il capitalismo sfruttatore. E il problema, è chiaro, non può prescindere da un’intelligenza c sensibilità che codesto «ferreo» comitato centrale deve possedere non in virtù di proprie aprioristiche capacità, ma in quanto pura determinazione di forze sgorgate ed espresse dalla situazione oggettiva della lotta rivoluzionaria. Infatti non si creano volontaristicamente partiti e rivoluzioni: essi possono essere solamente diretti da quelle forze (generanti i propri centri del potere organizzativo) più strettamente integrate con le concezioni della dottrina del marxismo rivoluzionario.

    Il centralismo democratico è l'unica formula possibile di partito passata attraverso l'esperienza rovente della rivoluzione d'ottobre.

    Per chiarire: nota aggiunta “un po’ per celia e un po’ per non morire”, ma anche per ricordare che non è proprio il caso di dilettarsi con i termini della teoria distorcendone (o non conoscendone?) scaturigini e significati.

    Franco Astengo

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