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    IL NAUFRAGIO DI SEL? E’ UN INSIEME DI BARCONI CHE AFFONDA
    (E LASCIAMOLI AFFONDARE)

    (27 Giugno 2014)

    Le recenti vicende interne a SEL (c’è chi dice “il” e chi “la”: lasciamo pure... disarticolata la cosa) meritano alcune considerazioni di fondo che vanno ben al di là del partito in oggetto.
    L’arrivo al capolinea definitivo di un certo tipo di esperienza politica iniziata sotto il segno della “estrema sinistra radicale” non è questione di uomini, errori casuali, beghe o malintesi personali, ma l’esito obbligato di una data impostazione teorica (anche se qui parlar di teoria è financo eccessivo) e programmatica di partenza.
    La storia attuale comincia con la nascita di Rifondazione Comunista in anni già ben lontani. Il vecchio “glorioso” PCI, col suo strabiliante seguito proletario di massa guidato sulla “via democratica e progressiva al socialismo”, ammainava le vele per ancorarsi ormai definitivamente al porto del capitalismo nazionale da tutelare e di ombrelli esterni sotto cui ripararsi ed anche questo non era se non la conseguenza di un lontanissimo rovesciamento della linea comunista dei tempi dell’Internazionale Comunista di Lenin e dell’originario PCd’I guidato dalla Sinistra. Dalla teoria (e conseguente pratica) del “socialismo in un solo paese” non si poteva arrivare che a quella delle tante vie nazionali al “socialismo” da perseguire in accordo con le esigenze delle proprie “economie nazionali” e rispettive pluriclassi legate ad esse. Fronti popolari dei tardi anni trenta, union sacrée per la guerra “antifascista” (con tanto di partigianesimo ciellenistico) sotto il comando – di fatto – USA, governi di “unità nazionale” cominciando da quello del Maresciallo Badoglio (artefice dell’Impero Coloniale) con l’imperativo ai proletari di “rimboccarsi le maniche” assieme ai padroni in nome della ricostruzione di e per tutti e poi sì tanti anni di “dura opposizione” nel periodo soprattutto iniziale della “guerra fredda” come scotto da pagare per l’ombelico duro da recidere con l’URSS stalinista, ma sempre più sulla strada dell’allargamento delle “alleanze di classe” e della tutela degli interessi nazionali italiani e infine tutto il resto nella fase di distensione: apertura alle “larghe intese”, pratica delle “compatibilità” come vincolo alle rivendicazioni anche solo sindacali, elogio dell’“austerità” secondo il buon Enrico prossimo alla beatificazione, ed a fine opera il bel funerale del vecchio PCI ad opera del becchino Occhetto (portavoce e non causa individuale della vicenda). In mezzo, certamente, dure lotte di classe sì, ma entro un perimetro ben definito, estraneo ed opposto alla prospettiva del comunismo: ci può essere un attivo governo, ci può essere un cattivo padrone che non intende scucire quanto “dovuto”, ma l’economia nazionale capitalista, la patria borghese non si tocca, è al di sopra di tutto ed in suo nome noi reagiamo alla “reazione” che ne è nemica. Il PDS lo dice fuori dai denti: non più neppur la parola del comunismo!; non vogliamo sovvertire, ma governare: democraticamente e con tutti quelli che ci stanno, classi e partiti che siano.
    A questo punto nasceva per reazione Rifondazione Comunista col concorso di tutta una disparata serie di nostalgici dei bei tempi antichi: neostalinisti e magari filocinesi riciclati, sindacalisti “duri” (alla Garavini-Bertinotti), intellettualità inquieta del tipo Manifesto e una schieretta policroma di “trotzkisti” – come da inveterata abitudine – entristi nel “movimento di massa” da “rigenerare” previa soluzione del “problema della direzione”. Tutto questo lavorio poteva ancora attrarre qualche settore proletario non dimentico dei propri interessi antagonisti (e noi, allora OCI, ne abbiamo seguito attentamente le dinamiche da non lasciar disperdere), ma non poteva in alcun modo resuscitare il cadavere del vecchio PCI e tanto meno indicare l’unica alternativa possibile, quella del ritorno sulle frontiere del comunismo. Se il PDS “deviava”, il compito che Rifondazione si assegnava era quello del mantenimento di un “fronte comune della Sinistra” con esso, sino al proprio coinvolgimento pieno in operazioni di governo assieme per “battere la destra” e la (sacrosanta) ripulsa del berlusconismo ben si prestava all’uopo. L’approdo decisivo fu quello della partecipazione al governo Prodi come ruota di scorta “folklorica” (Prodi dixit!) per permettere alle “forze sane della nazione” il varo di un bel pacchetto di misure “responsabili” da far ricadere sulle spalle del proletariato (speriamo che qualcuno se ne ricordi!) e con l’edificante coda del dispiegamento delle nostre brave forze armate da ogni parte del globo. Tanto valeva il “distacco di principio” dal PDS di qualche anno prima: adesso l’edera rifondina non si vergogna di restar attaccata al muro di un governo guidato da un manager di stato democristiano!
    Risultato: lo smarrimento (e svuotamento) della base proletaria del partito “neocomunista” che si trova priva di una sua guida cui dar fiducia. Detto nipponicamente: un harakiri scientemente consumato.
    Vero che, ad un certo punto, Rifondazione si ritrae dall’“esperimento” prodiano, ma lontano da ogni e qualsiasi riorientamento in senso comunista, sino al varo bertinottiano di nuove teorie sul legame antiriformista coi “movimenti sociali” (da opporre all’idea stessa di partito in senso classico) e sulla “non violenza” come “metodo di lotta”, traduzione peggiorativa della togliattiana “via democratica al socialismo” (termine allora ancor conservato nominalmente).
    Già a questo punto, però, il PRC subiva una prima spaccatura con la formazione del PdCI che, in maniera del tutto logica e “responsabile” (stando ad una certa impostazione comune), protestava non poter spaccare il “fronte di sinistra” possibile per ritirarsi in un ruolo di minoranza “testimoniale” esterna al corso delle cose. Il meno peggio contro il nulla, questa la conseguente risposta alla “situazione reale”. Il nuoto contre le courant non è ammesso, occorre stare nella corrente come “pungolo” per arrivare bene al... naufragio. Può anche capitare di aver ministri in un governo “di sinistra” con D’Alema che bombarda la Jugoslavia e che questo piccolo particolare non piaccia particolarmente, ma che volete? Mica si può rompere l’unità della sinistra per inezie del genere... Così il PRC perde da un lato le sue frange di classe non disposte agli inciuci a proprio danno e dall’altra quelle da tempo abituate alla rassegnazione del “meno peggio” in assenza di prospettive proprie che, sia pure in piccola parte, trasmigrano nel PdCI.
    Era pensabile, in questo frangente, che l’“ala dura” rimasta in Rifondazione reinvertisse la rotta? Al contrario: tutto il “dibattito” consisteva nel grado di “indipendenza” di partito nel perseguire la stessa via di “unità della sinistra” (o delle “forze progressive”) cui il PdCI aveva dato un’opposta soluzione di merito ponendovi delle proprie (illusorie) condizioni preliminari, di cui, nel caso jugoslavo, s’è potuto vedere il peso. E, intanto, il serbatoio di origine veniva sempre più disseccandosi, com’era per noi del tutto naturale.
    Bisognava dunque scegliere il “che fare”. E qui hanno avuto luogo due distinte serie di ulteriori scissioni. Una quella di un trio di “trotzkisti” accortisi che il PRC non si lasciava rigenerare e direzionare dopo tanti anni di punzecchiature in punta di spillo e di qui il PCL, il PAC, Sinistra Critica (mentre Falcemartello continua imperterrita, non senza prese di posizione verbali, del tutto platoniche, di pensiero autonomo all’interno del partito talora tutt’altro che indegne a questa risibile stregua). L’altra, la più consistente, quella di SEL che, arditamente, mette decisamente in campo la questione del “superamento delle vecchie concezioni ottocentesche” di comunismo, partito “tradizionale”, rigido classismo (obsoleto) e propone un nuovo ampio fronte di “gente” interessata ad una radicale riforma del capitalismo attuale da riconvertire in armonia con l’ecologia, la difesa dei “beni comuni” (entro il sistema), diritti gay (tanti voti!), anticasta ed anticorruzione (idem!), vaghe petizioni pacifiste etc. etc. Tutto l’armamentario già presente nel PRC, ma finalmente sciolto da ogni connotato veteroclassista per poter entrare come parte attiva nel “processo del cambiamento”. Una sorta di Bolognina ritardata, ed anche più squallida.
    Il PRC si spacca. Nelle assisi interne, sempre più asfittiche, Ferrero risulta vincitore su Vendola, ma è quest’ultimo che riesce a raccogliere al di fuori del partito, alla prova elettorale, i frutti maggiori in forza del suo orientamento real-innovativo rivolto al “popolo”, mentre al buon pastore valdese stanno fuggendo tutte le poche pecore rimaste (tanti buoni ex-militanti proletari smarriti, per intenderci, che nessun’altra forza comunista è riuscita a rimettere in gioco).
    Il PRC rimane fuori dal parlamento (fattore esiziale per un partito riformistoide, elettoralista per definizione), mentre SEL capitalizza i frutti di una politica “concertista” – connaturata alle basi stesse del PRC sin dalle origini – cui ha saputo dar seguito senza più remore “estremiste”.
    Percorsi diversi, ma lungo la stessa strada. Non a caso ci si ritrova già assieme col PD in varie sedi locali quasi che il problema del governo centrale (e poi si vedrà...) fosse altra cosa.
    E per le elezioni europee ecco l’ennesima prova del nove di come si sia sempre in famiglia.
    Concorrere a queste elezioni su basi “alternative di classe” è escluso per il PRC perché quel che conta sono “i numeri”, ed essi parlano da soli. Per SEL, a sua volta, questa è l’occasione per allargare ulteriormente la platea del pubblico cui ci si rivolge. Ecco allora la trovata della “Lista Tsipras” come escamotage elettoralesco per il PRC e prosecuzione di un proprio coerente progetto “innovativo” per SEL. Attorno a un non-programma come quello stilato dai “saggi” che presiedono alla Lista si assemblano vari “pezzi della società” cui sono chiamati a lavorare anche certi “partiti”, o presunti tali, come il defunto PdCI, ma a patto di sciogliersi nel mucchio cancellando ogni eventuale pretesa “identitaria” in quanto tali. Il label è quello della greca Syriza in quanto espressione del “malcontento del popolo greco che anela al cambiamento” in nome di un’“altra Europa” (e noi italiani abbiamo le stesse esigenze in proprio). Garante la Barbara Spinelli (figlia d’arte da parte del liberaleuropeista Altiero), giornalista della Repubblica e, se no ricordiamo male, a suo tempo, da brava “pacifista”, fautrice dell’aggressione alla Jugoslavia. Della congrega entrano a far parte centri sociali casariniani, rappresentanti di “movimenti di base”, manifestini alla Rangeri, e tutta una pletora di intellettuali ed onest’uomini del “popolo”. Ma il tocco di colore del (presunto) ribellismo greco non inganni: qui siamo in Italia e dei voti raccolti faremo un nostro uso acconcio che, soprattutto da parte di SEL (rappresentante dell’azionariato elettorale di maggioranza) si assicura molto responsabile nei confronti della “sinistra di governo”, sia pure dall’opposizione (... a termine, come poi si vedrà).
    Un 4% dei voti espressi (poco più di un 2 degli aventi diritto al voto) assicurano alla Lista una propria rappresentanza al parlamento europeo, ma ecco, da subito, che il già magro bottino conseguito dà luogo ad una spaccatura. La Spinelli non si dimette, come promesso, per dar spazio ad un rappresentante vuoi di SEL o del PRC (che ne avrebbe tanto bisogno), e le recriminazioni da parte di chi aveva votato la Lista “turandosi il naso”, o qualcos’altro, piovono a cascata. Ma non si tratta soltanto di questo: il fatto è che in SEL si sta facendo strada il problema fondamentale occultato dall’assemblaggio “alternativista” a scala euroelettoralistico: quello dell’atteggiamento da tenere nei confronti di un Renzi che totalizza un 40% dei voti “nel campo della sinistra”, cioè dello “stesso popolo di cui noi facciamo parte” (parole di Migliore) e dal quale non possiamo astrarci lungo nuove vie di fuga “minoritarie”. Senso della responsabilità sempre ed innanzitutto.
    In Europa si può stare con Syriza a protestare contro l’austerity “voluta dalla Merkel”, ma, intanto, prendiamo atto che in Italia con Renzi si è tumulato Berlusconi e vediamo di esorcizzare il ritorno delle destre. Basta così la questione del voto sul DL-Irpef per arrivare ad una resa dei conti anche in SEL. Migliore ed i suoi prendono al balzo lo specchietto per le allodole degli 80 euro distribuiti selettivamente a qualche milione di “svantaggiati” perché possano farsi qualche pizza in più (da pagare poi con gli interessi) per promuovere un voto di fiducia a Renzi. Vendola si oppone all’errore di chi “consideravo come un figlio” (in questo periodo le adozioni politiche sbagliate si sprecano, vedi Berlusconi!) anche se, guarda caso!, gli obietta: noi dobbiamo restare all’opposizione, ma la assicuriamo comunque responsabile e in vista di un dialogo e degli accordi possibili a venire e non vedi come da tante parti già governiamo localmente assieme? Perché dunque considerarci estremisti, settari, minoritari per vocazione?
    I “miglioristi” vanno solo un tantino più in là: una volta riconosciuto che il PD rappresenta comunque “il nostro popolo”, che esso attualmente ingloba anche parte della protesta del M5S delusa da Grillo, che al suo interno agiscono delle correnti “a sinistra di Renzi” (non occorre troppa fatica!) e che in Europa la “sinistra” è rappresentata pressoché esclusivamente dal PSE di cui il PD fa parte, non si può ipotizzare l’entrata in un PD “plurale” entro cui far la nostra parte? Faremmo forse di meglio facendoci sbatter fuori dal parlamento nazionale alla prossima tornata elettorale? E perché mai l’unità trovata sul piano locale dovrebbe contrastare con quella centrale? (Breve parentesi: chi parla in questi termini sa bene quali saranno i percorsi istituzionali non gloriosi della stessa Syriza che solo dei superfessi locali hanno potuto accreditare come “rivoluzionaria”).
    Un sagace commentatore borghese ha sottoscritto questo lodevole progetto evidenziando l’esempio del Labour Party britannico: lì hanno pur spazio persino correnti “trotzkiste” a piena soddisfazione delle esigenze “pluraliste”; e va benissimo così perché il diritto di critica “pungolatoria” di questi ultimi basta ad accontentarne i verginali pruriti “marxisti” senza incidenza alcuna sulla stretta concentrazione-centralizzazione del potere nelle mani dei grand commis del capitale. Si sa (anche da parte di Migliore), ma non si dice...
    In poche parole: la storia di tutte le formazioni di cui sopra comincia dalla reazione alla “svolta Occhetto”, ma poi, passo passo, tutte si sono occhettizzate. A parlare (meglio: a chiacchierare) di comunismo resta una frangetta di “trotzkisti” del PRC capaci di allineare persino analisi corrette e buone affermazioni di principio campate sulle nuvole, ma, per lo stesso imperativo di tutti gli altri: “non separarsi dalle masse”, disposte ad accontentarsi del ruolo di grilli parlanti in quanto “minoranza di peso” in un partito crescentemente... senza peso.
    Siamo finalmente alla fine definitiva di un’esperienza cominciata all’insegna della rivendicazione verbale del comunismo, per tradirne i contenuti, con gli Stalin e i Togliatti e terminata con le sue esequie da parte dei successivi eredi per intraprendere sino in fondo la strada del nazionalcapitalismo (del sistema capitalista tout court) dichiarando onestamente le proprie generalità borghesi legittime; ma siamo anche alla fine di tutti gli aspiranti alla “vecchia casa” da cui mai hanno saputo separarsi e della quale possono oggi godere solo dei calcinacci. Non mancheranno, forse, altre occasioni a costoro per tentare di ripresentarsi sulla scena giocando su altri tipi di aggregazione elettoralistica, ma, al massimo, visto che il loro funerale è già stato celebrato, da zombie.
    Compagni!, tiriamone le lezioni opportune, perché, come diceva un tale, “è la somma che fa il totale”!

    POST SCRIPTUM

    La tendenza al “realismo migliorista” non è invenzione colpevole di nessuno, ma il frutto di tutto un insieme di materiali pressioni borghesi “inconsapevolmente” sussunte dalle stesse organizzazioni proletarie doc. La socialdemocrazia secondinternazionista fu attratta dai risultati immediati di effettive conquiste ottenute a prezzo di una vera lotta per cadere nella trappola de “il fine è nulla, il movimento tutto”; fino ad ipotizzare la riformabilità del sistema, la sua successiva trasformazione in direzione del socialismo per via pacifica, democratica. E ciò, se volete, con le migliori intenzioni intellettuali di partenza ed una gigantesca dose di attivismo concertista (in opposizione ai “parolai” dogmatici della Sinistra). Sappiamo come andò a finire. E sempre il “sano realismo” in vista del “fare in concreto” contro i “pessimisti”, i “teorici a vuoto”, ha determinato l’inversione controrivoluzionaria stalinista a favore del sistema capitalista che inizialmente, e per moltissimi, per lungo tempo s’immaginava di voler meglio combattere.
    Fuggevolmente, ricordiamo come anche nella nostra precedente esperienza dell’OCI, pur formalmente duramente blindata contro questa malattia, abbiamo dovuto registrare a duplice ripresa la stessa infezione “migliorista”. La prima... vendolata si è immancabilmente avuta di fronte ad un certo (notevole per numeri) sviluppo del movimento contro la guerra che ci avrebbe chiesto di non esser dimenticato o vilipeso (!?), pena la nostra “emarginazione settaria”. Risposta “concertista” da parte di chi ci lasciò: facciamoci interni al movimento abbandonando pretese teorico-programmatiche e tanto più quelle “da partito” e (un po’ alla volta) anche lo stesso riferimento ad un “astratto” proletariato supposto centrale per il “cambiamento”. In seguito, proprio da parte di chi aveva meglio combattuto queste posizioni, è spuntata l’ipotesi di un governo Prodi “obbligato” in qualche maniera dalla pressione proletaria (quale?) a farsi almeno un po’ nostro “amico”.
    Anche in questo caso vige una regola ferrea: tutti gli sforzi “concretisti” di tipo migliorista (sia pur fatti con le più belle intenzioni e lo sventolio di bandierine di fedeltà alla bandiera – quando c’è –), non produce alcun risultato in avanti, neppure dal punto di vista strettamente riformista; lascia a bocca asciutta i pretendenti alla grande bouffe; in compenso debilita le poche forze rimaste sul terreno marxista in nome del quale, eventualmente, si voleva “investire”.
    Non parliamo di altre organizzazioni “comuniste” in preda alla stessa sindrome. Ci basta soltanto sottolineare come le lezioni da trarre dal tema sopra esposto vale a tutto campo e per tutti.

    26 giugno 2014

    Nucleo Comunista Internazionalista

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