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La fabbrica della paura

La fabbrica della paura

(5 Gennaio 2010) Enzo Apicella

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    (Il nuovo ordine mondiale è guerra)

    L’Iraq in preda delle lotte interimperialiste

    Uno Stato in decomposizione

    (14 Agosto 2014)

    La situazione in Iraq ha continuato a deteriorarsi dopo la partenza delle truppe americane alla fine del 2011, con una recrudescenza di violenze e attentati. Ancora una volta risultano evidenti i frutti nefasti degli interventi “umanitari” degli Stati Uniti “per portare la democrazia” che, dalla Seconda Guerra mondiale e i discorsi di Truman, imperversano per il mondo a coprire una politica aggressiva e imperialista, una lotta feroce per la supremazia su avversari altrettanto spietati, dagli europei ai russi ai cinesi, per spartirsi il mondo e i mercati.

    Tre anni dopo la partenza delle truppe americane (ma la presenza statunitense è ancora lì tramite le imprese, le truppe militari private e un impressionante arsenale diplomatico chiuso nell’Ambasciata barricata nella superprotetta “zona verde” di Baghdad) lo Stato iracheno è prossimo alla disgregazione, la vicina Siria si trova nel caos della guerra civile, in Libano torna l’incubo delle autobombe mentre Israele interviene nuovamente nella striscia di Gaza massacrando centinaia di proletari disarmati.

    Le rivolte contro i regimi familiari in Tunisia, Egitto, Libia, sono fallite lasciando spazio alla presa del potere da parte di movimenti religiosi o nazionalisti.

    Nonostante la immensa ricchezza petrolifera, lo Stato iracheno è debole e paralizzato dallo stato di guerra fra le comunità e fra partiti politici. Il primo ministro sciita Nuri al Maliki si mantiene ormai tramite una feroce dittatura, in particolare contro la minoranza sunnita non curda. Questa rappresenta il 20% della popolazione ed è stanziata soprattutto nell’ovest del paese; gli sciiti sono il 60%, e vivono in maggioranza nell’est e nel centro, le regioni più povere. Il 20% sono curdi, in prevalenza sunniti, ed abitano nel nord, nella regione autonoma del Kurdistan iracheno; infine 800.000 sono i cristiani caldei e nestoriani di etnia assira, armena o latina.


    Ma il malessere sociale colpisce l’intera popolazione a causa della mancata ricostruzione delle infrastrutture: grave il problema dell’approvvigionamento di acqua ed elettricità, i trasporti e le vie di comunicazione insufficienti e deteriorate. Incombe anche la minaccia di una drastica modifica del Codice del Lavoro a vantaggio del padronato, in complicità le richieste del Fondo Monetario Internazionale per concedere nuovi prestiti, indispensabili per la ricostruzione del paese, devastato da decenni di guerra.

    L’Iraq rimane il secondo produttore OPEC e la quarta riserva mondiale di petrolio, con bassi costi di estrazione e una immensa riserva di gas. L’economia irachena resta interamente dipendente dalla produzione di idrocarburi, che rappresentano il 95% delle entrate statali e il 100% delle entrate in valuta. Il debito pubblico è stato ridotto oggi al 25% del Pil grazie alla cancellazione del 80% del montante nel 2004 e alla sua ristrutturazione nel 2011 da parte dei creditori pubblici del Club di Parigi, nonché alle cancellazioni o riduzioni di debito concesse nel 2010 dalla Cina, nel 2011 dall’Algeria, nel 2012-2013 dai paesi del Golfo.

    Ma la situazione sociale è esplosiva, con una popolazione per il 57% di giovani, colpiti dalla disoccupazione, e che costituiscono un terreno fertile per i gruppi estremisti di tutte le bande, jihadisti sunniti e milizie sciite. È ben chiaro per tutta la popolazione che una parte enorme delle entrate petrolifere è deviata dalla corruzione dilagante tra il personale al potere e tutte le sue clientele, il che provoca dissensi anche all’interno della borghesia sciita.

    L’Iraq, patria di Abramo, padre di tutti i credenti ebrei, cristiani e musulmani, è ormai preda delle divisioni religiose (sunniti-sciiti) ed etniche (curdi-arabi). Dopo il 2003 la politica degli americani ha fortemente accresciuto gli attriti tra le comunità. Ad uno sciita è andato il posto di primo Ministro, ad un sunnita quello di portavoce del parlamento e a un curdo la presidenza. Inoltre il governo americano ha favorito l’autonomia del Kurdistan iracheno, confinante con la Turchia e l’Iran, aprendogli la prosperità economica che oggi dimostra.

    La guerriglia sunnita, che chiama alla crociata anti-sciita e che raggruppa i gruppi jihadisti e i vecchi militari legati a Saddam Hussein; il vicino conflitto siriano; la politica aggressiva anti-sunnita del primo ministro Al Maliki; le concorrenze regionali tra le monarchie sunnite del Golfo e l’Iran sciita; per non parlare delle ambizioni regionali della Turchia, che commercia senza ritegno col regime autoritario del Kurdistan iracheno, essendo quest’ultimo in conflitto aperto col primo ministro iracheno; senza dimenticare l’onnipresenza dei grandi imperialismi statunitense, cinese e russo, tutto questo ha condotto allo sgretolarsi dell’entità irachena.


    La jihad, l’albero che nasconde la foresta

    In Iraq e in Siria pare quindi ripresentarsi il sanguinoso scontro tra i due rami principali dell’islam, sunnita e sciita. Ma dietro questo antagonismo secolare si gioca una battaglia geopolitica per il dominio regionale di cui i jihadisti dello SIIL (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) sono solo una delle creature e si indica a loro come all’albero per nascondere la foresta. Lo SIIL sembra aver abolito il confine tra Iraq e Siria e ora minaccia da vicino la capitale dell’Iraq, Baghdad. Ma l’azione di qualche migliaio di uomini, anche se bene armati, non può spiegare la situazione attuale.

    La chiave del problema è rappresentata soprattutto dallo scontro tra le grandi potenze imperialiste per il controllo strategico del Medioriente, delle vie marittime che permettono di accedere al suo petrolio e al suo gas. Non bisogna infatti dimenticare che il petrolio iracheno è uno dei più economici al mondo, con un costo di produzione di 4 dollari al barile, mentre attualmente viene venduto a circa 110 dollari fruttando così una rendita colossale. Il petrolio non è ambito solo dalle multinazionali del settore, ma anche da tutte le borghesie locali, dagli sceicchi tribali ai trafficanti, dai gruppi jihadisti ai nazionalisti curdi, che lo vendono, legalmente o di contrabbando, al miglior offerente. Al momento lo sfruttamento del petrolio nel Nord dell’Iraq è fortemente ostacolato dai combattimenti, ma continuano le esportazioni di greggio da Bassora, nel Sud, da dove è tradizionalmente imbarcata la maggior parte del greggio iracheno. Il maggior acquirente è la Cina, il principale importatore di greggio iracheno, che è quindi preoccupata per l’instabilità del paese, seguita dalla Turchia, che per questo motivo si è avvicinata al Kurdistan iracheno guidato da Massud Barzani.

    L’attuale conflitto iracheno è presentato da tutte le borghesie del mondo come di tipo religioso, o etnico quando si tira in ballo la questione curda. In effetti partiti a base sociale sunnita governano su gran parte dei paesi nel Magreb e in Medioriente, in particolare nel Golfo Persico. Musulmani sciiti sono invece la maggioranza degli iraniani e degli iracheni; ma in Iraq sono spesso stati disprezzati e perseguitati.

    Ma la sostanza del problema non è né religiosa né etnica. Il Medioriente è stato amministrato per secoli dall’Impero Ottomano e dalla sua gerarchia sunnita, che già contendeva il controllo della Mesopotamia al potente vicino persiano. Alla fine della Prima Guerra mondiale la regione è stata divisa in uno sciagurato mercato tra l’imperialismo francese e quello inglese, usciti vittoriosi dal conflitto, in base ai loro interessi geopolitici ed economici (il controllo dei pozzi petroliferi), mentre gli Stati Uniti osservavano interessati. Nonostante le rivolte tribali degli anni Venti, sanguinosamente represse, le tradizionali comunità sono state lacerate e gli Stati che sono nati sotto l’occhio vigile dell’imperialismo occidentale non hanno mai potuto vivere in pace a causa degli antagonismi interni, prodotti anche dagli artificiali confini loro imposti.

    Durante la dittatura del baathista Saddam Hussein, che poggiava il suo potere sulla borghesia sunnita, l’Iraq ha conosciuto un forte sviluppo economico, legato ai proventi derivanti dall’estrazione del petrolio, che ha portato profitti milionari agli uomini d’affari di mezzo mondo. Ma la guerra contro l’Iran prima, l’occupazione del Kuwait dopo, e infine l’intervento armato della coalizione anglo-americana, e dei suoi scagnozzi, hanno martirizzato la popolazione, rovinato il paese e le ambizioni regionali della sua borghesia.

    Nel 2003 la caduta di Saddam Hussein e l’aiuto dei vincitori hanno permesso alla borghesia sciita di salire al potere. L’occupazione americana si è appoggiata sulle divisioni etniche e religiose, che grandemente ha incoraggiato, in particolare difendendo gli interessi della borghesia sciita e curda. L’esercito iracheno è stata sciolto, provocando la smobilitazione di decine di migliaia di soldati e ufficiali, tornati alle loro case; i baathisti sono stati perseguitati e le ricche famiglie sunnite escluse dal potere.

    La resistenza contro gli eserciti occupanti si è quindi rapidamente organizzata intorno alle comunità sunnite, appoggiate ad ovest e a nord dai soldati dell’ex regime baathista, mentre iniziavano ad apparire gruppi islamisti sunniti come Al Qaeda e l’Esercito Islamico in Iraq.

    Il primo ministro sciita Nuri al Maliki, sorretto dall’Iran e da Washington, ha esacerbato le tensioni tra le comunità religiose adottando misure discriminatorie e repressive al fine di soddisfare la sua base sociale e i sostenitori di Moqtada al Sadr, che gli permettono una maggioranza in parlamento.

    Moqtada al Sadr è un politico sciita, capo di una importante milizia, la cui roccaforte è nella periferia di Baghdad. Ha combattuto la presenza americana in Iraq ed è favorevole ad un riavvicinamento con Bashar Al-Assad. Per questo motivo ha rapporti tesi con il Grande Ayatollah Ali al-Sistani a Najaf.

    La discriminazione contro i sunniti si esprime soprattutto nell’accaparramento da parte di Maliki e della sua banda di una buona parte delle entrate petrolifere, dalle quali si è trovata ampiamente esclusa la borghesia sunnita, rappresentata soprattutto da proprietari terrieri, da notabili urbani e da uomini d’affari; quindi rispetto al tempo del regime di Saddam Hussein la situazione si è rovesciata.

    Quanto al Kurdistan iracheno “autonomo” di Barzani, l’attuale crisi potrebbe consentirgli di diventare indipendente ottenendo il controllo permanente della regione di Kirkük con i suoi giacimenti di petrolio, che i peshmerga curdi hanno occupato dopo la presa di Mosul da parte dei ribelli. Migliaia di iracheni hanno cercato rifugio in questa regione, ben protetta dai peshmerga, dopo l’inizio dell’offensiva dello SIIL. Si sono però già verificati degli scontri tra l’armata irachena alleata con le milizie curde e i ribelli nelle città di Jalawla e Saadiya.

    Per noi comunisti è assolutamente essenziale denunciare la strumentalizzazione che, in tutti i campi, viene fatta della dimensione religiosa, che sarebbe causa di tutti i mali attuali. Queste guerre che si vorrebbe spiegare come causate dallo scontro tra il messianismo democratico occidentale e le dittature di ispirazione religiosa o etnica, nascondono – ma così male che si dovrebbe esser ciechi per non vederlo – l’avidità di grandi e piccoli imperialismi, regionali e globali, i cui interessi continuamente si intrecciano e si contrappongono.

    Le potenze in lotta per la supremazia nella regione sono la Turchia che ha assunto l’eredità dell’Impero ottomano, l’Iran e l’Arabia Saudita; l’Iraq è stato violentemente cancellato dall’elenco degli Stati che contano. Per quanto riguarda le grandi potenze imperialiste, Stati Uniti, Cina, Russia e, meno visibile, la Germania, sono in lotta tra di loro tanto per ragioni di strategia economica (le ricchezze del sottosuolo), quanto per motivi geopolitici (il controllo delle principali vie del commercio mondiale) e cercano di tenere piegate ai loro interessi le potenze regionali.

    Attualmente l’Iran, il cui arco di influenza va dalla Siria al Libano, interviene sistematicamente in tutti i conflitti nella regione. È stata Teheran a ordinare al movimento libanese Hezbollah, che finanzia, di impegnarsi militarmente a fianco di Bashar Al-Assad in Siria, e questo con l’aiuto di armi russe scaricate nel porto siriano di Tartus. L’Iran, per la sua posizione strategica, è corteggiato da tutte le potenze imperialiste, dagli Stati Uniti alla Russia alla Cina, ma l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo, legati da una congenita alleanza agli Stati Uniti, per non parlare di Israele e della Turchia, non vedono affatto favorevolmente questo riavvicinamento tra gli USA e l’Iran.

    Infine Israele, testa di ponte degli Stati Uniti in Medioriente, ha annunciato il suo sostegno all’indipendenza della regione autonoma curda e ha sviluppato relazioni di tutti i tipi con il Kurdistan di Barzani (acquisto di petrolio, progetti di ingegneria idraulica di cui potrebbe beneficiare lo Stato d’Israele) mentre i suoi consiglieri militari sono molto attivi nel nord dell’Iraq confinante con l’Iran. Il suo intervento nella regione è sempre più pesante, come dimostra anche l’invasione di Gaza di questo luglio.

    A causa della guerra civile in Siria, da due anni sono tagliate le vie attraverso le quali transitavano le merci europee e turche esportate in Giordania e in altri paesi del Medioriente; per questo dalla fine del 2012 migliaia di tonnellate di merci varie passano per i porti israeliani e sono trasportate da camion turchi, greci, bulgari e rumeni verso la Penisola Arabica e la Giordania. Anche i negoziati in corso sul nucleare iraniano tra i 5 membri del Consiglio di Sicurezza più la Germania, da un lato, e i funzionari iraniani dall’altro, sono seguiti con particolare attenzione da Tel Aviv, tanto più che la guerra in Iraq sembra favorire gli iraniani, che hanno assunto un ruolo sempre più importante nella lotta contro i ribelli sunniti.

    Lo SIIL, sorto nel 2006 da una scissione dell’organizzazione terroristica Al Qaeda, ha il grosso dei suoi combattenti in Siria ma sta avanzando rapidamente anche in Iraq; questo movimento è considerato come una minaccia da Teheran che vede dietro di esso la mano dell’Arabia Saudita.

    Nel 2001, dopo gli attacchi dell’11 settembre, l’intervento militare degli Stati Uniti in Afghanistan ha cacciato i talebani dal governo, dopo che in precedenza erano stati sostenuti e utilizzati da Washington contro i russi. In seguito gli Stati Uniti hanno attaccato un loro ex-alleato nemico dell’Iran, Saddam Hussein, e dopo averlo sconfitto ed impiccato, nel 2003 hanno installato nel paese un governo sciita. Tutto questo ha contribuito ad aumentare la potenza iraniana nella regione, provocando l’insofferenza dell’alleata Arabia Saudita verso l’imperialismo statunitense. La preoccupazione di Riyadh è aumentata dopo che Washington ha ripreso il dialogo con Teheran, e la diplomazia americana forse dovrà presto scegliere tra l’Iran, che la borghesia americana vuole riportare nel suo grembo, anche in funzione antirussa, e l’Arabia Saudita che rimane comunque un alleato prezioso.

    Se i governi dell’Arabia Saudita e del Qatar negano formalmente di fornire assistenza allo SIIL, sappiamo che hanno favorito il suo sviluppo per contrastare l’Iran, come hanno fatto per l’altro gruppo jihadista, Tel Al Nusra, che d’altra parte si è anche scontrato con lo SIIL in Siria.

    Dunque sarà questo fantomatico SIIL il nuovo maligno da combattere? Questa organizzazione riceve finanziamenti privati e secondo il ricercatore Jean Pierre Luizard, specialista in Iraq del CNRS, attualmente sarebbe il più grande gruppo armato al mondo. Le risorse di cui dispone attualmente, provenienti dall’esproprio delle banche, dalle estorsioni, dai rapimenti con richieste di riscatto, dal contrabbando di petrolio, dalla conquista di intere caserme piene di armi e attrezzature militari ecc., lo renderebbero un gruppo relativamente indipendente da tutele esterne. Rivale di Al Qaeda ne sarebbe più potente; il suo intervento assistenziale tra le popolazioni impoverite ne aumenterebbe assai la popolarità.

    L’Iraq è oggi un paese economicamente distrutto, con un’economia dipendente dai proventi del petrolio, dei quali però gran parte della popolazione del paese, rovinata dalla guerra, non riceve alcun beneficio, se si esclude la regione del Kurdistan iracheno. Un movimento sunnita dai tratti jihadisti ha invaso quasi tutta la parte occidentale del paese, da nord a sud, e anche una zona nella parte orientale, risparmiando solo la ben difesa regione del Kurdistan, e la sua avanzata minaccia ormai da vicino la capitale. Lo dovrebbe contrastare un esercito che a Mosul, dove era una forte guarnigione prevalentemente sciita, addestrata dagli americani, ha scelto di fuggire precipitosamente con in testa gli ufficiali, mentre gli ayatollah sciiti delle città sante del Sud e Moqtada al Sadr chiamano gli sciiti a formare reparti contro l’invasore sunnita!

    Il primo ministro sciita, Al Maliki scagnozzo dell’Iran e dei diplomatici statunitensi, segretario generale del Partito Islamico Dawa, ha chiesto l’aiuto dei suoi padroni, che attualmente fanno molte promesse ma restano prudenti. Gli Stati Uniti hanno infatti schierato solo 200 soldati per rafforzare la difesa della loro ambasciata a Baghdad, la più grande al mondo per numero di personale, e dell’aeroporto, che si sono aggiunti ai 275 soldati inviati nel giugno scorso e ai 300 consiglieri militari.

    Ma alla fine di giugno il governo Maliki a sorpresa ha ricevuto una prima consegna dalla Russia di aerei Sukhoi: gli Su-25 sono aerei da attacco al suolo molto efficaci. Naturalmente il Cremlino non si è fatto scappare l’occasione di concludere un affare facendo contemporaneamente lo sgambetto a Washington, che non ha visto certo di buon grado questa incursione russa in Iraq. Anche l’Iran ha inviato truppe in soccorso del governo di Al Maliki.

    Lo SIIL ha annunciato la restaurazione del califfato che si estendeva da Aleppo, nella Siria settentrionale, fino a Diyala, in Iraq orientale, abolito nel 1924 dal nazionalista turco Mustafa Kemal. Dopo essere stati assai silenziosi per molto tempo, adesso i media, con l’aiuto di siti web, dichiarazioni di politici, ricercatori ed esperti sul Medio Oriente, ecc., ci raccontano che l’arrivo di questo piccolo gruppo di islamisti, provenienti dalle roccaforti sunnite, è spesso preceduto, o è causa diretta, di insurrezioni locali come a Mosul, a Tikrit e a Falluja.

    La resistenza all’occupazione USA e anche all’influenza dell’Iran sull’Iraq, dopo la caduta di Saddam Hussein si è organizzata attorno a diversi gruppi. Tra questi, l’Esercito Islamico in Iraq si definisce come nazionalista di tendenza salafita ed è composto principalmente da soldati e ufficiali dell’ex-esercito iracheno disciolto dal governo statunitense; vanta centinaia di operazioni armate contro le forze della coalizione anglo-americana e anche rapimenti di giornalisti. Altri gruppi armati sono emersi come quello denominato Kataeb Al Ichrine, o Al Qaeda in Iraq, guidato dal giordano Al Zarqawi, ucciso nel 2006, che inquadra una percentuale elevata di stranieri e organizza anche attacchi suicidi.

    Tra questi gruppi sono sorte divergenze anche gravi. Poiché Al Qaeda era entrato in contrasto con i capi di alcune tribù sunnite a causa della sua crudeltà nei confronti della popolazione e riguardo al contrabbando di petrolio, alcuni dei gruppi della resistenza, insieme ad alcuni capi tribali sunniti, nel 2007, nella provincia di Al Anbar, hanno aiutato le truppe statunitensi ad eliminarla. Attualmente il gruppo dello SIIL si contende con alcuni sceicchi il controllo del contrabbando di petrolio lungo la strada da Baghdad ad Amman, in Giordania.

    In mezzo a questa confusione, una parte della borghesia sunnita si è organizzata dietro alcuni capi tribali sunniti, ufficiali dell’esercito del vecchio regime e membri del partito Baath iracheno, perseguitato dal 2003. Questi ultimi, molti dei quali si erano formati nell’ultra-sofisticato servizio di intelligence controllato dall’ex dittatore, si sono infiltrati da alcuni anni in tutti i gruppi islamisti.

    L’insurrezione attuale sarebbe guidata da capi tribali alla testa di milizie armate sunnite, sotto la supervisione di soldati del disciolto esercito iracheno. Ma chi sono questi capi tribù sunniti che si uniscono alla resistenza contro l’occupazione straniera e contro la preponderante influenza dell’Iran sul paese, se non notabili, proprietari terrieri, grandi mercanti, industriali e uomini d’affari di ogni genere? Una buona metà di questi capi tribali, che oggi sono per lo più urbanizzati, sono stati nominati tali da Saddam Hussein per costituire la base sociale degli ultimi dieci anni del suo regime, e rappresentano una borghesia sunnita che rivendica la sua parte di torta nella spartizione delle rendite del petrolio.

    In un’intervista del giugno 2014 al quotidiano panarabo “Asharq Al Awsat” (Medio Oriente in arabo, giornale con sede a Londra, fondato nel 1978 da un principe saudita, è il più importante quotidiano pan-arabo diffuso in 4 continenti), Ali Hatim Al Suleiman capo della tribù Dulaim, una delle più grandi con circa tre milioni di componenti, in maggioranza sunniti, presenti sia in Siria sia in Iraq e soprattutto nella parte occidentale della provincia irachena di Al Anbar, ha detto che l’attuale situazione in Iraq è quella di una “rivoluzione delle tribù” contro il governo Maliki e che sono le tribù ribelli che hanno il controllo di Mosul. Secondo lui non è ragionevole affermare che lo SIIL, che ha pochi uomini e mezzi, sia in grado di controllare grandi città come Mosul. I combattimenti in questo settore sarebbero stati condotti da alcune tribù sunnite che si contrappongono alle forze governative già dal dicembre 2013. Per organizzare le province occupate sarebbero stati creati dei Comitati militari ai quali partecipano sia capi tribali sunniti sia ex ufficiali dell’esercito di Saddam.

    Beninteso quelle che chiamano “tribù” non hanno nulla a che fare con le tribù nomadi originali: si tratta di sovrastrutture politiche, che possono mantenere alcuni legami di parentela, ma piuttosto deboli, che si sono adattate alla società borghese e costituiscono una rete di interessi tenuta in mano dalle famiglie più potenti. In Iraq sono identificate 150 tribù, di cui 30 influenti, divise in clan e poi in famiglie; esse rappresenterebbero circa la metà, o anche più secondo alcune fonti, della popolazione; i membri di una tribù si richiamano a un mitico antenato comune ma possono essere sciiti, sunniti o anche di gruppi etnici diversi.

    Secondo le dichiarazioni di Gilles Munier sul suo sito web France-Iraq, sarebbe stato creato un “Consiglio rivoluzionario militare generale iracheno”; questo organismo rappresenterebbe l’organizzazione clandestina che amministra le province “liberate” (distribuzione di pane e acqua, controllo dei prezzi alimentari, rapporti con le tribù) e coordinerebbe l’avanzamento delle forze ribelli. Il suo portavoce è il generale Mizher Al-Qaissi. Quest’ultimo è stato intervistato dal canale televisivo del Qatar Al Jazeera (ora vietato in Iraq) e ha dichiarato che certamente lo SIIL (“Daash” arabo) esiste ma la “nuova primavera irachena” sarebbe rappresentata dalla rivoluzione armata guidata dalle tribù. La sua organizzazione coordina le attività dei Consigli regionali, comprendenti militari, capi tribù, dirigenti delle organizzazioni di resistenza e migliaia di ufficiali e soldati; progetta e persegue i suoi obiettivi in materia e certo può verificarsi, dice il generale, che qualche gruppo autonomo sia in grado di muoversi verso gli stessi obiettivi, ma sono i membri della sua organizzazione che circondano le città e le occupano.

    Sempre secondo Gilles Munier, la spettacolare conquista di Mosul e delle sue installazioni petrolifere si spiega con la presenza all’interno della città, di ex ufficiali dell’esercito di Saddam e con la partecipazione di milizie sunnite guidate da capi tribali, decise a ribellarsi contro Baghdad; Mosul infatti durante l’antico regime è stata una risorsa inesauribile di alti ufficiali e di dirigenti del partito Baath.

    Anche l’Esercito Islamico e il gruppo Naqshbandi, di ispirazione Sufi e guidato dall’ex vice presidente dell’Iraq, Izzat Ibrahim Al-Duri, avrebbero partecipato insieme allo SIIL alla presa della città. Izzat Ibrahim Al-Duri, 71 anni, è un civile che ha legami tribali e familiari nella regione di Mosul; dopo la morte di Saddam, ha assunto la direzione del Baath, diventato illegale, e sulla sua testa è stata messa una taglia dagli occupanti americani (vivo o morto!); fuggito dall’Iraq attualmente vive in Arabia Saudita. Mantiene una fitta rete di contatti con ex ufficiali dell’esercito iracheno e gruppi paramilitari al servizio del vecchio regime. Appartiene alla confraternita Sufi di Naqshbandiyya (una setta mistica sunnita contrastata da Al Qaeda), potente a Kirkük e Mosul. È entrato nella resistenza nel 2003 e, raccogliendo i baathisti, ha formato l’ “Esercito della Vita di Nakshbandi”, riferendosi ad una setta Sufi teoricamente pacifista.

    È stato un gruppo di suoi affiliati ad attaccare il 26 marzo 2003, a colpi di lanciarazzi, l’hotel, situato nella zona verde di Baghdad, dove risiedevano i diplomatici statunitensi; suoi combattenti hanno partecipato alla battaglia di Falluja e a quella di Samarra. Nel 2009, secondo fonti dell’intelligence USA, dai 2.000 ai 3.000 dei suoi soldati hanno combattuto nella zona di Kirkük e attaccato le basi americane. Questo esercito è caratterizzato dalla sua fede religiosa, dal suo stile di vita ascetico e dal patriottismo dei membri, che li tiene uniti al di sopra delle divisioni etniche. Il grosso dei suoi aderenti è composto da ex membri dell’esercito iracheno.

    Infine, “Le Monde”, in un articolo del 1 luglio dal titolo “Izzat il rosso, lo sceicco di Baghdad”, il cui contenuto è molto più interessante del titolo, ci dà altre informazioni su Izzat Ibrahim El Duri. Nato nel 1942 a Daour in un villaggio vicino a quello di Saddam Hussein, ha aderito al Baath alla fine del 1950, ha assistito Saddam Hussein in tutte le sue manovre, fino alla morte. Nel 1979 era diventato vice-presidente del “Consiglio di comando della rivoluzione” che costituiva l’apice della piramide del potere e aveva organizzato la spietata repressione baathista, compresa la feroce soppressione dell’insurrezione curda del 1980.

    Riportiamo alcuni estratti dall’articolo: «In pensione, ma al comando delle truppe baathiste super addestrate che affiancano lo SIIL e che occupano le città conquistate dai jihadisti, è riapparso il “ricercato numero 6”, simbolo del fallimento dell’azione degli Stati Uniti in Iraq (...) L’immensa ricchezza, che gli proviene da un fruttuoso contrabbando di petrolio organizzato con il figlio di Hafez al-Assad in Siria, gli permette di finanziare l’insurrezione in Iraq e garantirsi potenti protettori nella regione».

    Quindi la coalizione che dirige la lotta contro il governo filo-iraniano e filo-americano del signor Maliki, appare eterogenea e porta già in sé i germi di inevitabili discordie future. I prossimi scontri tra questi falsi amici proseguiranno la tradizione di alleanze opportunistiche e tradimenti sanguinosi propri del partito Baath e di Saddam Hussein e sulle velleità fanatiche dello SIIL, forse ancor prima che l’Iraq sia spartito in varie parti, come pare sia prospettabile.

    La nuova situazione geopolitica regionale è come una diabolica partita di scacchi in cui Izzat e lo SIIL costituiscono dei pezzi che gli imperialisti ad un tempo manovrano ma non possono ignorare.

    L’Iraq va verso uno smembramento territoriale e una spartizione dei proventi del petrolio tra i vari clan borghesi iracheni, come sembra prudentemente prevedere la diplomazia di Obama, o verso una lunga guerra civile in cui le masse irachene avranno da soffrire ancora di più?

    La classe proletaria in Iraq non sembra, al momento, in grado di muoversi in modo autonomo; del resto non ne abbiamo alcuna informazione al riguardo. Tuttavia, solo un movimento del proletariato della regione potrà evitare che la situazione irachena si aggravi ancora e soprattutto potrà fare in modo che evolva in senso rivoluzionario attraverso una lotta contro tutti i briganti borghesi, piccoli e grandi.

    Il proletariato iracheno dovrà riappropriarsi delle sue grandi tradizioni di classe e unirsi in forti organizzazioni economiche per difendere le sue condizioni di vita immediate, mentre i suoi membri più combattivi ritroveranno il programma del comunismo rivoluzionario, il Partito Comunista Internazionale. I lavoratori dell’Iraq ormai non hanno più nulla da perdere se non la vita e non vale la pena perdere la vita per difendere lo Stato borghese e i suoi scagnozzi prezzolati!

    Certo è che, date le attuali condizioni di acuta crisi economica e di scontro sempre più intenso tra i vari imperialismi, per i lavoratori dell’Iraq e di tutto il Medioriente non sarà facile riprendere il cammino della lotta di classe; ma con l’appoggio decisivo del proletariato occidentale, in rivolta contro le politiche imperialiste dei propri governi borghesi, potranno riuscire a spezzare questo ciclo di guerre e massacri senza fine.

    Partito Comunista Internazionale

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