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Un miliardo di esseri umani

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(12 Maggio 2011) Enzo Apicella

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AMBIENTE E SVILUPPO: SPUNTI DI RIFLESSIONE

Relazione presentata da Mimmo Filippi all'Assemblea di Ross@ Savona del 20 Agosto 2014

(23 Agosto 2014)

Le considerazioni ed i dati che seguono non hanno certamente la pretesa di un trattato scientifico, né vogliono esserlo. Ma, nella convinzione dell’importanza che ciascun militante o simpatizzate di una formazione politica abbia piena consapevolezza, anche sotto il profilo scientifico, della validità delle sue affermazioni, cercherò di porgere sull’argomento “Ambiente e Sviluppo” alcuni elementi, tratti in gran parte da pubblicazioni scientifiche varie, che offrano spunti di riflessione e di ulteriore eventuali approfondimenti.
Tutto ciò nell’ottica che ci accomuna e che ci vede oggi concordi nell’attribuire al Capitalismo imperante da un lato le responsabilità maggiori della condizione di subalternità e di povertà che opprime centinaia di milioni di persone e, dall’altro, nel contestargli, sebbene non ne sia stato e non ne sia oggi l’unica causa, una situazione di progressivo degrado del pianeta Terra, nelle sue componenti aria, acqua e suolo, con la conseguente concreta possibilità che si aprano o si ingrandiscano scenari di mutamenti irreversibili e di vere e proprie tragedie ambientali e sociali.

Siamo in deficit ecologico
Il 19 agosto è stato l’Overshoot day, il “giorno del superamento”: a quel giorno abbiamo prelevato più di quanto avevamo a disposizione fino a dicembre nel conto corrente del pianeta. Dal 20 agosto in avanti l’umanità sopravviverà rubando aria, acqua, terra fertile alle generazioni future, dal 20 agosto l’umanità si “mangerà il capitale” perché il pianeta non sarà in grado di rigenerare le risorse che gli sono state richieste in eccesso rispetto alle sue capacità rigeneratrici
Nel 1961 l’umanità usava solo tre quarti della capacità della Terra di generare cibo, fibre, legname, risorse ittiche e di assorbire gli inquinanti. All’inizio degli anni Settanta l’impronta ecologica dell’umanità ha superato la capacità di produzione rinnovabile del pianeta. E da allora il deficit è andato crescendo. Già oggi, secondo i calcoli del Global Footprint Network, ci sarebbe bisogno di 1.5 Terre per produrre le risorse rinnovabili necessarie per sostenere l’impronta ecologica dell'umanità nel suo insieme. . In base a una proiezione prudente, si arriverà a 3 pianeti prima della metà di questo secolo.
Tutto questo, inoltre, significa: scomparsa di centinaia di specie animali e vegetali, desertificazione, impoverimento accelerato delle risorse, inquinamento del suolo, delle acque e dell’atmosfera e, soprattutto, aumento del numero dei poveri e riduzione di quello dei ricchi, che però diventano sempre più ricchi.

Domanda di energia
Lo sviluppo della comunità umana richiede prima di tutto energia; la domanda globale di energia primaria ammontava, nel 2006, a quasi 12 milioni di tonnellate di petrolio equivalenti (Mtep), in larga misura (oltre l’80%) forniti da combustibili fossili, cioè carbone, petrolio, gas naturale. Secondo lo scenario ipotizzato dall’International Energy Agency (IEA), la domanda di energia salirà nel 2030 a circa 17 Mtep. I combustibili fossili rimarranno largamente dominanti e da essi, tanto le società capitalistiche quanto quelle collettiviste non sono disposte a discostarsi, malgrado sia sempre più evidente la perniciosità di tale utilizzo per i suoi pericolosi riflessi sugli equilibri fisici, chimici e biologici del pianeta.
Petrolio
L’IEA valuta le risorse petrolifere recuperabili in circa 2600 Gbbl (miliardi di barili – un barile = 42 galloni USA = 158,99 litri), circa 1100 dei quali di riserve provate, cioè già oggi economicamente recuperabili. Il rimanente è costituito da risorse scoperte, ma non ancora sviluppate. Secondo le previsioni dell’IEA (2008), la domanda mondiale potrà crescere fino a circa 106 Mbbl/g nel 2030, in equilibrio con la produzione, che verrà sempre più coperta dai Paesi dell’area OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries).
Carbone fossile
Il carbone è la fonte fossile più abbondante in natura. Il suo consumo annuo, nel 2006, è stato di 4,36 Gt (IEA 2008). Si prevede che la domanda, secondo gli attuali modelli, possa superare 7 Gt nel 2030. Le riserve provate ammontano a circa 900 Gt, che rappresentano i 2/3 circa della disponibilità totale dei combustibili fossili.
Gas naturale
Secondo i dati ENI, nel 2010 sono stati consumati, nel mondo, 3.253 miliardi di m³ di gas naturale. Alla fine dello stesso anno le riserve ammontavano a 190.878 miliardi di m³; assumendo costanti i consumi, le riserve note non si estinguerebbero prima di 59 anni. Nel decennio 1994-2004, però, i consumi sono aumentati in media del 2,7% all'anno, e si ravvisa qualche problema in particolare per l'Occidente.
Gli Stati Uniti, dopo la scoperta di enormi depositi di gas naturale chiamato shale gas contenuto all'interno di rocce argillose e lo sviluppo delle trivellazioni orizzontali necessarie per estrarlo, possono contare su una disponibilità di gas enorme: 200 biliardi (200x1015) di piedi cubici di gas. Per dare un'idea, le riserve mondiali di gas attualmente conosciute ammontano a 6 biliardi (6x1015) di piedi cubici.

Shale-gas e shale oil: fracking
La fratturazione idraulica o fracking (dall'inglese hydrofracking) in geotecnica è lo sfruttamento della pressione di un fluido, in genere acqua, per creare e poi far propagare una frattura in uno strato roccioso nel sottosuolo. La fratturazione viene eseguita dopo una trivellazione entro una formazione di roccia contenente idrocarburi, per aumentarne la permeabilità al fine di migliorare la produzione del gas o del petrolio (shale-gas e shale oil) contenuti in rocce argillose e incrementarne il tasso di recupero.
Il metodo trova oggi applicazioni sempre più intense e diffuse, soprattutto in Canada e negli USA, tuttavia presenta notevoli rischi:
a - Rischi ambientali: la fratturazione idraulica è sotto monitoraggio a livello internazionale a causa di preoccupazioni per i rischi di contaminazione chimica delle acque sotterranee e dell'aria, sia per la diffusione dei fluidi iniettati anche nelle falde più superficiali, con contaminazione che può portare all’insorgere di patologie a livello ormonale, collegati con infertilità, cancro e danni alla nascita, sia per perdite di metano, nelle falde ed in atmosfera (classici sono gli episodi di acque potabili che “prendono fuoco). Va ricordato che il metano è uno potentissimo gas serra, con effetti sull’atmosfera superiori del 20-25% rispetto a quelli della CO2 In alcuni paesi quindi l'uso della tecnica del fracking è stata sospesa o addirittura vietata
b - Rischi sismici: Le tecniche di micro-fratturazione idraulica del sedimento possono, in taluni casi, generare una micro-sismicità indotta e molto localizzata. L'intensità di questi micro-terremoti è di solito piuttosto limitata, ma ci possono essere problemi locali di stabilità del terreno proprio quando i sedimenti sono superficiali. Alcuni terremoti, probabilmente indotti superiori al 5º grado della Scala Richter, non connessi ad interventi di fratturazione, ma ad immissioni di smaltimento di fluidi nel sottosuolo profondo sono stati registrati nell'impianto militare Rocky Mountain Arsenal, vicino a Denver in Colorado. Nel 1967, dopo l'iniezione di 17-21 milioni di litri al mese di liquidi di scarto a 3.670 metri di profondità, furono registrate una serie di scosse indotte localizzate nell'area, con una punta massima di magnitudo compresa fra 5 e 5,5.

L’utilizzo si combustibili fossili comporta enormi emissioni di anidride carbonica ed altri gas serra in atmosfera, oltre ai rischi sopra descritti ed a ben poco valgono, e solo in particolari condizioni di economicità, le tecniche di cattura della CO2 ed il suo “stockaggio” in “serbatoi” profondi, quali ad esempio le rocce porose da cui è stato in precedenza estratto il petrolio.
Appare, quindi, inevitabile che si rendano necessarie politiche mirate a rimuovere le distorsioni e superare le inadeguatezze dei sistemi di produzione e consumo, in modo, da un lato, da comprimere significativamente il tasso di crescita della domanda di energia e, dall’altro, da superire progressivamente la produzione di energia tramite combustioni, quale che sia il combustibile utilizzato.
Purtroppo inoltre, sia oggi, sia in prospettiva, nel mondo non ci si pone, rispetto ai combustibili fossili, il problema dell’OVERSHOOT, ma si incrementa sistematicamente l’utilizzo di tali combustibili indipendentemente dalla pur certa possibilità di un loro esaurimento entro pochissimi decenni e dagli effetti che il loro utilizzo produce sugli equilibri chimico-fisici del pianeta.

Effetti dell’utilizzo dei combustibili fossili
IPCC, il nuovo rapporto sul clima globale
E’ disponibile nel sito dell'IPCC (Intergovernmental Panel (= campione statistico rappresentativo) on Climate Change) – il rapporto sui cambiamenti climatici globali. La prima parte tratta del "Climate Change 2013”.
Il rapporto aggiorna il precedente lavoro del 2007 e si avvale del contributo di 809 persone tra autori e coautori provenienti da 39 diversi Paesi. Di seguito i passaggi più significativi che si trovano all’interno del documento di sintesi dedicato ai Policymakers … (quando i valori esposti sono considerati variabili è perché risultano da scenari diversi che sono stati ipotizzati).
Principali dati osservati
1. Il riscaldamento globale è considerato “inequivocabile” e molti cambiamenti osservati dal 1950 ad oggi non hanno precedenti in decine di migliaia di anni.
2. Nell'emisfero nord il trentennio 1983-2012 è stato probabilmente il più caldo degli ultimi 1400 anni.
3. La temperatura media globale (terre emerse + oceani) è aumentata di 0.85°C nel periodo 1880-2012.
4. Tra il 950 e il 1250 alcune aree continentali del globo hanno sperimentato anomalie di temperatura simili alle attuali (attendibilità alta), tuttavia il riscaldamento osservato all’epoca non aveva un’estensione omogenea come l’attuale.
5. Le precipitazioni dal 1901 hanno subito un incremento alle medie latitudini dell'emisfero nord.
6. Nel periodo 1971-2010 la temperatura media degli oceani è aumentata, nei primi 75 metri, di 0.11°C per decade.
7. Tra il 1993 e il 2009 è molto probabile che i ghiacciai inlandis abbiano perso, mediamente, 275 giga tonnellate di ghiaccio all’anno (100 Gt contribuiscono ad un innalzamento del livello medio del mare di circa 0.28 mm).
8. Tra il 1979 e il 2012 la superficie media della banchisa artica si è ridotta tra il 3.5 e il 4.1% per decade, nei mesi estivi la riduzione decadale oscilla tra il 9.4 e il 13.6%.
9. La percentuale media di CO2 in atmosfera è passata dai circa 310 ppm degli anni ’50 del secolo scorso ai circa 390 ppm attuali.
10. L’estensione del pack antartico ha registrato un incremento compreso tra l’1.2 e l’1.8% per decade.
11. La copertura nevosa nell'emisfero nord è diminuita del 1.6% per decade tra marzo e aprile e del 11.7% per decade nel mese di giugno.
12. Il livello medio degli oceani tra il 1901 e il 2010 è aumentato di 0.19 m.
13. Le concentrazioni di anidride carbonica, metano e ossidi di azoto (CO2, CH4, N2O) sono aumentate su livelli mai osservati nei precedenti 800.000 anni (391 ppm, e 324 ppm).
14. L’aumento medio di CO2, CH4, N2O e vapore acqueo (+ CFC) osservato nell’ultimo secolo non ha precedenti negli ultimi 22.000 anni.
Scenari futuri
1. Temperature: è probabile che la temperatura globale entro la fine del 21° secolo aumenti di oltre 1.5°C rispetto alla media 1850-1900. Tra il 2016 e il 2035, in assenza di forte attività vulcanica e di cambiamenti secolari dell’attività solare, l’aumento della temperatura rispetto al periodo 1986-2005 oscillerà tra 0.3 e 0.7°C. Tra il 2081 e il 2100 è probabile che l’aumento, rispetto alla media 1986-2005, oscilli tra gli 0.3 e gli 1.7°C dello scenario migliore e i 2.6 e i 4.8°C dello scenario peggiore.
2. Precipitazioni: il cambiamento del ciclo dell’acqua nel 21° secolo non sarà uniforme; aumenterà il contrasto tra le aree molto piovose e le aree molto secche.
3. Temperatura oceani: l’aumento della temperatura degli oceani continuerà ad aumentare nel 21° secolo ed il calore interesserà anche gli strati profondi provocando cambiamenti nella circolazione oceanica. Il riscaldamento dei primi 100 metri di oceano dovrebbe oscillare tra gli 0.6°C e i 2.0°C, mentre a 1000 metri tra 0.3°C e 0.6°C.
4. Criosfera: entro la fine del secolo la riduzione della banchisa artica nel mese di settembre dovrebbe raggiungere il 43% secondo uno scenario e il 94% secondo un altro. E’ probabile che il Mare Artico sia libero dai ghiacci nel mese di Settembre entro la metà del secolo. Il volume globale dei ghiacci dovrebbe ridursi, entro la fine del secolo, tra il 15 e il 55% per uno scenario e tra il 35 e l’85% per un altro scenario.
5. Livello degli oceani: il livello del mare continuerà ad aumentare durante il 21° secolo ed è molto probabile che superi l’incremento osservato nel 1971-2010. Per il periodo 2081-2100 è probabile che l’aumento, rispetto al livello medio 1986-2005, oscilli tra i 26-55 cm e i 45-82 cm.
Prendendo in esame anche solo quest’ultimo elemento, esso significa che una superficie enorme di coste a bassa o bassissima pendenza sarà invasa dal mare, potranno essere non più abitabili intere città come Venezia o New Orleans o infinite altre, la riviera romagnola si ridurrà di molto, saranno allagate migliaia di kmq del delta del Gange, o del Mekong o del Rio delle Amazzoni o anche solo del Po; le acque delle aste terminali dei fiumi che sfociano in mare diverranno salmastre e salmastre diverranno, per ingressione del cuneo salino, le falde idriche delle piane ad essi collegate e nelle quali pescano i pozzi per l’approvvigionamento idropotabile; e così via.

Effetti del riscaldamento globale: esempi
L’incremento di gas serra in atmosfera comporta quindi un riscaldamento globale, in particolare dell’atmosfera e degli oceani. A titolo esemplificativo, ma non scelti a caso in quanto le loro conseguenze possono essere devastanti per il clima e per la vivibilità in grandi plaghe dei continenti, si pongono due semplici esempi.
Riduzione del permafrost
Il permafrost, o permagelo, è un terreno tipico delle regioni più prossime al circolo polare artico (estremo Nord dell’Europa, della Siberia, del Canada) dove il suolo è perennemente ghiacciato. Tale condizione è un “relitto” (di fatto una sua testimonianza fossile) dell’ultima glaciazione, terminata circa 12.000 anni fa; solo per pochi centimetri e nel periodo estivo il terreno sgela e permette la formazione del bioma “tundra”.
Intrappolato al disotto del permafrost permanente, che funge da copertura impermeabile può trovarsi in grande quantità gas metano, accumulatosi nel corso dei millenni per putrefazione in ambiente anaerobico di grandi depositi di vegetali inferiori. Ad oggi questi giacimenti metaniferi sono naturalmente sigillati verso l'alto dalle vaste estensioni di terreni congelati, impermeabili quindi ai gas. Nel territorio artico dell'emisfero boreale (dove sono la maggior parte di terre emerse del pianeta, e quindi esposte al congelamento e scongelamento), si teme, come conseguenza dello scioglimento del permafrost, la liberazione di grandi quantità di metano nell'atmosfera terrestre, che si aggiungerebbero agli altri gas che già favoriscono l’effetto serra, innescando così, in circolo vizioso, un ulteriore riscaldamento globale.
Recentemente, nella Siberia più settentrionale, sono state individuate profonde cavità verticali, ad andamento sub-circolare, dovute presumibilmente ad esplosioni di metano venuto a contatto con l’ossigeno dell’atmosfera. Questo fa pensare a plaghe di territorio in cui si verifica una riduzione del permafrost con liberazione del metano immediatamente sottostante.
Il fatto è estremamente inquietante se si pensa che il potenziale inquinante del metano (CH4) rispetto all’effetto serra è pari a 25 volte quello della CO2. Cosa potrebbe accadere se gran parte del permafrost dovesse scongelare in conseguenza del riscaldamento globale?
Rallentamento della Corrente del Golfo
Un rapporto segreto del Pentagono, completato alla fine del 2003 e commissionato da Andrew Marshall (guru della pianificazione strategica), destinato all’oggi ex Presidente americano G. W. Bush, fu stato “intercettato” dalla rivista «Fortune» e diffuso nel mondo tramite il quotidiano britannico «The Observer». Il rapporto disegnava scenari allarmanti con questo ammonimento: “i cambiamenti climatici nei prossimi 20 anni rischiano di provocare una catastrofe globale con perdite di milioni di vite umane in guerre e disastri naturali. L'effetto serra è peggio di Al Qaida”. Testualmente si annunciava che: «rivolte e conflitti diventeranno parte endemica della società: la guerra tornerà a definire i parametri della vita umana». Va detto che di studi e di rapporti come quello la Casa Bianca ne commissiona continuamente al fine di non farsi trovare impreparata in caso di eventuali catastrofi che possano coinvolgere la nazione, e tentare, possibilmente, di prevenirle o prevederle per tempo. Esistono rapporti e piani di emergenza anche in caso di impatti di asteroidi e di altre situazioni potenzialmente pericolose anche se improbabili.
La cosa che stupì fu piuttosto che il risultato di questa ricerca fosse stato tenuto segreto per almeno 3 mesi, forse perché troppo scomodo per la politica ben poco ambientalista di Bush, e che, probabilmente, se non fosse stato svelato dalla rivista «Fortune», sarebbe ancora nei suoi cassetti. Come data iniziale di tali cambiamenti climatici venne preso come esempio il 2010: i cambiamenti si sarebbero verificati a seguito di un blocco della Corrente del Golfo (CdG), già ipotizzato e studiato da diversi anni dal Prof. Robert Gagosian, direttore del Woods Hole Oceanographic Institution nel Massachusetts. Tale blocco non sarebbe stato altro che una delle conseguenze peculiari prodotte dall’Effetto Serra, o comunque dal surriscaldamento globale in atto sul pianeta. Si avvertiva che, una cessazione improvvisa della CdG, avrebbe potuto portare, nell’arco di soli 10 anni, gran parte dell’Emisfero Settentrionale a confrontarsi con inverni rigidissimi. L'Europa sarebbe stata la regione più colpita dagli effetti del cambiamento climatico, subendo un calo di 3,5°C della temperatura media, contro i 2,8°C in meno che si sarebbero avuti lungo la costa est del Nord-America. Si sarebbero quindi registrate temperature sufficientemente basse da far scendere i ghiacciai dalle Alpi e, d’inverno, a far gelare le acque di fiumi e porti, con le linee navali nord atlantiche strette nella morsa del ghiaccio. Tutto ciò avrebbe causato una esponenziale crescita del fabbisogno di energia elettrica, costringendoci a grandi ed urgenti cambiamenti nelle tecniche agricole, di allevamento, di pesca, di trasporto ed in molte altre nostre attività. In poche parole il mondo, dato che sarebbe stata coinvolta una zona in cui è contenuto ben il 60% dell’economia mondiale, avrebbe subito drastici cambiamenti, con gravi conseguenze sulla stabilità dei rapporti sociali ed internazionali.
Per fortuna lo scenario ipotizzato dagli scienziati di Bush non si è materializzato, ma questo non significa che, sia pure con un’evoluzione più lenta, il fenomeno del rallentamento della CdG non sia da tempo in atto.
Già in passato si sono registrate notevoli anomalie nella salinità delle acque che partecipano alla circolazione termoalina (cioè dovuta a differenze di densità dell’acqua in relazione alla sua temperatura e alla sua salinità) del Grande Nastro Trasportatore Oceanico (GNT), la possente corrente fredda che, partendo dai mari artici compresi tra Groenlandia e Scandinavia, attraversa in profondità l’Atlantico e giunge fino al Golfo del Messico, causando marcate oscillazioni del flusso della CdG. Le acque prossime alla banchisa, soprattutto nel lunghissimo inverno artico che, facendole congelare, aumenta la salinità di quelle non coinvolte dal congelamento vedono aumentare la loro densità (quando l’acqua marina passa allo stato solido i sali contenuti rimangono nella frazione non solidificata). Questo fatto, insieme con l’appesantimento per le basse temperature cui si trovano, fa sì che si verifichi una migrazione di acque dalla superficie verso le profondità oceaniche.
L’aumento della quantità di acque fresche che affluiscono nell’Atlantico Settentrionale (a seguito dell’aumento della temperatura media dell’atmosfera e degli oceani in conseguenza dell’effetto serra) sta attualmente diluendo le acque superficiali di questa importante porzione di oceano (dove peraltro arriva la CdG) e ne sta alterando la salinità rischiando in tal modo di inceppare il meccanismo di affondamento.
I dati a disposizione del Woods Hole Oceanographic Institution e del British Centre for Environment, Fisheries, and Aquaculture Science, indicano importanti cambiamenti di salinità fin dal 1960. Risulta evidente il calo di salinità, soprattutto dagli anni ’70, e poi costantemente mantenuto e ulteriormente peggiorato nell’ultimo ventennio. Questa alterazione è considerata dagli oceanografi il più grave, duraturo e diffuso, cambiamento nelle proprietà chimico-fisiche che un oceano abbia mai subito in epoca moderna.
Il primo riscontro dell’influenza di tale cambiamento, sul flusso delle acque di caduta, lo si sta registrando nei mari antistanti la Groenlandia, dove, con il calo di densità, è diminuita anche la velocità di affondamento fino al 20%, e contemporaneamente, in questi anni, si sta registrando un calo termico su tutta la zona. Ed il rischio non è solo quello che le acque del bacino possano diluirsi (impiegherebbero 70-100 anni per diluirsi, per ora la diminuzione di salinità riguarda soprattutto le acque superficiali e di caduta della CdG), ma è che le stesse acque di caduta della corrente possano venire “rifiutate” dal bacino, perché troppo leggere, e che, senza mescolarsi a quelle più salate sottostanti, possano accumularsi in strati man mano superiori, diminuendo, così, ancora più repentinamente la propria salinità. Quindi, la mancanza di gradiente salino, rispetto alle acque dell’Atlantico Meridionale, può progressivamente bloccare il meccanismo termoalino, creando un “ingorgo” idrico marino che, pur lentamente, impedisce progressivamente alla CdG di fluire fino all’Europa Settentrionale. Di fatto, sta rallentando quella circolazione quasi “rotatoria, per cui le acque artiche dense per la bassa temperatura e l’elevata salinità, sprofondano e, come un fiume, il “Grande Nastro Trasportatore”, migrano in profondità verso il Golfo del Messico, mentre in superficie le acque più calde e meno salate, quindi meno dense, della Corrente del Golfo percorrono l’Atlantico in senso contrario ed arrivano a mitigare il clima di tutto quel Nord Europa che si affaccia sull’Atlantico.
Ma pare che, lentamente, questo vitale scambio di acque possa interrompersi. C’è anzi chi sostiene che il fenomeno potrebbe anche avvenire repentinamente, nel giro di pochi anni, la Corrente del Golfo resterebbe solo una corrente di superficie nel medio Atlantico, e al suo posto nell’Atlantico Settentrionale affluirebbero le correnti di superficie polari (oggi tenute a bada proprio dalla CdG). In pratica sopravvivrebbe solo il suo ramo meridionale, abbandonando l’Europa ad un regime climatico molto più rigido. Qualche scienziato afferma che già attualmente il rallentamento della “corrente del golfo” causa di inverni sempre più rigidi sulle Isole Britanniche.
Cosa potrà comportare allora il fenomeno di marcato rallentamento della CdG? Significherà una “piccola glaciazione “ nel Nord Europa, la perdita di quantità enormi di terre dedicate oggi all’agricoltura, la difficoltà, per il ghiaccio, nella navigazione e lungo i fiumi, migrazioni di gruppi umani e così via.


Capitalismo e risorse, un paio di esempi
Acqua, oro blu
Il 71% della superficie terrestre è coperto da acqua, di cui il 97% è salata, il rimanente 3% è acqua dolce proveniente da ghiacciai e nevi perenni (68,9%), falde sotterranee (29,9%) e acque superficiali (1,2%); solo l’1% è acqua accessibile per uso umano.
Attualmente 1,2 miliardi di persone non hanno accesso ad acqua potabile, mentre 2miliardi di persone soffrono di carenze sanitarie a causa della scarsità e della cattiva qualità dell’acqua. Secondo stime, più di 13.000 persone muoiono ogni giorno per l’insorgere di malattie legate alla mancanza d’acqua oppure all’utilizzo di acque inquinate.
Riguardo ai consumi domestici, per poter parlare di condizioni accettabili di vita occorrono non meno di 40 l d’acqua al giorno per ogni essere umano. Sotto la spinta della crescita demografica e per effetto dei cambiamenti climatici, le risorse idriche disponibili pro capite negli ultimi cinquantaquattro anni si sono dimezzate, da 16.800 m3 a 8470 m3, e si prevede che nel 2025 si arriverà a 4800m3.
Si stima che, nel 21° sec., il 20% della scarsità di acqua sarà dovuto ai cambiamenti climatici, che produrranno grandi variazioni nell’evaporazione e nelle precipitazioni, insieme a mutamenti non prevedibili del ciclo idrogeologico. L’innalzamento delle temperature comporterà una maggiore evaporazione negli oceani, intensificando il ciclo dell’acqua e la formazione di nuvole ma, nello stesso tempo, il surriscaldamento delle terre farà sì che una minore quantità di acqua piovana possa raggiungere i fiumi in quanto vaporizzerà più velocemente. Le zone umide saranno probabilmente interessate da maggiori precipitazioni, più intense e concentrate nel tempo, causando quindi fenomeni alluvionali, mentre nelle zone più aride, nonché in alcune zone tropicali e subtropicali, vi sarà presumibilmente una diminuzione e una maggiore irregolarità delle piogge.
Acqua e Capitalismo
Peter Brabeck, a.d. della Nestlè ha dichiarato una volta:”Ci sono al mondo dei pericolosi estremisti che pensano che l’acqua sia un bene a cui tutti devono avere libero accesso …”.
Negli ultimi anni una nuova causa di tensione per il controllo dell’acqua è rappresentata dal passaggio della gestione delle risorse idriche da parte di autorità pubbliche a società private multinazionali: nel 1980 soltanto 12 milioni di persone erano fornite da imprese private, nel 2000 si era già arrivati a 300 milioni e si prevede che tale cifra crescerà fino a 1,6 miliardi entro il 2025. Tale processo di privatizzazione è favorito da due fattori: da un lato, gli alti costi di investimento e le ridotte capacità finanziarie delle istituzioni per far fronte alla sempre più alta richiesta di acqua, dall’altro, il crescente interesse di società private verso i profitti derivanti dalla vendita di acqua e servizi associati. La World Bank valuta il potenziale mercato dell’acqua intorno ai 1000 miliardi di dollari l’anno. Secondo gli analisti economici l’industria idrica, le cui entrate già oggi sono pari al 40% di quella petrolifera, è destinata a diventare un settore produttivo di grande rilievo.
Lo slancio verso la privatizzazione nasce con la dominante filosofia del “Washington consensus”, una dottrina economica suggerita dalla Trilateral Commission, costituita nel 1973 per iniziativa di David Rockefeller, che liberalizza commerci e investimenti senza alcun impedimento da parte dei governi, consegnando al settore privato la responsabilità di programmi sociali e di gestione dei servizi. La stessa World Trade Organization (WTO) e altre grandi agenzie come la North American Free Trade Agreement (NAFTA) e il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) considerano l’acqua come un bene merceologico che segue le stesse regole di mercato, per es., del petrolio e del gas. Ciò significa che se un governo volesse vietare l’esportazione di acqua oppure la concessione dei servizi idrici a una compagnia straniera verrebbe accusato di violazione degli accordi sul libero scambio.
A capo della cordata di privatizzazioni si inseriscono grandi multinazionali europee (Vivendi, Suez e RWE), determinate, nel lungo periodo, a gestire i sistemi idrici dei Paesi a basso reddito e a risolvere la crisi idrica mondiale. Tuttavia, i fallimenti avvenuti a Buenos Aires, Johannesburg, Nuova Delhi, Manila e Cochabamba hanno fatto cambiare loro obiettivo, spostando l’interesse verso America Settentrionale ed Europa. L’85% dei servizi idrici negli Stati Uniti è ancora in mano pubblica, ma entro il 2015 le tre grandi multinazionali, acquisendo le maggiori agenzie statunitensi del settore, potranno gestirne il 70%. In Europa diversi Paesi hanno escluso però la possibilità di privatizzazione dei servizi idrici, tra questi Belgio, Paesi Bassi e Portogallo; anche la Svizzera ha tra le norme federali l’esclusiva per la gestione pubblica dell’acqua. I nostri governanti, in palese colpevole connubio con le società di gestione privata delle risorse idriche, stanno bellamente ignorando gli esiti del referendum sull’acqua, celebrato nel 2011 e nel quale 26 milioni di italiano votarono per la pubblicizzazione dell’acqua.
Le società private non hanno alcun vantaggio ad applicare politiche di sostenibilità a lungo termine e puntano alla maggior crescita dei consumi nell’immediato, non favorendo un’educazione al risparmio. Il contenimento dei costi di gestione avviene spesso a spese dell’ambiente, con il mancato rispetto della normativa in materia di scarichi, depuratori, bonifiche. Allo stesso modo, le privatizzazioni tendono per lo più a trascurare le esigenze sociali, ad anteporre, nelle forniture, le aree residenziali abitate dai ceti abbienti piuttosto che quelle più popolari o degradate, e inoltre comportano sempre un rischio di rincaro delle tariffe: ciò acuisce i problemi di accesso, soprattutto nei Paesi a più basso reddito.
Il Manifesto mondiale dell’acqua, che fu redatto a Lisbona nel settembre 1998 da un Comitato internazionale per il contratto mondiale sull’acqua, presieduto da Mario Soares e coordinato da Riccardo Petrella, è il documento finale di una serie di incontri a livello mondiale tenutisi per studiare, approfondire e diffondere il tema dell’acqua, che dev’essere riconosciuta dal punto di vista legislativo come un bene comune pubblico e non può essere oggetto di scambio commerciale di tipo lucrativo.
Per rispondere alle cattive gestioni pubbliche che hanno caratterizzato molti sistemi idrici di questi ultimi anni, la gestione dell’acqua va messa nuovamente in mano ai cittadini e alle comunità locali, che possono essere garanti della sua conservazione, per trasmetterla alle generazioni future e per farla rimanere alla Terra e a tutte le specie, cui in realtà appartiene, seguendo una frase di Vandana Shiva «la soluzione alle disuguaglianze è la democrazia. La soluzione alla crisi dell’acqua è la democrazia ecologica».
La risposta per l’ottimizzazione dell’uso delle risorse idriche è nella gestione integrata dell’acqua (dall’estrazione al recupero), che rappresenta una metodologia per prendere decisioni e tramutarle in azioni, considerando aspetti diversi del processo produttivo. I passi per realizzare una gestione integrata prevedono la pianificazione del bacino idrografico, l’organizzazione di gruppi di lavoro, l’identificazione dei finanziamenti, la verifica dell’impatto ambientale dalle sorgenti alle piane di inondazione, lo sviluppo di leggi e regolamenti, e il coinvolgimento di tutti gli attori interessati, dalle istituzioni agli utilizzatori finali.

Il diritto al cibo ed il dominio del cibo, la MONSANTO
Il Trade and Environment Report 2013 , rapporto dell’Unctad - Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, ha un sottotitolo che parla da solo “Svegliatevi prima che sia troppo tardi: bisogna rendere adesso l’agricoltura davvero sostenibile per proteggere la sicurezza alimentare e far fronte al cambiamento climatico”. Il rapporto include i contributi di 60 esperti internazionali, che costruiscono un quadro abbastanza allarmante. È necessaria un’azione urgente e di grande portata prima che i cambiamenti climatici causino ulteriori gravi sconvolgimenti per l’agricoltura, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo.
Secondo il rapporto, bisognerebbe mettere in atto subito un’inversione di rotta: abbandonare le monoculture e salvaguardare la biodiversità, ridurre l’uso di fertilizzanti, sostenere in maniera capillare i piccoli agricoltori e favorire la produzione alimentare locale. L’Unctad rileva anche la necessità del raggiungimento della sovranità alimentare. I Governi, poi, dovrebbero riconoscere e ricompensare gli agricoltori per il lavoro che svolgono per preservare le fonti idriche, il suolo, i paesaggi e la biodiversità.
Quasi un miliardo di persone soffrono la fame e un altro miliardo è malnutrito. Eppure la produzione agricola mondiale attuale fornisce calorie sufficienti per sfamare una popolazione da 12 a 14 miliardi di persone, ma praticamente la metà del cibo prodotto viene sprecato. La sfida è trovare un modo per contrastare la fame, la malnutrizione e garantire l’accesso al cibo a tutti. L’agricoltura industriale e la monocultura non sono la risposta. L’Unctad raccomanda ai governi di regolare le normative commerciali affinché incoraggino «una produzione alimentare la più regionalizzata e localizzata possibile», in modo da promuovere una distribuzione che attinga soprattutto dai territori circostanti.
Eppure, malgrado tali autorevoli raccomandazioni, esistono e si arricchiscono gruppi privati che sul cibo costruiscono regimi assoluti.
Una volta Henry Kissinger disse: “If you control the food supply, you control the people”, “se controlli il mercato del cibo, controlli il popolo”; ancor prima la Monsanto aveva messo ampiamente in pratica tale affermazione.
Si tratta di una situazione che fa paura, suscita orrore, prefigura scenari di vero e proprio schiavismo alimentare, di perpetuo ricatto, di incontrastato dominio sul pianeta. Ben peggio di una guerra, di una carestia, di un’epidemia.
Una situazione in cui il “libero mercato” ed il “massimo profitto” su cui si regge il capitalismo internazionale giungono a livelli parossistici.
Da www.disinformazione.it:
“La chiamano la Microsoft del transgenico, del biotec, ma lei non dovrebbe essere divisa in due o tre, dovrebbe essere spazzata via, messa in condizione di non fare danni spaventosi, come ha
fatto, sta facendo e farà, se non sarà fermata.
La storia. Monsanto nasce nel 1901 a East St. Louis, nell’Illinois, come produttrice di saccarina. Nella grande crisi del ’29 mentre milioni di americani senza lavoro non riescono a mangiare, lei si mangia una ditta che ha giusto messo a punto un nuovo composto, i policlorobifenili, detti PCB. Sono inerti, resistenti al calore, utili all’industria elettrica allora in grande espansione e come liquidi di refrigeranti nei trasformatori. La Monsanto fa i soldi, ma già negli anni Trenta viene fuori che il PCB è un composto chimico tossico, ma l’elettrico è troppo importante, e la Monsanto va avanti pressoché indisturbata.
Negli anni Quaranta si occupa di diossine e comincia a fabbricare l’erbicida noto come 245T, il nome gli deriva dal numero di atomi di cloro del famigerato composto. Così efficace che già negli anni Sessanta le grandi praterie americane, così infestate, diventano «silenti» ed uscirà un libro famosissimo a denunciare «the silent spring», la primavera silenziosa, senza uccelli, che darà il via alle prime campagne ecologiche americane.
L’erbicida è così potente che l’esercito americano lo usa come defoliante nella sua guerra in Vietnam, dove concepisce l’idea demenziale che distruggendo tutte le foglie degli alberi del Nord e Centro Vietnam riuscirà a scovare i Vietcong. Che invece arriveranno fino a Saigon, e faranno scappare l’ambasciatore americano dal tetto dell’ambasciata, con la bandiera a stelle e strisce arrotolata, sotto il braccio, mentre si alza su un elicottero che lo riporterà via, per sempre. Ma questa è un’altra storia.
La Monsanto, durante tutta quella sciagurata guerra, la prima che gli Americani perdono nella loro storia, ha venduto all’esercito il tristemente famoso «agente orange», un misto di 245T della Monsanto e del 24D della sua rivale Dow Chemical, sua alleata per la patriottica distruzione delle foreste del Vietnam. Scienziati ed opinione pubblica, oltre alle diserzioni in massa dei giovani americani fanno sospendere, nel 1971, lo spargimento dell’agente orange, di cui si conoscono gli effetti delle diossine sull’ambiente.
Ed è cancerogeno, ha provocato danni immunitari e alla riproduzione che non hanno finito di fare male ai vietnamiti. Come si vede, la Monsanto viene da lontano davvero. Ma questo è ancora poco. Negli anni Ottanta scopre il glifosato, sostanza base per molti erbicidi, e soprattutto il tristemente famoso Roundup. Il Roundup è un pesticida potente, e conveniente, che dà alla Monsanto profitti del 20% annui, proiettandola ai vertici. Però ha un difetto: fa male agli umani. I disordini provocati dal glifosato sono noti e documentati, ma le lobbies pro-pesticidi sono ormai potentissime, inarrestabili.
Un solo piccolo neo una ventina di anni fa: alla Monsanto scade la patente del Roundup, insomma, la fine della pacchia. Ma ormai la Monsanto, da grande multinazionale qual è, sa guardare lontano. Nel 1997 scorpora chimica e fibre sintetiche e le mette in una società di nome Solutia e spende miliardi (di dollari) che le vengono dai profitti del Roundup nel campo biotech, che, insieme a quello del software, sta diventando il darling di Wall Street. Capisce alla svelta che quelle sono le due grandi strade del futuro: informatica e biotecnologie. La Monsanto viene fuori con la grande pensata.
La grande pensata è questa: fabbrichiamo una specie di semente resistente al glifosato, così possiamo vendere le sementi super-resistenti, che si chiameranno Roundup ready, insieme al Roundup stesso. Così possiamo continuare a prendere due piccioni con una fava: vendere le sementi, e ancor più pesticida Roundup, un pacchetto doppio che abbiamo solo noi. Splendido, no?
Così, dal 1997 la Monsanto comincia a vendere soia, mais e colza transgenici, cioè con un gene che, dice lei, li fa resistenti al Roundup. Ci prova anche con il cotone, ma le va male. Però soia, mais e colza vanno bene, e arriveranno, per vie traverse e spesso complicate, sulle tavole di tutto il mondo, ormai abituate a prodotti con dentro di tutto. Basta che siano colorati, pubblicizzati e venduti nei supermercati come prodotti nuovi, con i nomi degli ingredienti così piccoli che non li legge neanche un notaio di Catania.
E non è finita. Nel 1998 una delle nuove aziende Biotech, la Delta e Pine Land, si è inventata e brevettata una tecnica di nome «sistema di protezione della tecnologia» che è una modifica genetica alla pianta, a molte piante, che le fa sterili. Come ogni persona di buon senso può capire, è peggio della bomba atomica.
Possono sterilizzare una pianta, e quindi, se ti costringono a usare i loro semi, te li possono rivendere anno dopo anno: sei nelle loro mani peggio di quanto il contadino servo della gleba del medioevo era nelle mani del suo signore feudale.
Il brevetto prende il nome di Terminator. La Monsanto, dopo due mesi dal brevetto, si compra la Delta & Pine Land, con l’evidente scopo di vendere le sementi transgeniche, che vengono chiamate «suicide» ai mercati dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. (…)
Ma la verità, si sa, alla fine viene fuori, e le bugie hanno le gambe corte. Un giornale tra i pochissimi, The Ecologist, inglese, fa un numero speciale sul transgenico, e fa i nomi della gente delle lobbies che hanno fatto passare le leggi sui brevetti. Sono spesso quelli che poco prima erano nel biotech: era così e lo è ancora nel farmaceutico come negli armamenti, la chiamano la «revolving door» (in politica, la "porta girevole" è l’interscambio di personale tra le istituzioni che legiferano o le autorità di regolamentazione e le industrie interessate dalla legislazione e dalla regolamentazione). Entrano nelle multinazionali e escono dalle lobbies o dalle burocrazie ministeriali che decidono, e viceversa, da sempre.
La Monsanto e quelli del biotech premono sulla distribuzione del giornale, e lo fanno saltare. Ma alla fine esce, in inglese, in francese e in spagnolo e com’è come non è, in pochi mesi l’Europa si allerta ai transgenici, e al Terminator, suo aspetto più orripilante, e non vuole né soia né altro di quel genere. (…)
La Monsanto si fonde con Pharmacia Upjohn, che fa un marchio separato per il transgenico agricolo, che vogliono spacciare (spacciare è il termine giusto, anche in Italia) nel nome della fame del mondo, e dei prodotti che contengono la vitamina qui, e l’antibiotico là. Con la connivenza, ovviamente, dei giornali e TV, insomma del mediatico tutto, che bisogna vi abituate a considerare per quello che è: la longa manus dei peggiori profittatori.
Se poi vi siete chiesti cosa c’era di così terribile nel numero di The Economist, la risposta è: tutto. Dalla storia che ormai ha fatto il giro del mondo, denunciata in prima battuta da «Pure food» gruppo di ONG che hanno tirato fuori la sempreverde combine della revolving door, della porta girevole che funziona da sempre per le industrie belliche, i ricercatori e gli uomini chiave passano dall’industria alle organizzazioni statali che queste controllano.
Cioè controllori e controllati sono sempre le stesse persone, che da quella porta girevole passano, ogni due o tre anni. Nel nostro caso, è una ricercatrice della Monsanto, chiamata dalla FDA a controllare le sue stesse ricerche. Lo stesso per una certa Ann Foster, passata da direttrice dello Scottish Consumer Council alla Monsanto, ed ancora membro di diverse commissioni di consulenza britanniche, tra cui quella degli aspetti medici degli alimenti. Evviva! Le guardie fanno i ladri, e poi ancora le guardie! Ma non crediate che la Monsanto si fermi davanti a queste quisquilie.
Nel gennaio 1997 la procura di New York ha costretto la Monsanto a ritirare annunci pubblicitari perché menzogneri in quanto sostenevano che il suo diserbante, l’ormai famigerato Roundup, è biodegradabile e non nuoce all’ambiente. Secondo la facoltà di Igiene della Università di California, il glifosato occupa il terzo posto nelle cause di malattie legate ai pesticidi contratte dai lavoratori. Ma la Monsanto, come le grandi multinazionali, può tranquillamente perdere una battaglia, dieci battaglie, perché alla fine vince le guerre, grazie ai suoi avvocati, e alle lobbies. Anzi è così forte che riesce ad imporre quel che vuole agli organismi mondiali come il WTO. Progresso che passerebbe per la vittoria totale dei commerci senza barriere.
Ma i ricchi non comprano il cibo dei poveri, per cominciare, così, noi europei tutti, dobbiamo accettare le importazioni di carne e latte che provengono dagli USA, da bestiame trattato con Prosilac, l’ormone prodotto dalla Monsanto, che fa crescere gli animali, e i profitti, con i risultati che sappiamo. E sulle carni ormonate, della Monsanto, la guerra tra USA, che gli ormoni ce li mettono, e l’Europa, che non ci sta, è diventata una guerra commerciale a tutti gli effetti. Dal 1997 la Monsanto si è scissa in due. La cosiddetta MS si dedica esclusivamente alle biotecnologie e alla produzione di cibo, per gli animali e per gli uomini, entrambi geneticamente modificati, oltre alla fabbricazione di diserbanti e fertilizzanti.”
Così, con la Monsanto e le aziende ad essa simili e complementari esistono oggi monocolture pressoché obbligate, brevetti su semi ogm, brevetti su diserbanti collegati ai semi ad essi resistenti, brevetti su geni dei semi. E gli agricoltori che hanno sottoscritto contratti con la Monsanto sono ormai suoi “servi della gleba”, non possono accantonare semenze per la semina successiva, perché le semenze sono sterili, sono obbligati a comprare le nuove ancora dalla Monsanto, pena feroci richieste di risarcimento se non lo fanno.
E, sembra incredibile, ma Monsanto e soci ci riprovano. Queste voraci aziende di biotecnologie hanno trovato un modo per conquistare il monopolio sui semi della vita, quelli che ci danno il nostro cibo. Stanno cercando di ottenere brevetti su varietà di verdura e frutta che consumiamo quotidianamente come cocomeri, broccoli e meloni, costringendo i coltivatori a pagare per i semi e con il rischio di essere denunciati se non lo fanno.
Possiamo però impedire che si comprino l’intera Madre Natura. E’ vero che aziende come la Monsanto hanno trovato delle scappatoie per aggirare le leggi europee e ottenere il monopolio dei semi normali, ma noi possiamo ancora bloccarle prima che stabiliscano un pericoloso precedente a livello globale. Per farlo abbiamo bisogno che paesi chiave come la Germania, la Francia e l’Olanda (dove il dissenso sta già crescendo) chiedano che si voti per fermare i piani della Monsanto. Già in passato la comunità è riuscita a influenzare la decisione dei governi e può farlo di nuovo.
I brevetti stravolgono l’intero funzionamento della nostra catena alimentare: per migliaia di anni gli agricoltori hanno potuto scegliere quali sementi usare, senza doversi preoccupare di essere portati in tribunale per violazione di proprietà intellettuale. Ora però, le aziende di biotecnologie stanno ottenendo brevetti sui semi e poi fanno pagare agli agricoltori esorbitanti licenze. Monsanto ha denunciato centinaia di loro per la pratica millenaria di salvare e selezionare i semi. Monsanto e soci sostengono che i brevetti danno impulso all’innovazione, ma la realtà è che creano un monopolio di un’azienda sul nostro cibo.
Per fortuna l’Ufficio Europeo dei Brevetti obbedisce ai 28 stati membri che, con un solo voto, possono impedire che vengano concessi pericolosi brevetti su alimenti coltivati usando metodi tradizionali. Persino il Parlamento Europeo si è espresso contro questa devastante possibilità. Ora, una massiccia ondata di proteste può spingerli a mettere per sempre al bando i brevetti su quello che mangiamo.
La situazione è già tragica: la sola Monsanto possiede il 36% delle varietà di pomodori, il 32% dei peperoni e il 49% dei cavolfiori registrati nell’UE. Ma con una semplice modifica delle regole attuali, possiamo impedire alle multinazionali di prendere il controllo di quello che mangiamo, degli agricoltori e del pianeta ... e sta a noi fare in modo che succeda.
Il loro obiettivo è il controllo di tutto il cibo del pianeta: sono 10 multinazionali e hanno già conquistato il 73% del mercato dei semi portando all’estinzione fino al 93% delle varietà in alcuni paesi. Nei soli Stati Uniti si è ormai perso l’85% delle varietà di mele. Monsanto & Co. stanno di fatto comprandosi la natura. Mettendo in ginocchio l’agricoltura sostenibile e la biodiversità delle coltivazioni, sempre più vulnerabili alle malattie, lasciandoci così sempre più a rischio carestie. Ma molti agricoltori stanno resistendo, preservando i semi in depositi e fattorie in tutto il mondo. E ora hanno un progetto rivoluzionario: il primo “Google” no profit delle sementi, un sito in cui ogni contadino, ovunque, può cercare o vendere tantissime varietà di piante a prezzi più bassi dei semi OGM industriali. Questo enorme negozio online potrebbe ripopolare il mercato con semi di tantissime varietà e mettere fine a questo assurdo monopolio. Potrebbe essere l’innovazione agricola più grande degli ultimi decenni, oltre che lo strumento più potente di sempre per fermare la Monsanto.
Alcuni dettagli aprendo il link
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-b2a187d5-6b78-43db-87f7-eca569ed5690.html

Conclusioni
Cosa può insegnarci tutto ciò tanto altro ancora, fatto di degrado, di contraddizioni, di prevaricazioni, di ingiustizie di massa che si manifestano su questa nostra casa comune che è la Terra?
Anzitutto che esiste per l’umanità tutta un grande interlocutore: il pianeta; con le sue dinamiche, con le sue componenti, l’atmosfera, l’idrosfera, la litosfera, la biosfera. Soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale, gli uomini, in particolare nelle nazioni più “evolute”, lo hanno sistematicamente ignorato o, meglio ancora, lo hanno considerato un elemento subalterno, di cui essere padroni, delle cui risorse servirsi all’infinito, della cui condizione non occuparsi affatto. Perché pareva qualcosa di inerte, di immutabile e di passivo, destinato unicamente a sostenerli ed a nutrirli, ma senza diritto alcuno.
Oggi il pianeta reagisce alla brutalità ed all’egoismo dell’uomo, perché l’uomo ha violato i suoi equilibri, ha violentato le sue superfici, ha sporcato i suoi mari, immesso veleni nelle sue acque, scaricato fumi nocivi nella sua atmosfera. E cerca nuovi equilibri, secondo quelle leggi chimico-fisiche che lo hanno governato a partire dalla sua formazione, miliardi di anni prima che l’uomo, la sua creatura più perfetta, comparisse a lentamente, ma ineluttabilmente, popolarlo.
Quell’uomo che esso, dopo una serie infinita di passaggi biologici, ha infine prodotto ed ha sostenuto per milioni di anni nella sua lenta eppur inarrestabile evoluzione fino a quell’homo sapiens sapiens che tuttavia, poco alla volta, si è rivoltato contro di lui ed ha preso ad impoverirlo ed a ferirlo, nel suo cammino verso una pretesa “civiltà”, un preteso “sviluppo”.
Le istituzioni umane, gli assetti sociali, i modelli prevalenti di sviluppo, siano essi quello capitalistico, il più brutale perché custode dei più crudeli egoismi e degli individualismi più sfrenati, ma anche quello collettivistico, nella sua rincorsa per raggiungere la potenza del modello capitalistico e porsi quale alternativa ad esso, hanno volutamente ignorato questo grande interlocutore da cui tutto traevano.
Oggi non è più possibile, pena il lento ma inesorabile precipitare dell’umanità in un crepuscolo irreversibile e crudele.
Quali obblighi allora per la politica:
1. Accettare ai suoi tavoli, a pieno titolo, con il massimo rispetto e la massima disponibilità, questo nuovo imprescindibile convitato abbandonando finalmente un pernicioso antropocentrismo e muovendosi in un nuovo ecocentrismo.
2. Concepire tra esso e gli uomini tutti un rapporto diverso, tra pari, tra interlocutori che reciprocamente si ascoltano e si sostengono.
3. Abbandonare definitivamente i criteri disumani di un capitalismo egoistico e di rapina e quelli di un collettivismo fine a se stesso.
4. Recuperare il concetto di Ubuntu, tanto caro a Nelson Mandela ed a Desmond Tutu: Ubuntu è un'etica o un'ideologia dell'Africa sub-Sahariana che si focalizza sulla lealtà e sulle relazioni reciproche delle persone. È un'espressione in lingua bantu che indica "benevolenza verso il prossimo". È una regola di vita, basata sulla “compassione” intesa come il farsi carico dell’altro, l’interdipendenza, il rispetto dell'altro. Appellandosi all'Ubuntu si è soliti dire Umuntu ngumuntu ngabantu, "io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo".
5. Abbandonare vecchie definizioni inappropriate e mortificanti: non parlar più di “masse”, ma di comunità di uomini e donne coinvolti in una stessa condizione; aborrire il termine “individuo”, ma parlare di “persone”. Tutto viene più nobilitato e ciascuno acquista un ruolo suo proprio ed insostituibile.
6. Operare quale strumento per una nuova pedagogia dell’essere comunità: recuperare quel senso profondo di stretta connessione tra gli uomini e l’ambiente, che ancor oggi guida i superstiti degli aborigeni australiani, che ispirava i pellerossa delle grandi pianure dell’Ovest americano o delle regioni dei grandi laghi canadesi, che legava intimamente le popolazioni andine alla Pachamama.
7. Costruire così una “triangolare cultura della solidarietà”: la persona, la comunità, il pianeta con la varietà dei suoi ambienti e delle sue creature.
8. Elaborare modelli di sviluppo che siano insieme di emancipazione delle persone e dei gruppi umani e di recupero progressivo degli equilibri che il pianeta sta perdendo e di tutela delle sue risorse.
9. Abbandonare un industrialismo sfrenato ed inutilmente dilapidante risorse; perseguire per ciascun uomo o donna la fondamentale soddisfazione dei bisogni primari; scegliere i beni che ha veramente senso produrre e tralasciare i superflui ed i nocivi; adottare per la loro produzione gli strumenti meno impattanti; coltivare la cultura del risparmio e del riciclo.
10. Essere costantemente consapevoli che il pianeta è ad un bivio e che, quale che sia il sistema politico-economico adottato, ove esso non coltivi tale consapevolezza, è destinato a naufragare.

Mimmo Filippi

Fonte

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