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DAL POPULISMO ALL'AUTORITARISMO: UN SISTEMA MALATO CHE NON PRODUCE PIU' RAPPRESENTANZA POLITICA

(14 Ottobre 2014)

Il sistema politico italiano è malato nel profondo: si scorgono i sintomi ma appare difficile individuare le cause profonde di questo malessere e, ancora di più, proporre un qualche rimedio.
Esaurite le formule che erano state tentate per rimediare alla crisi del sistema dei partiti imploso nel post- Tangentopoli, dopo un rapido passaggio nel limbo della “tecnocrazia” pareva che ci si potesse adagiare su di una “tripartizione” populista ma anche questa fase è rapidamente tramontata e sembra che, ormai, non resti altra possibilità che affidare il Paese a un’inedita forma di autoritarismo.
La degenerazione, sul piano della forma democratica, appare rapida ed evidente ma nessuno o quasi appare intenzionato a metterci le mani, lanciare l’allarme, proporre soluzioni alternative.
Decenni di frustrazione accumulata tra “autonomia del politico”, insensibilità delle istituzioni, esaltazione del consumismo individualistico, esercizio di un corporativismo a tutti i livelli soprattutto generazionale, scelte clamorosamente sbagliate da governi formati da improvvisatori legati a ideologie fittizie come quella europeista o quella localista hanno portato la società italiana sull’orlo dello sfinimento totale, pronta in una sua larga parte ad affidarsi via via, a un qualche “uomo della provvidenza”.
Oggi, ed è questo l’elemento di novità, si stanno costruendo anche regole del gioco adatte a un insediamento stabile di una forma politica molto simile a una dittatura non militare, fondata sull’impero di un consenso costruito dai media senza alcun rapporto reale con la realtà concreta dei bisogni sociali: com’è testimoniato dai livelli di disoccupazione, dall’impoverimento generale, dalle condizioni del territorio, dallo stato della moralità pubblica.
L’attribuzione di un premio fino al conseguimento della maggioranza assoluta dei seggi a un partito (e non a una coalizione) che raggiunga il 40% dei seggi significa che in condizioni di partecipazione al voto del 70% (35 milioni di voti validi) la maggioranza assoluta si aggirerebbe attorno ai 15 milioni di voti pari al 30% del totale degli iscritti nelle liste.
Il premio in questo caso rappresenterebbe un accrescimento del 20%: una quota molto pericolosa per l’equilibrio democratico considerato che sarebbe assegnata a un solo partito.
La maggioranza assoluta risulterebbe attribuita a un soggetto di larga minoranza rispetto all’intero corpo elettorale: questa la sostanza della questione.
La DC nel 1948 rappresentò circa il 44% dell’intero corpo elettorale (oltre 12 milioni di voti su 29 milioni di iscritti) e raggiunse la maggioranza assoluta con il 48% dei voti validi senza che fosse previsto alcun premio di maggioranza: ciò nonostante si formò un governo di coalizione con liberali, socialdemocratici e repubblicani.
Nessuno si occupa della quota sempre crescente di rifiuto nella partecipazione al voto, salita al 42% nell’occasione delle ultime elezioni europee: anzi illustri politologi assegnano questo fenomeno all’ormai vetusta categoria anni’70 dello “allineamento fisiologico al trend dei paesi democratici occidentali”.
Viene deriso (all’insegna del motto “meglio un’idea in più, che una tessera falsa in meno) l’abbandono totale della militanza politica, con i partiti ridotti a sede di ufficio di collocamento per una qualche collocazione individuale di diverso tipo per aspiranti burocrati.
Non si tiene minimamente conto di un fenomeno che, invece, dovrebbe essere attentamente analizzato: mentre nei sondaggi il PD viene dato oltre il 41% e il suo Presidente del Consiglio –Segretario di Partito quotato oltre i 60 punti di gradimento tutti i provvedimenti assunti o ventilati (una bella sproporzione, comunque, tra assunti e ventilati) sono fortemente messi in discussione dall’opinione pubblica. Salvo quelli che, apparentemente, toccano i privilegi della cosiddetta “casta”. Poi si scopre che i risparmi realizzabili (ma non ancora realizzati) con le modifiche apportate alla struttura del Senato e a quella delle Province appaiono del tutto risibili. Intanto, però, si è realizzata una bella sottrazione di democrazia affermando che il ceto politico elegge il ceto politico in un “sequel” dalla continuità impressionante nella detenzione di una sorta di “riserva indiana” del potere.
Tornando poi all’evidente discrasia esistente tra il consenso virtuale attribuito al PD e al Governo e il giudizio sui provvedimenti specifici vale la pena di sviluppare un esempio di grandissima attualità: il 75% degli interpellati da un sondaggio svolto per conto del “Corriere della Sera” si dichiara contrario all’annunciato disegno di introdurre in busta paga almeno una parte del Trattamento di fine Rapporto: e non si tratta dell’unico esempio riguardante i tanti annunci di riforma fin qui espressi dal governo Renzi.
Nella sostanza possiamo osservare i seguenti fenomeni:
1) Calo verticale della partecipazione elettorale e nella vita dei partiti;
2) Scarso rendimento sistemico sul piano della produzione legislativa;
3) Contrasto evidente tra gli orientamenti dell’opinione pubblica nel suo complesso e l’indice di gradimento del Governo e del partito di maggioranza nella coalizione che lo sostiene;
4) Inefficacia del sistema nella costruzione della rappresentatività politica. Tra astensione e possibili esclusioni del Parlamento a causa delle soglie di sbarramento si può calcolare un 40% circa dell’elettorato tagliato fuori dalla Camera dei Deputati, rimasto l’unico ramo del parlamento a elezione popolare;
5) Premio ipertrofico fino a determinare la possibilità di acquisizione della maggioranza dei seggi per un partito che raccolga, più o meno, il 30% dell’intero corpo elettorale;
6) Si persiste con liste bloccate, listini regionali e quant’altro impedendo anche la scelta soggettiva dei propri rappresentanti.
Tutti punti da analizzare attentamente: a una prima impressione sembra proprio che il sistema sia malato e che questa malattia rischi di degenerare in una forma di contrazione secca dell’esercizio delle libertà democratiche prima fra tutte quella del diritto a realizzare una rappresentanza politica plurale, riferita alle idee che percorrono, in dimensioni diverse, la società italiana.

Franco Astengo

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