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Obama o Romney?

Obama o Romney?

(6 Settembre 2012) Enzo Apicella

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    (Il nuovo ordine mondiale è guerra)

    Kobane
    I curdi nel pantano del Medio-Oriente

    (31 Ottobre 2014)

    kobaneikurdi

    I drammatici combattimenti per il controllo di Kobane – città nella Siria del nord, vicino al confine con la Turchia, abitata in maggioranza da curdi e altre minoranze etniche – oppongono i curdi siriani ai jihadisti dello Stato Islamico (Daesh in arabo). Riportano all’ordine del giorno le aspirazioni nazionali o al riconoscimento etnico del curdi, rappresentati da una moltitudine di partiti, i più importanti dei quali sono: in Turchia il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), considerato ancor’oggi dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea una organizzazione terrorista, la cui branca siriana è il Partito dell’Unione Democratica Curda (PYD); in Iraq il Partito Democratico Curdo (PDK) di Massud Barzani e l’Unione Democratica Curda (UPK) di Talabani (che fino a poche settimane fa ricopriva la carica di presidente dell’Iraq), tutti concorrenti tra di loro.

    La rivendicazione dell’autonomia da parte dei curdi emerse allo smantellamento dell’Impero Ottomano alla fine della prima guerra mondiale, dopo che le promesse fatte dalle potenze vincitrici con il Trattato di Sèvres del 1920 di dar vita ad uno Stato indipendente del Kurdistan furono tradite dividendo quel territorio tra i nuovi Stati dell’Iraq, della Siria, della Turchia e della Persia. Questi quattro Paesi, sempre in conflitto gli uni contro gli altri, hanno utilizzato le velleità nazionali o etniche dei partiti curdi presenti nei loro territori per foraggiare una spossante guerriglia sul suolo altrui (Iran-Iraq, Iraq-Turchia, Siria-Turchia), ovvero si sono riconciliati per combatterla insieme.

    I curdi non costituiscono un popolo del tutto omogeneo ed unito. Dei 35 milioni di essi circa la metà si trova in Turchia; molti vivono in Germania, Francia e Gran Bretagna. Da uno a due milioni sono in Siria dove rappresentano circa il 10% della popolazione; circa 4-6 milioni si sono stabiliti nel nord dell’Iraq e circa 7 milioni vivono in Iran.

    Parlano dialetti diversi ed hanno religioni diverse: in maggioranza sunniti con una parte di sufi, sciiti (in Iran) e yazidi. Sono divisi anche dalla loro origine geografica e la loro storia è segnata da numerosi conflitti tribali; infatti non sono mai riuscirti a formare una unità politica centralizzata. I principi curdi sotto gli ottomani lottavano divisi contro il Sultano. Da allora le divergenze fra i numerosi sceicchi e i differenti partiti curdi sono sempre state utilizzate dai governi degli Stati dove vivevano: alcune tribù parteciparono al massacro degli armeni operato dai Giovani Turchi nel 1915, altri hanno combattuto i Fratelli Mussulmani in Siria per conto di Hafez al Assad.

    Rivolte curde, repressioni, tradimenti, lotte interne e riconciliazioni sono continuate nei decenni e risorgono ancora oggi nel contesto lacerato di un Medio Oriente dove si affrontano le grandi potenze imperialiste (Stati Uniti, Russia e Cina) e regionali (Turchia, Iran, Siria, Arabia Saudita ed Emirati, essendo ormai lo Stato iracheno in preda al caos).

    Oggi sono i curdi di Siria a trovarsi nella situazione più critica perché la regione del Kurdistan iracheno è protetta dagli Stati Uniti e anche dalla Turchia. I curdi vivono soprattutto nel Nord e nel Nord-Est della Siria. Agli inizi degli anni Sessanta il governo siriano pretese di arabizzare i territori di frontiera che si estendono tra la Turchia e l’Iraq abitati da curdi e da minoranze cristiane. Questa regione, dalle terre fertili e ricche di petrolio, aveva conosciuto movimenti autonomisti anche durante il mandato francese. Ma nel 1971 Hafez al Assad arrivato al potere pose fine all’arabizzazione forsennata cercando di allearsi con i curdi contro i Fratelli Mussulmani, tanto che nel 1982 i curdi parteciparono attivamente alla repressione sanguinosa delle rivolte da questi organizzate. D’altronde le guardie del corpo di Hafez erano spesso costituite da curdi o da cristiani, verso i quali praticava la stessa politica di protezione. I curdi di Siria non godevano di alcun diritto politico o culturale ma non erano perseguitati, almeno fino a che non avanzassero alcuna rivendicazione politica.

    Il PKK, fondato nel 1974, dopo essersi sbarazzato dei curdi che gli erano ostili (donne e bambini compresi) iniziava la sua guerriglia contro lo Stato turco; si finanziava col traffico di droga, armi, rapine alle banche, estorsioni sui curdi all’estero, ed era aiutato materialmente e finanziariamente dalla Siria. Questo partito era quindi tollerato in Siria e le sue truppe potevano addestrarsi in Siria o in Libano, talvolta al fianco dei palestinesi del FPLP. Il capo del PKK, Öcalan poté rifugiarsi in Siria dal 1979 fino al 1988, braccato dall’esercito turco, membro della Nato ed alleato di Israele. Il PKK collaborava col regime alauita anche per contenere l’influenza degli altri partiti curdi. Dal 1980 al 1990 numerosi curdi siriani andarono a combattere nel Kurdistan iracheno attaccato dall’esercito turco. Nel 1998, in un periodo di riavvicinamento tra Siria e Turchia, Damasco iniziò a perseguitare i militanti del PKK ed espulse Öcalan che si rifugiò in Italia e poi in Kenya dove fu arrestato e consegnato alla Turchia nel 1999.

    Il formarsi nel 2003 di una regione curda autonoma in territorio iracheno, sostenuta dagli Stati Uniti, provocò degli scontri tra arabi e curdi in Siria. Nel 2005 uno sceicco curdo fu rapito, torturato e ucciso. Arresti, imprigionamenti e torture di curdi si moltiplicarono.

    Nell’ottobre 2011 tutti i partiti curdi in Siria, salvo il PYD-PKK, hanno fondato il Consiglio Nazionale Curdo Siriano, schierandosi dalla parte della popolazione araba che si opponeva a Bachar Assad. I militanti del PYD-PKK invece non hanno partecipato alle manifestazioni contro il regime siriano e in qualche caso hanno tentato di impedirle. Nel marzo 2011 Bachar Assad per riconciliarsi con i curdi ha pubblicato un decreto che concedeva la carta d’identità a 300.000 curdi apolidi, liberava alcuni prigionieri politici curdi e accordava la possibilità di tornare agli esiliati politici e si ritirava dalle regioni curde del paese. Si sono così costituite tre sacche lungo la frontiera turca, non comunicanti tra loro: la regione di Afrin a nord-est di Aleppo, dei piccoli territori che invadono il Kurdistan turco in corrispondenza della città turca di Urfa e dove si trova Kobane, infine la regione di Djezireh stretta tra la frontiera turca e quella irachena. La tattica di Bachar era infatti di dividere l’opposizione al regime. Lasciando alcune province prossime al confine con la Turchia sotto controllo curdo, Damasco sfidava così la Turchia.

    Nel luglio 2012 a Erbil, nel Kurdistan iracheno, Massud Barzani del PDK riuniva e riconciliava tutti i partiti curdi siriani compreso il PYD-PKK. Quest’ultimo consentiva a partecipare alla cogestione delle città e della popolazione delle zone curde siriane, ma si rifiutava di formare una forza armata unificata con i peshmerga curdi siriani, che volevano allearsi all’Armata Siriana Libera (ASL). Nel seno dell’ASL c’è un battaglione curdo i cui membri si oppongono al PYD accusandolo di sostenere Bachar. Scontri armati, seguiti da tregue, sono frequenti tra miliziani dell’Unità di Protezione del Popolo Curdo, il braccio armato del PYD, e l’ALS.

    Ma gli attacchi dei jihadisti contro i curdi hanno spinto tutti i partiti curdi a riconciliarsi. Molti fattori dividono i curdi dai jihadisti: questi considerano i curdi cattivi mussulmani a causa del sufismo e dei numerosi yazidi (curdi di religione zoroastriana), delle loro donne libere e che non portano il velo, e sono ostili ad ogni autonomia curda. Anche se detestato da numerosi curdi siriani, il PYD-PKK si trova oggi in prima linea di fronte ai jihadisti dello Stato Islamico e di Al Nostra, altro gruppo jihadista in Siria.

    Gli altri partiti curdi siriani sono combattuti tra la volontà di aderire al Consiglio Nazionale Siriano e il loro legame col PKK per la cogestione delle regioni curde e dell’esercito curdo, essendo il PKK ostile al CNS. L’attacco in corso dello Stato Islamico contro le regioni curde siriane sembra cancellare ogni divergenza.

    La guerra civile in Siria ha sviluppato e rafforzato lo Stato Islamico che ha poi invaso buona parte dell’Iraq arrivando fino alle porte di Baghdad e di Mosul. Gode dell’appoggio della borghesia sunnita: sceicchi, notabili e partigiani baasisti ed ex ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein che, dopo la caduta del dittatore, sono stati spinti a ribellarsi alle misure vessatorie e repressive del governo iracheno diretto da un primo ministro sciita.

    I peshmerga del Kurdistan iracheno si sono rifiutati di aiutare l’armata irachena e hanno approfittato della sua rotta dinanzi alle truppe dello Stato Islamico per occupare nel giugno 2014 la città di Kirkuk che essi rivendicavano da molto tempo. In agosto lo Stato Islamico si avvicinava al Kurdistan iracheno, il quale fece allora appello all’aiuto internazionale. Gli Stati Uniti hanno risposto rapidamente formando una coalizione di 22 paesi. E grazie agli attacchi aerei americani e dei loro alleati, l’avanzata dello Stato Islamico è stata fermata.

    L’esercito dello Stato Islamico, ben equipaggiato e ben inquadrato da ufficiali di mestiere (baasisti, ceceni) ma privo di aviazione, in questi giorni sta attaccando una delle tre regioni curde in territorio siriano al confine con la Turchia. L’ultimo bastione è oggi Kobane di cui una parte è già sotto il controllo dei jihadisti nonostante la eroica resistenza dei guerriglieri curdi.

    Per rallentare l’avanzata del Daesh, riuniti sotto gli Stati Uniti, i paesi della Coalizione procedono a bombardamenti aerei partendo dalle loro basi in Kuwait, in Qatar, in Iraq. Ma rifiutano ogni intervento di terra sotto il pretesto di non voler scatenare un conflitto ancora più grave: devono bastare le milizie curde siriane con il loro armamento leggero. L’esercito turco è ammassato dall’altra parte del confine ma rifiuta di intervenire mentre i combattenti curdi difendono da soli e male armati la città di Kobane dall’assalto dei jihadisti muniti di armi pesanti.

    Pare che la maggior parte dei 40.000 abitanti della città sia ormai fuggita. Prendendo Kobane i jihadisti controllerebbero la strada che costeggia per circa 900 chilometri la frontiera siro-turca. I curdi d’Iraq e di Turchia non possono arrivare a Kobane che passando dalla Turchia perché la strada verso l’Iraq è controllata dallo Stato Islamico e dalle tribù sunnite ostili a Baghdad.

    Numerosi combattenti curdi del PKK hanno lasciato la loro base sui monti Quandil, nel nord del Kurdistan iracheno, per spostarsi in Turchia. Qui sono stati arrestati dall’esercito turco e rinchiusi in una palestra vicina al confine siriano e più di un centinaio di loro ha iniziato uno sciopero della fame. La Turchia permette il passaggio solo a convogli di viveri ma non di armi e combattenti, senza i quali la città non potrà resistere a lungo.

    Anche il Kurdistan iracheno sembra poco interessato al dramma di Kobane per gli interessi molto stretti che ormai lo legano alla Turchia, che ha fortemente investimento nella costruzioni e nell’approvvigionamento del petrolio, “rubato” allo Stato iracheno (o a quel che ne resta), grazie ai buon intervento del PDK e dell’UPK, che si dividono il governo del Kurdistan iracheno e la manna del petrolio. PDK e UPK non vedono quindi così male che si pesti sul PKK!

    L’immobilità dello Stato turco, nonostante sia alleato degli Stati Uniti all’interno della NATO, si spiega col fatto che pretende dagli occidentali la caduta di Bachar Assad e che preferirebbe veder sventolare su Kobane la bandiera nera dell’Esercito Islamico piuttosto che quella del PYD-PKK.

    Il presidente turco Erdogan ha dichiarato che il PKK e lo Stato Islamico rappresentano la stessa minaccia per il Paese ma che il secondo si oppone non solo al regime di al-Assad ma anche al PYD, sezione del PKK in guerra contro il potere turco dal 1984. Così la Turchia si rifiuta di interviene. Ha tuttavia offerto sostegno politico e materiale all’opposizione siriana all’estero, lasciando passare dal suo territorio combattenti e armi per dei gruppi ribelli, ma chiudendo gli occhi sulle migliaia di candidati jihadisti che passano dal suo territorio per portarsi in Siria. È infatti attraverso la frontiera turca che è stata istradata gran parte delle armi, degli equipaggiamenti e dei rifornimenti destinati allo Stato Islamico e ad altri gruppi islamisti che combattono Bachar. Lo Stato Islamico è geograficamente accerchiato, senza sbocchi naturali altri che l’Anatolia turca; nello stesso tempo è ricco grazie ai pozzi di petrolio che controlla, senza parlare delle estorsioni, le ruberie, i saccheggi, i finanziamenti stranieri e i traffici con numerosi intermediari.

    Ma Erdogan e il suo partito islamista, l’AKP, che come i Fratelli Mussulmani sono considerati dallo Stato Islamico come degli apostati, hanno dimostrato che possono usare anche il bastone: all’inizio del 2014 l’aviazione turca ha bombardato un convoglio jihadista che si dirigeva verso una città tenuta dai ribelli e nella prima estate il governo turco ha ridotto e poi bloccato le acque dell’Eufrate verso la Siria provocando l’arresto delle turbine elettriche della diga di Tichrin nella regione controllata dallo Stato Islamico. La Turchia spera forse che, dopo averla sbarazzata del PKK, la liberi anche di Bachar. O forse che, eliminato il PKK-PYD dopo la caduta di Kobane, possa essa allora inviare le sue truppe in Siria ad abbattere Bachar.

    Gli Stati Uniti pare che abbiano già rinunciato a questa possibilità, poiché un intervento in Siria delle loro truppe o di quelle di loro alleati avrebbe ricevuto il veto di Russia e Cina. Questo però potrebbe essere un mezzo di pressione sulla Russia riguardo alla questione dell’Ucraina. Ma gli Stati Uniti sono anche in discussione con l’Iran al quale vorrebbero riavvicinarsi, ma Teheran è assolutamente contraria ad un intervento di truppe di terra che potrebbe mettere in pericolo la sua influenza sulla regione che va dalla Siria al Libano passando per la Palestina con Hamas.

    Quanto ad armare in maniera più efficace le truppe del PKK che difendono Kobane, tutti (cioè tutti i borghesi) sono d’accordo a non farlo. Si tratta solo di far ingoiare la pillola: da una parte i media descrivono una battaglia ineguale in cui la popolazione irachena e siriana è terrorizzata e martirizzata, le donne ridotte in schiavitù e violate, da dei jihadisti che non temono di esporre su internet le loro macabri eccessi, e questo per giustificare e spiegare gli interventi “umanitari” dei paesi occidentali; dall’altra le diplomazie prudenti e piagnucolose dichiarano che “non vogliono aggravare il conflitto” inviando armi pesanti o intervenendo con truppe di terra! Ma noi sappiamo bene dallo studio della storia delle guerre che la diplomazia internazionale non si fa molti scrupoli ad abbandonare dei soldati male armati perché tengano bloccato un esercito il più a lungo possibile mentre le discussioni diplomatiche fanno il loro corso! Ci ricordiamoci, per esempio, dei combattimenti senza speranza delle truppe francesi costituite da giovani di reclute a Dien Bien Phu nel 1954!

    I curdi di Kobane quindi sono stati abbandonati da tutti. E i curdi europei non possono restare senza reagire dinanzi alla spietata inazione dei governi. In Belgio in Francia in Germania ci sono state manifestazioni disseminate di bandiere nere del PKK. In Turchia le manifestazioni, alcune molto violente, in numerose città, sono state duramente represse e i morti si contano già a decine. Il governo di Erdoğan ha imposto il coprifuoco in sei province del paese a maggioranza curda. Öcalan dalla prigione ha chiamato i suoi partigiani a prepararsi alla guerra. Il PKK ha annunciato che nel caso che i curdi di Kobane fossero massacrati porrebbe fine al cessate il fuoco che ha decretato nel marzo del 2013 dopo decenni di guerriglia e riprenderebbe la lotta armata. Il 13 ottobre, in risposta a degli attacchi del PKK contro le forze di sicurezza turche nel Sud-Est della Turchia, dopo tre giorni aerei turchi hanno bombardato le loro posizioni.

    La popolazione curda serve di nuovo da carne da cannone in una guerra sotterranea che oppone le borghesie internazionali e regionali. Il proletariato curdo ha tutto da perdere in questa guerra! Esso deve unirsi agli altri proletari, superando le differenze etniche e religiose, in una lotta comune contro il capitalismo, le sue guerre di rapina e i mostri di terrore che esso stesso crea.

    Lottare per la società comunista significa lottare per l’abolizione di tutte le forme di oppressione. Con l’abolizione delle classi sparirà non solo l’oppressione di classe ma anche l’oppressione dell’uomo sulla donna, l’oppressione di un popolo su altri popoli e sulle minoranze.

    Il comunismo non è la notte in cui tutte le vacche sono grigie. Come, perché ci si comprenda fra tutti, esisteranno alcune lingue internazionali, come l’inglese, il francese, lo spagnolo, ecc., lingue che si evolveranno e tenderanno a fondersi, ma accanto a queste ogni popolo parlerà la sua propria lingua, potrà esprimere la propria cultura, così, accanto ad una tendenza all’internazionalismo ci manterrà anche una grande diversità di costumi e di culture.

    Il proletariato curdo non ha nulla da attendersi dai governi e dai partiti curdi borghesi e collaborazionisti, salvo il terrore, gli attacchi alle condizioni di lavoro, la disumanità dei loro metodi. Solo la lotta di classe, solo l’organizzazione in sindacati diretti dal partito comunista internazionale permetterà ai lavoratori del mondo intero di vederci chiaro nel caos attuale e di agire prima che il bastone li colpisca o la mitraglia li massacri ancora una volta.

    Partito Comunista Internazionale

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