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Ma di quale socialismo parliamo?

libere narrazioni vs collage e restyling

(2 Novembre 2014)

madiqualesocialismo

Ho iniziato la mia militanza politica quando avevo diciassette anni, dapprima come attivista sbarbatello nell'ambito dell'associazionismo locale e ambientalista, passando poi al movimentismo, tra i No Muos, fino ad approdare in uno di quei micro-partiti “a sinistra di Rifondazione”; per ritornare, infine, due anni dopo, dove ero sempre rimasto: nelle lotte, nelle strade, nelle assemblee, a far militanza - quella vera non parolaia - tra migranti, compagni, lavoratori, teatranti, attivisti e cittadini.

Ai tempi mi definivo trotskista, senza mezzi termini. Oggi, non mi basta più. Alla formazione marxista ho aggiunto la pratica e la comunicazione nonviolente, da Capitini a Muller, passando per Rosenberg. E poi, in viaggio tra la Francia, l'Italia e l'est Europa, ho avuto la fortuna di contaminarmi di esperienze libertarie, comunitarie e sociocratiche, il tutto all'interno di un movimentismo aperto e non autoreferenziale, tra compagni impegnati nel vivo delle contraddizioni del sistema e dritto al cuore del conflitto sociale.

Mi sono arricchito sì, e parecchio, scartando anche e selezionando forse, a volte, con troppa severità e intransigenza. Leggendo Camus ho imparato da lui il diritto di sputare, ho liberato sempre più la mia coscienza critica, mettendomi in discussione e mettendo in discussione le mie idee. Sempre lasciando al primo posto la ricerca della verità, ricacciando via i dogmi, le analisi politiche schematiche e manichee da marxismo scolastico o le omelie dei rivoluzionari della domenica.

Con il partito, lungo la mia breve esperienza maturata al suo interno, ho conosciuto compagni leali, umani e sinceri. Ma mi sono anche scontrato con la cecità di chi è sempre pronto a giudicare senz’appello ma poco propenso a ritrattare il proprio pensiero, le proprie convinzioni politiche. Per non parlare di chi non scinde i rapporti umani da quelli politici, concludendo che la fine dei secondi non può che compromettere anche i primi. E poi ci sono le loro analisi politiche, quelle a cui accennavo sopra, che hanno sempre l'assoluta e inconfutabile ricetta rivoluzionaria per ogni questione geo-politica, per ogni vertenza, per ogni conflitto in qualunque parte del globo, dalle primavere arabe alla Siria, dal Brasile all'Ucrania.

La mia breve ma significativa esperienza mi porta oggi a dire che non di ricette salvifiche questo mondo ha bisogno. Il socialismo, dice qualcuno - da ultimo il pentito Bertinotti - ha fallito. Ma di quale socialismo parlano?

Provate a chiederlo ai sostenitori di Castro e del fu Chávez, quelli che i trotskisti collocano insieme nella corrente castro-chavista, forse pasticciando e mischiando un po' di concetti e percorsi storico-politici distanti e diversi. Chi sostiene Cuba e il Venezuela lo fa, pressappoco, sulla base della considerazione che "sì, certo, non sarà il socialismo perfetto, ma è un passo verso la sua realizzazione". Affermazione che potrebbe essere in parte condivisibile, forse, ma la domanda da cui partire è sempre la stessa: di quale socialismo parliamo?

Risparmiando ogni riferimento alle organizzazioni staliniste, tuttavia esse sono forse le uniche che offrono un'immagine ben chiara di cosa vogliono e di quale tipo di socialismo rivendicano. Ed è per questo che è sin troppo semplice prendere le distanze da loro, opponendo un netto rifiuto a concezioni che hanno già prodotto storicamente le loro tragedie. Già la Luxemburg preannunciava e noi oggi con lei confermiamo che questo, certamente, non è il socialismo che vogliamo.

Ma la domanda ritorna sempre, insoluta: di quale socialismo allora parliamo? Oppure, volendo estremizzare, siamo sicuri che la ricerca di un sistema utopico, di un programma massimo verso la cui realizzazione tendere tutti i nostri sforzi sia, realmente, la strada da percorrere? Io, lo ammetto, non ne sono più convinto.

La storia insegna, secondo qualcuno, che l'idea socialista apparteneva a Lenin e Trotsky, e a Stalin la menzogna, il revisionismo della dottrina marxista, la tragica teoria del socialismo in un paese solo, l'isolamento della rivoluzione bolscevica con l'annessa degenerazione burocratica dello Stato operaio sovietico; e poi i gulag, i legami col nazismo, la repressione dell’opposizione di sinistra e infine il naturale sbocco verso la restaurazione capitalistica. Lenin e Trotsky, no, tutto ciò non lo avrebbero permesso. Leon, in particolare, e persino lo stesso Vladimir sul letto di morte, posero le basi per una nuova internazionale antistalinista - la Quarta - per ridare dignità a un'ideologia calpestata dal Baffone e dai suoi adepti e sicari.

Tutto chiaro, dunque. Il programma di transizione da un lato, lo stalinismo e, aggiungiamo pure, l'anarchismo piccolo-borghese dall'altro. Bianco e nero. La pura retta via è una soltanto, mentre le altre sono solo deviazioni, degenerazioni e arretratezza politica.

Divisa la torta in due, bisogna poi ricomporre tutti i pezzi smussando gli spigoli appuntiti: l'ammutinamento di Kronstadt presto bollato come reazionario, perché “comunque Trotsky aveva già spiegato tutto”; i tolstoiani, sterminati per la campagna di boicottaggio dell'imposta alimentare che andava a finanziare l'armata rossa, che, se non altro, “erano vittime necessarie”; i gulag sono solo idea del Baffone perché, infatti, le “vittime erano anche trotskiste”: verissimo, ma in pochi si chiedono perché allora Trotsky non usò mai quest’argomento contro Stalin, denunciando pubblicamente l'immane crimine contro l'umanità che si stava consumando nel più tombale silenzio. "Trotsky e Lenin, certo non lo avrebbero fatto". Il fideismo postumo è sufficiente a sciogliere ogni nodo politico.

E poi, ancora, guai a mettere in dubbio la "necessità storica" dello strumento-partito per la rivoluzione, la quale, naturalmente null'altro può essere se non "un rovesciamento violento della società". La nonviolenza è roba da pecorelle e il gandhismo, in particolare, è vangelo per anime belle. Ciò perché, alla base di tutto, il pacifismo è servo dell'imperialismo. Amen.

Gli esempi potrebbero certo continuare, ma credo che quelli sin qui brevemente enunciati siano grosso modo sufficienti a rappresentare questa pseudo-scientifica operazione di collage e restyling volta a mettere in fila tutti i capitoli per costruire un'unica coerente e indiscutibile narrazione marxista. Dalla Comune parigina fino ai giorni nostri. Un'idea manichea della storia e delle sue questioni politiche che caratterizza buona parte dei micro-partiti e delle altre minuscole organizzazioni "a sinistra di Rifondazione".

"E allora - obbiettava uno dei dirigenti del mio ex partito - lasciamo le certezze acquisite per fare l'elogio del dubbio?" No, rispondevo, non si tratta di abbandonare certezze (ammesso che l'utilizzo di questo termine qui sia corretto) per inseguire il relativismo portato all'estremo. A mio avviso, la sfida, al contrario, è quella di analizzare senza partito preso l’intero percorso storico del movimento operaio e anticapitalista degli ultimi due secoli. Ma non per capire se è meglio stare con Trotsky o con Stalin, quanto piuttosto per arrivare insieme a comprendere gli errori e le tragedie, ripartendo da una sola e unica lezione storica: mai più ricette. Mai più narrazioni che si sforzano di tenere insieme un puzzle putrido e senza volto.

Perché se quel famoso fine al movimento dev'esserci, saranno le nostre pratiche, le nostre lotte, le nostre resistenze, composte in una narrazione collettiva, a disegnarlo per noi.

Gianmarco Catalano

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