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TRA DESTRA E SINISTRA UNA IMPRESSIONANTE SUPERFICIALITA’

(23 Novembre 2014)

lucio

Lucio Magri

TRA DESTRA E SINISTRA UNA IMPRESSIONANTE SUPERFICIALITA’ CON LA QUALE VIENE TRATTATO IL TEMA DELL’IDENTITA’ DELLA SINISTRA (E MALDESTRAMENTE LA SI RIVENDICA) COSTRINGE A RECUPERARE PER INTERO IL PERCORSO FILOSOFICO ATTRAVERSO IL QUALE DA CIRCA UN SECOLO E MEZZO LA SINISTRA HA SVILUPPATO IL SUO MODO D’ESSERE NELLA SOCIETA’ E NELLA POLITICA. SI TRATTA DI PASSAGGI DIMENTICATI E CHE SI VOGLIONO CANCELLARE DEL TUTTO MA CHE DOBBIAMO RIVENDICARE CON ORGOGLIO PERCHE’ SU DI ESSI SI E’BASATA NON SOLTANTO L’AZIONE POLITICA MA LA REALTA’ SOCIALE E CULTURALE DEL PROLETARIATO E DEL MOVIMENTO OPERAIO NEGLI ANNI GLORIOSI DEL RISCATTO SOCIALE , DELLA PRESENZA POLITICA, DEI TENTATIVI DI INVERAMENTO DELL’IDENTITA’ DELLA LOTTA DI CLASSE NEL CUORE DELL’AZIONE POLITICA.

Tutto nasce dall’identificazione del vero autentico dualismo moderno : quello tra sovranità popolare e sovranità dello Stato.
Tutti gli altri retaggi dualistici possono soltanto riemergere nella scia di quello.
E' dietro Kant che si allinea, in una nuova versione, l'intera tradizione della scissione.
Sulla linea di Rousseau, con sviluppi naturalmente originali, si profila la nuova tematica comunitaria del socialismo.
Sulla linea di Kant, senza sviluppi sostanzialmente originali, si profila non soltanto il costituzionalismo giuridico con le sue contraddizioni autoritarie, con la sanzione della lacerazione fra vita pubblica e vita privata, della società privatistica che si compone in una comunità soltanto astratta.
Nonostante le infinite riserve critiche che sono da farsi su di una riduzione di Marx ad un epigono di Hegel, è naturalmente vera l'affermazione che Hegel è un presupposto della critica di Marx.
Hegel è, infatti, la mente che avverte l'istanza dell'unificazione.
Suo è il tema della ricomposizione dei dualismi.
Ma poiché il suo resta un tema ideale, la soluzione che ne emerge non è in effetti una soluzione reale.
La ricomposizione del mondo nell'unitaria storia dell'idea incontra il suo limite nella supposizione della storia come meramente ideale e, quindi, nella pretesa che le radici del mondo siano soltanto da comprendere anziché da trasformare.
Se il vecchio razionalismo dogmatico ci appare un raddoppiamento del mondo, il razionalismo storicistico di Hegel ci configura il mondo come un raddoppiamento dello spirito: ma nella sostanza questo mondo ha una sua ragione e quindi la sua razionalizzazione è un compito che si assolve fuori di lui, nella misura in cui si supera e si dialettizza nelle spire ascendenti dello spirito.
Non a caso l'originalità di Hegel, ciò che di lui è vivo, sta fuori dalla politica. Egli non è andato al di là della rilevazione, certo importante, che la dinamica della vita pratica moderna è contenuta nel dualismo di società civile e Stato e che questa è la lacerazione modana su cui bisogna intervenire.
Ma Hegel vi interviene a modo suo tirando fuori lo Stato dalla mondanità, dandogli come luogo d'origine e destinazione la sfera celeste dello spirito cui tutto si compone e si supera lasciando le cose mondane come stanno.
Può dirsi che la lezione più importante che Hegel lascia in politica è, al contrario, la necessità di una critica storica dello Stato.
Ed è qui, appunto, che incomincia Marx.
Il grande merito teorico di Marx, nel campo del pensiero sociale, pare appunto quello di aver ricostituito mentalmente quell'unità andata dispersa con la divisione del lavoro, che diventa “divisione una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale” (dall'Ideologia Tedesca: questo punto,, della divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale mi ha sempre appassionato molto, fin dagli anni'70 e dalla lettura del testo fondamentale di Alfred Sohn Rethel nell'edizione dell'Universale Feltrinelli).
Da questo momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualcosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la “pura” teoria, teologia, filosofia morale.
Ricostituire l'unità di natura e storia significa dunque, per Marx, giungere a concepire la storicità della natura e la naturalità della storia, guadagnando teoricamente le cadenze pratiche dei tipi storico-naturali della convivenza umana.
Questa esplicazione casuale della storia del pensiero politico legittima, per Marx, anche nelle scienze sociali l'impiego del metodo scientifico propriamente detto giacchè configura la storia delle idee come una previsione teorica calibrata e misurata dal corso storico reale: non già, naturalmente, dall'esperimento di laboratorio la cui mancanza fu sempre l'alibi per distinguere la scienza dell'uomo dalla scienza della natura, ma da quel tipico esperimento umano che è l'esperimento storico, vale a dire del reale succedersi di tipi sociali che trapassano l'uno nell'altro consumando sia le generazioni umane sia le loro costruzioni ideali.
Da questo punto di vista la rivoluzione teorica di Marx ha la portata scientifica di quella di Darwin e la completa: come Darwin vede per primo la struttura storica della vita naturale, Marx vede per primo la struttura naturale della vita storica.
E da questa complementarietà universale di storia e natura scaturisce la possibilità di ipotizzare sia un'unica scienza nel mondo, sia una stessa metodologia scientifica.
Ma questa complementarietà di storia e natura nel pensiero di Marx conserverebbe una grossa lacuna se, in sede di teoria politico – sociale, Marx non avesse consapevolezza del carattere storico del suo stesso pensiero materialistico.
Di fatto Marx raggiunge questa consapevolezza proprio quando si rende conto che egli riesce ora a vedere e a capire ciò che Aristotele non vide e non capì, perché Marx può vedere e capire ciò che la società greca non aveva: una struttura naturale integralmente trattata dall'uomo, tale cioè da esprimere con il predominio dell'industria sull'agricoltura relazioni interamente sociali, definitivamente slacciate dai vincoli naturalistici.
Marx riconosce il merito di Hegel di aver visto la separazione di Stato e società civile nel mondo moderno, ma gli fa carico di non averne visto le fondamenta storiche moderne e di averla supposta come una tappa del cammino compiuto dallo spirito nella storia temporale verso l'estasi dello spirito assoluto.
Marx può allora concludere, per un verso, che il dualismo di Stato e Società civile è un prodotto storico, cioè articolazione effettiva di un tipo di relazioni sociali materiali, e per un altro che, quindi, la loro vera unificazione non può essere ideale, non di un superamento nella spiritualità hanno bisogno gli uomini ma, in primis, di una trasformazione che, riportando nella società civile il nesso comunitario che la divisione del lavoro e la dissociazione privatistica hanno fatto emigrare nella sfera astratta dello Stato politico, cancelli l'una come società puramente civile (o società dei privati) e l'altra come società puramente politica (o comunità soltanto illusoria in quanto astratta dai nessi sociali reali), ricostituendo una società omogenea.
Lo sbocco comunistico di Marx è proprio l'esito pratico della sua rivoluzione teorica ed è appunto per la visione della necessità storica di una socializzazione dei rapporti moderni che Marx riesce non solo a vedere ma a prevedere l'irruzione popolare nella vita moderna.
Oggi si sta tentando di tornare indietro: non lo scrivo per nostalgia di quelli che tutti noi consideriamo i “vecchi tempi” cui fare sempre e comunque riferimento.
Lo scrivo perché sono convinto che la lettura neo-liberista che ha egemonizzato il pensiero e l'azione politica a partire dagli anni'80 sembra aver dimenticato il fallimento storico della lettura liberale “classica”.
Il mondo, nel corso del '900, ha imboccato strade del tutto impreviste dai teorici della civiltà liberale: associazionismo, conflitti di lavoro, sindacalismo, la vicenda bruciante dei tentativi di inveramento statuale dell'ipotesi marxiana, emancipazione coloniale, l'idea degli uomini non più individui separati ma membri sociali.
E' caduta definitivamente l'ipotesi centrale delle vecchia cultura liberale: che l'indipendenza dell'individuo dalla società fosse il fulcro della libertà moderna.
Anzi, in questi ultimi tempi vissuti con crescente indignazione, si è ancora accresciuta la consapevolezza che, al contrario, proprio l'indipendenza – separazione si è rivelata la sorgente autentica della moderna illibertà, giacche soltanto nel reciproco isolamento (pensiamo al consumismo individualistico e all'uso dei nuovi mezzi di comunicazione e di conoscenza) di tutti può crescere la tentazione dispotica di alcuni: l'indipendenza di ciascuno è soltanto il rovescio di una universale dipendenza di tutti.
L'individualismo si è rivelato esso stesso una specifica e storica forma sociale (oggi prevalente sia nella destra, sia nella presunta sinistra): si tende a non far riconoscere più la società come una ramificazione storica dell'individuo e non si rivendica più quella partecipazione consapevole (pensiamo al passaggio nella struttura dei partiti dall'integrazione di massa, al “pigliatutti”, fino al partito “elettorale – personale” di stampo populistico che oggi appare del tutto vincente, sia pure nel microcosmo della vicenda politica italiana) che rimane l'unica arma per evitare l'inconsapevole e gelida dominazione delle cose sugli uomini e quindi il privilegio di alcuni su altri.
A mio giudizio il superamento di questo vero e proprio “blocco” nell'agire politico e sociale fortemente ri-determinatosi nel corso degli ultimi anni può ritornare ad essere d'attualità soltanto affrontando nuovamente quello che rimane un doppio sbarramento sul piano teorico: il resistere, sul piano politico, dell'idea che la democrazia rappresentativa rappresenti il modo esclusivo di reggere la società moderna e sul piano economico l'idea che l'economia di mercato sia la sola efficiente forma di ordinare le forme di produzione.
La brusca chiusura della storia del '900 non può esimerci, nell'analizzare i due aspetti fondamentali appena citati, dal parafrasare Claudio Napoleoni: “Cercate ancora!”.
Pervengo quindi alla determinazione di alcune altre opzioni di fondo che sono rimaste, comunque nel mio orizzonte di ricerca rappresentando altrettanti fermi “paletti”, collegati strettamente a quelli già enunciati poc'anzi.
Rimangono intatte le contraddizioni relative alla necessità inderogabile che le “garanzie” dell'individuo siano affidate in eterno alla gestione rappresentativa dello Stato e al sistema della “libera impresa”.
Ho sempre considerato il passaggio dello “Stato sociale” quale fase di transizione necessaria in una idea di inestinguibile sviluppo storico.
Oggi quel giudizio può essere riveduto? Apparentemente sì, visto che il moto della storia pare aver girato all'indietro la propria ruota (ribadisco qui quella che è ormai maturata come una convinzione profonda).
Allora, dal nostro punto di vista, si tratta di lavorare per invertire la tendenza.
Perché lo Stato sociale (il “welfare state” dei socialdemocratici e laburisti, il “compromesso” italiano, ad esempio) poteva ben essere considerato come “soggetto di transizione” cercherò di spiegarlo in seguito.
L’originalità però nella ricerca di una nuova connessione tra il pensiero marxiano e quello della definizione di una visione politica della modernità nel senso di un rilancio pieno della visione comunista, in un quadro di capacità e possibilità politica collocata all’altezza dei tempi dell’attualità la si è ritrovata essenzialmente nella teoria e nella pratica politica elaborata e pratica nell’area comunista italiana.
La scoperta di Gramsci, attraverso Togliatti e la pubblicazione di una edizione “ragionata” e ridotta dei “Quaderni” nell'immediata dopoguerra (quella completa e senza filtri curata da Gerratana arriverà negli anni'70 inoltrati) risultò riduttiva attorno a due punti essenziali: il mancato riconoscimento della portata e della rapidità del processo di modernizzazione dell'economia in Italia e in Europa (uno dei punti strategici del confronto nel partito e nella sinistra all'inizio degli anni'60 prima e dopo la morte di Togliatti: il tema di fondo della divisione Amendola-Ingrao all'XI congresso) e lo sbilanciamento nella funzione del “partito nuovo” al riguardo della funzione di propaganda e di “educazione del popolo” (un grande ruolo, di importanza capitale: beninteso) senza riuscire, però, a costruire davvero quell'intellettuale collettivo, interlocutore di movimenti e istituzioni dal basso, promotore di una riforma culturale e morale che Gramsci aveva indicato (un ritardo che poi si sarebbe visto, spaventosamente, al momento della liquidazione del partito nell'89): riforma culturale e morale che avrebbe dovuto colmare, nel disegno del grande pensatore sardo, la realtà di un paese che non aveva avuto la riforma religiosa e che aveva costruito il suo “Risorgimento” soltanto attraverso l'opera di una élite intrisa di romanticismo.
Gramsci fu così accettato quasi come il teorico di una via di mezzo tra ortodossia leninista e socialdemocrazia classica, non vedendolo invece come ideatore di una “terza via” (termine poi ripreso dall'intera sinistra comunista , da Ingrao a Rossanda a Magri, e financo, nell'ultima fase della sua segreteria anche da un centrista come Enrico Berlinguer) intesa come sintesi superante dei limiti comuni al leninismo e alla socialdemocrazia: l'economicismo e lo stalinismo.
Un “genoma” per l'appunto lo definisce Lucio Magri, che poteva svilupparsi, o semplicemente agire sopravvivendo, imporsi pienamente o deperire.
A mio giudizio, riprendendo le valutazioni contenute nel suo “Sarto di Ulm”: il motore che muoveva e caratterizzava i “Quaderni” era effettivamente quello della critica e autocritica sul fallimento della rivoluzione nei paesi occidentali.
Gramsci fu il solo, tra i marxisti della sua epoca, che non si limitò a spiegare quel fallimento con la teoria del “tradimento” dei socialdemocratici, o con la debolezza e gli errori dei comunisti; e allo stesso tempo non ne trasse affatto la conclusione che la Rivoluzione russa era immatura ed il suo consolidamento in Stato un errore.
Cercò invece le cause più profonde per le quali il modello della Rivoluzione Russa non poteva essere riprodotto nelle società avanzate (ricordate: “la Rivoluzione contro il Capitale”).
La rivoluzione russa rappresentava, però, il retroterra necessario (e il leninismo un prezioso contributo teorico) per una rivoluzione in Occidente, di percorso diverso e di esito più ricco.
La rivoluzione era dunque, per Gramsci, un lungo processo mondiale, per tappe, in cui la conquista del potere statale, pur necessaria, interviene ad un certo punto secondo le condizioni storiche, e in Occidente presuppone comunque un lungo lavoro di conquista di “casematte”, la costruzione di un blocco storico tra classi diverse, ciascuna portatrice non solo di interessi diversi ma con proprie radici culturali e politiche.
Nel contempo, una tendenza già inscritta nello sviluppo capitalistico e nella democrazia ma altrettanto il prodotto di una volontà organizzata e consapevole che vi interviene, di una nuova egemonia politica e culturale, di un nuovo tipo umano già in formazione.
Su queste basi il PCI riconobbe il quadro storicamente emerso dal secondo conflitto mondiale, riconoscendo i limiti imposti dai rapporti di forza nel mondo ed in Italia non soltanto per via di una pedissequa applicazione della linea dell'Internazionale (cui pure Togliatti aveva fornito un formidabile contributo) e dell'URSS.
Il PCI mobilitò le proprie risorse per conservare e rafforzare la propria identità autonoma e comunista ( questa fu la principale preoccupazione di Togliatti, quella della “legittimazione nazionale” di una forza comunista), attestandosi su di una linea tesa ad impedire una nuova “rivoluzione passiva” e conquistare pezzi di egemonia sulla società e sulla cultura,

Tutto questo è stato disperso e sospeso nella polverizzazione degli anni’80-’90 e nella logica governista che ha prevalso fino alla distruzione ideale, politica, culturale e sociale in atto nei nostri giorni fino a queste improbabili e un po’ ridicole rivendicazioni di sinistra.
Rivendicazioni che vanno confutate con forza: la ricostruzione qui eseguita è parziale e sicuramente da molte parti potranno esserne avanzate altre egualmente valide.
Ma si è inteso qui segnare un punto che non può essere assolutamente ignorato da quanti pensano comunque di intendere la nozione di sinistra in maniera completamente diversa da quella rivendicata da chi predica l’individualismo, lo sfruttamento, la sopraffazione delle masse e degli individui.
Per redigere questo intervento sono stati utilizzati i seguenti testi: “Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni” a cura di Umberto Cerroni, Editori Riuniti Roma 1966; Antonio Gramsci “Quaderni del Carcere” Einaudi Torino 1975, Alessandro Natta dal volume “Togliatti nella storia d’Italia” Editori Riuniti Roma 1984; Roberto Esposito e Carlo Galli “Enciclopedia del Pensiero Politico” Laterza, Roma – Bari, 2005; “Marx scienziato e rivoluzionario”, antologia, edizioni Lotta Comunista 1983; Lucio Magri “Il Sarto di Ulm” , Il Saggiatore, Milano 2009; Giuseppe Vacca “Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926- 1937”Einaudi Torino 2012; Cristina Corradi “Storia dei Marxismi in Italia” IL Manifesto Libri, Roma 2009.

Franco Astengo

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