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L'angoscia dell'anguria

L'angoscia dell'anguria

(24 Luglio 2013) Enzo Apicella

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(Memoria e progetto)

L’impossibile stabilità del capitale.

(Presentazione alla rivista COMUNISMO N.ro 77)

(19 Dicembre 2014)

In questo dicembre 2014, quando tutti i previsori delle sorti e del capitalismo preannunciano un 2015 nel quale finalmente si cominceranno a vedere i segni della ripresa, almeno nelle aree di maggior importanza mondiale, continuano a presentarsi e rafforzarsi segnali di deterioramento in tante altre zone che smentiscono tante forzate belle speranze per un futuro che si dovrà stabilizzare.
Se è vero, e viene detto in ogni occasione, che economia e sistema finanziario sono una rete unica che compenetra ed opera su tutto il mondo, risulta assurdo pensare ad una uscita da una crisi decennale, che ha colpito appunto il mondo intero, facendo affidamento su un miglioramento della situazione in un’area, quando altre segnalano difficoltà sempre più pesanti, in termini di produzione, di lavoro e di finanza.
Ma la propaganda del mondo borghese non può continuare ad avvitarsi nel piagnisteo della difficoltà senza prospettive di questi anni ed ha ancora il tempo di presentare un ottimismo critico, anche se temperato dalle evidenti difficoltà di una ripresa ancora debole ma, ci dicono, sulla strada della stabilizzazione.
In particolare per gli USA una nutrita schiera di economisti, che fino ad ieri si dilettavano nel descrivere scenari di cupa preoccupazione, oggi, nel felice periodo festivo, ed una buona parola non può e non deve mancare per dare un po’ di speranza nell’anno che viene, hanno cambiato registro. Ottimismo sui dati di crescita del prodotto interno, sulla ripresa dell’occupazione, o meglio sulla diminuzione dei senza lavoro, borsa che cresce impetuosamente di trimestre in trimestre, utili in crescita per le corporation e, come conseguenza, la ripresa forsennata della leva finanziaria, a scorno dei passati impegni a non più forzare la finanza di carta.
Per quanto ci riguarda, sui tanti numeri che sono messi a disposizione, grafici, tabelle, studi ponderosi econometrici e proiezioni varie, nutriamo dubbi e scetticismo. Ma i dati disponibili sono quelli e dobbiamo prenderli per buoni; malgrado tutto, la nostra lettura, che è di parte, non ci fa intravvedere tutti quei motivi di ottimismo, al contrario ci conferma che la fase ciclica di crisi capitalistica è ben lungi dall’essere nella porzione di esaurimento della curva.
Non entriamo qui nel merito dell’evoluzione della crisi, che, in modo sicuramente non generalizzato, continua ad attanagliare il mondo, alla faccia di quanti, convinti o per dovere, sciorinano i bei risultati della condizione generale del capitalismo.
La stessa dinamica che in negativo appare nel mondo della produzione finanziaria – perché di quello si tratta, a scapito della produzione reale dei valori – muove tutti gli altri aspetti del mondo capitalistico; dalle drammatiche oscillazioni dei prezzi sui mercati internazionali delle materie prime, alle guerre commerciali, che ne traggono energia e vigore, alla aperta situazione conflittuale tra gli Stati. Ancora, almeno per gli Stati imperialistici, senza urto diretto.
Tra le tante minacce di questo feroce scontro, lo ripetiamo, per ora senza armi, una delle più serie è stata riportata da un articolo del New York Observer agli inizi di dicembre. Secondo questo articolo, comincia a farsi più insistente da parte di settori politici americani la volontà di inasprire le sanzioni alla Russia, ma questa volta con la richiesta di escluderne le banche e le aziende dal sistema di pagamento internazionale Swift. È il canale, legale, più usato per la circolazione monetaria, una rete telematica bancaria che consente trasferimenti internazionali in modo immediato, in forma di valuta elettronica, nei settori dei servizi commerciali, per pagamenti e transazioni finanziarie in genere.
La sua chiusura per la Russia comporterebbe di fatto il blocco di ogni rapporto finanziario col resto del mondo; in Polonia ed in Gran Bretagna, anche se non ufficialmente, la richiesta sembra abbia ottenuto appoggi. Se alla crisi dei prodotti petroliferi un contratto con la Cina, a quale condizioni non ci è dato sapere, può assorbire la perdita economica, le conseguenze del blocco innescherebbero una crisi finanziaria molto più grave dell’attuale con esiti imprevedibili.
La notizia, come è comparsa, è però subito sparita dall’attenzione della stampa. Non “commuove” a sufficienza il largo pubblico, che non intende la gravità della minaccia. E probabilmente, almeno nei tempi brevi, sembra più un ballon d’essai, una provocazione per saggiare la reazione degli interessati, che non un’operazione all’ordine del giorno in questo clima di inique sanzioni. Così come appare un bluff la risposta che dalla Russia giunge per bocca del capo della VTB Bank, appartenente al clan Putin, che ha dichiarato, come riportato da una intervista ad un giornale tedesco e non smentita, secondo la quale questa azione si configurerebbe come un atto di guerra – e non sul piano finanziario – a cui lo Stato russo non potrebbe non rispondere sul piano militare.
L’attuale Federazione Russa è una debole copia, sul piano politico, militare ed economico della disgregata USSR, che per quanto riguarda le capacità belliche poteva allora contare anche sugli Stati aderenti al Patto di Varsavia. Il confronto è impietoso e la stretta connessione che lega tutti gli Stati al meccanismo finanziario mondiale la rende ancora più debole verso questo genere di minacce, che si accompagnano anche ad una accentuata pressione sul terreno militare ad opera dell’imperialismo americano, declinante ma ancora formidabile e deciso ad imporsi su tutti i tavoli per mantenere il suo predominio. Che poi tutto questo sia mascherato sotto il nome della democrazia violata e della libera determinazione dei popoli, nulla cambia alla feroce determinazione di mantenere il suo ruolo egemone in tutti i campi.
Simili decisioni ed iniziative, tanto politico-militari quanto finanziarie ed economiche, sulle quali si trovano obbligati anche Stati ed economie che hanno tutto da perdere appoggiandole, come sono costrette a fare, senza la capacità politica né la forza economica di contrastarle, indicano che l’imperialismo per ora egemone impone la sua forza e “conta” i suoi futuri possibili alleati, e suonano al contempo da monito agli altri convitati di pietra che per ora sembrano semplicemente valutare l’evolversi dello scontro, anche se saranno costretti presto o tardi a prendervi parte.
In questa sfida noi vediamo non segni della ripresa di un imperialismo la cui economia sta uscendo dalla sua crisi locale, ma al contrario i sussulti di un mondo che nel vortice della sua crisi generale sta marciando verso lo stesso storico esito, perché abbiamo la certezza che l’attuale fase è nella sostanza ben più avanzata dei periodi che dal dopoguerra in poi hanno agitato ed a tratti sconvolto il sistema capitalistico.
In passato dichiarammo la difficile alternativa del Novecento, “O guerra o rivoluzione”, troppo anticipando l’evoluzione del capitalismo. Errore che è una felix culpa per i rivoluzionari, certi di un processo storico studiato e previsto e che non rinunciano a questa scientifica evidenza se le date non tornano. E non abbiamo timore o scrupoli a ribadire quanto allora affermato, ora che questa prospettiva si va facendo man mano più ineluttabile.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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