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La Napoli di “Le mani sulla città”

(26 Gennaio 2015)

naples

di Antonio Frattasi* per Marx21.it

In occasione della recente scomparsa di Francesco Rosi, pochi hanno ricordato che alcuni tra i più importanti film realizzati dal Maestro tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà dei Settanta furono trasmessi per la prima volta dalla Rai soltanto nel novembre del ’75.I prudenti dirigenti della TV di Bernabei, un po’ per una forma di pregiudizio politico nei confronti di una autore ritenuto vicino alla sinistra, un po’ per antico oscurantismo culturale, avevano infatti a lungo escluso dalla programmazione le opere del regista napoletano. Insomma, Rosi per la RAI non esisteva.

Un film soprattutto terrorizzava la dirigenza della televisione pubblica (ai tempi l’unica esistente): Le mani sulla città. Ma, ad onor del vero, anche Salvatore Giuliano, con le immagini relative a Portella della Ginestra, disturbava i sonni dei funzionari televisivi.
Parlare in TV del separatismo siciliano, dei suoi rapporti con il banditismo e con la mafia, della oscura fine di “Turiddu” (ucciso dai carabinieri in un conflitto a fuoco notturno, come voleva la versione ufficiale, o eliminato da qualche “picciotto” esecutore di ordine impartiti dai padrini? ), delle accuse lanciate da Pisciotta, durante il processo di Viterbo, ad alcuni esponenti democristiani e monarchici da lui indicati come i veri mandanti della prima strage della storia repubblicana, esponeva a gravi rischi la carriera dei zelanti dirigenti RAI. Scelba, nonostante fosse stato collocato, dopo l’avvento del centro sinistra, ai margini del dibattito interno al suo partito( dagli anni Sessanta in poi non fu più nominato ministro) era considerato pur sempre un autorevole leader della Democrazia cristiana, un notabile di formazione popolare e sturziana, ancora potente e temuto perché depositario di tanti segreti dei primi due decenni della Repubblica, e, quindi, non si doveva in alcun modo irritarlo mandando in onda il film di Rosi che sulle vicende siciliane dei primi anni Cinquanta qualche interrogativo lo poneva.

Poi, alla fine del ’75,dopo il terremoto delle elezioni amministrative del 15 giugno e la straordinaria avanzata del PCI, la Rai, decise di trasmettere un ciclo di film del Maestro che comprendeva: La sfida (1958), Salvatore Giuliano (1961), Le mani sulla città (1963), Il momento della verità (1965), e, infine, Il caso Mattei ( del 1972, trasmesso a poco più di 13 anni dalla tragica morte del Presidente dell’ Eni ed a 5 anni dal rapimento di Mauro De Mauro, il giornalista che aveva collaborato alla ricostruzione degli ultimi due giorni di vita del grande imprenditore pubblico).

Le amministrative di giugno avevano cambiato profondamente la geografia elettorale del Paese: a Milano, Torino, Genova, Venezia, Firenze, Napoli il PCI era diventato il primo partito, ed avrebbe espresso i sindaci di Torino (Diego Novelli), Firenze (Elio Gabbuggiani), Napoli (Maurizio Valenzi).

L’anno successivo anche Roma sarebbe stata conquistata dai comunisti e dalla sinistra che avrebbero eletto alla guida del Campidoglio un grande intellettuale, lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan. Si apriva una nuova ed intensa stagione politica, ricca di importanti e positivi fermenti culturali e di prospettive di radicale trasformazione della società italiana. Il vento del cambiamento soffiava non soltanto sulle principali città, ma anche sulla provincia non più “addormentata”. Anche i piccoli centri interni del Nord, tradizionali feudi della Democrazia cristiana, avevano infatti manifestato con il voto l’esigenza di spezzare la gabbia che per oltre due decenni aveva indirizzato in senso moderato la crescita civile del Paese. Nascevano, così, giunte regionali di sinistra in Piemonte e Liguria e si confermavano quelle già esistenti in Emilia-Romagna, Toscana ed Umbria.
Rosi dichiarò all’Unità, in un’intervista pubblicata il 15 novembre nelle pagine dedicate agli spettacoli: "Ritengo che fosse finalmente ora di fare entrare nelle case degli italiani i miei film. In particolare” Le mani sulla città” proiettato sinora da quasi tutte le televisioni europee. E’ chiaro che è stata recepita la maturità acquisita dagli italiani in senso lato e dimostrata con il voto del 15 giugno". E poi aggiunse: "Si deve, secondo me, alla presa di coscienza di questa maturità anche la messa in onda della 'Dolce vita', oggetto di scandalo sino a pochi anni fa". Concluse poi affermando che giudicava, a distanza di tempo, Le mani sulla città la sua opera più valida, anche e soprattutto per il suo contenuto, perché con quel film aveva voluto "richiamare l’attenzione sulle conseguenze dirette o indirette di giochi di potere e di forme di clientelismo politico che non soltanto trasfigurano i volti della città(la speculazione edilizia) ma rendono peggiore l’uomo svilendone la dimensione"

Il palinsesto dei programmi prevedeva, dunque, per mercoledì 26 novembre del ’75 la trasmissione di Le mani sulla città. L’attesa, soprattutto nei più giovani che avevano sentito parlare del film ma non avevano potuto vederlo perché erano soltanto dei bambini quando esso apparve nelle sale nel’63, era trepidante. Nei giorni immediatamente precedenti alla messa in onda, accadde però un imprevisto: fu data notizia della proclamazione, proprio per il 26, di uno sciopero dei dipendenti della Rai. Gli appassionati estimatori del regista napoletano temerono che l’agitazione sindacale avrebbe fatto scivolare l’atteso appuntamento televisivo ad altra ed incerta data. Per fortuna, però, furono annullate soltanto alcune trasmissioni, e le due reti televisive allora esistenti unificarono i loro programmi mandando entrambe in onda Le mani sulla città nel giorno previsto ed all’ora stabilita.

Nel novembre ’75, Napoli era amministrata da poco più di due mesi (esattamente dal 26 settembre) da una giunta di sinistra guidata da Maurizio Valenzi, uno dei dirigenti comunisti più conosciuti e stimati in città, con una biografia davvero leggendaria ed una fama (per la verità molto meritata) di bravo pittore. Valenzi, che non era napoletano ma a Napoli nel dopoguerra aveva partecipato al radicamento del partito nuovo, era stato consigliere provinciale, senatore per tre legislature (’53, ’58 e’63) ed infine capogruppo in Consiglio comunale dai primi anni Settanta. Dopo il travolgente risultato elettorale, il gruppo dirigente della federazione napoletana fu impegnato con i suoi quadri migliori nel governo della città. In giunta entrarono dirigenti cittadini di provata esperienza e di riconosciute capacità: Luigi Imbimbo (ingegnere),Antonio Parise(primario ospedaliero),Antonio Scippa(docente di Tecnica bancaria),Eugenio Donise(ex segretario della FGCI e membro della segreteria provinciale),Ettore Gentile( preside di liceo), Vittorio De Marino(quadro operaio),Ricciotti Antinolfi( economista, autore, tra l’altro, di un’analisi sulla crisi dell’economia italiana pubblicata dalla casa editrice De Donato di Bari),Eduardo Vittoria(urbanista).Assessore alla Igiene e sanità era Antonino Calì,un primario ospedaliero eletto nella pattuglia degli indipendenti di sinistra(che comprendeva il già citato Vittoria e Alberto Monroy, un illustre studioso di biologia). Un ruolo molto importante rivestiva nella giunta Antonio Sodano, assessore all’Edilizia, per lungo tempo responsabile provinciale delle questioni della casa e dirigente molto popolare tra i militanti del partito. Sodano, di estrazione popolare, era considerato uno dei consiglieri più esperti, preparati ed autorevoli, dotato della non comune capacità di fiutare nell’aula consiliare le insidie che si nascondevano dietro delibere apparentemente di ordinaria amministrazione. Assessori supplenti furono eletti Sergio Pastore(avvocato penalista ed ex magistrato),Enzo De Palma(tecnico della Ferrovia Cumana),Aldo Cennamo(funzionario delle Poste e dirigente della sezione comunista di Ponticelli, una delle più importanti della provincia di Napoli) ed Emma Maida(giovane dirigente dell’Unione Donne Italiane).Il Partito Socialista aveva 4 assessori: Luigi Buccico (giornalista de L’Avanti, esponente della corrente autonomista nenniana);Antonio Carpino(avvocato, nominato vicesindaco);Giulio Di Donato(giovane legale appartenente alla corrente manciniana,più tardi, sarebbe passato alla sinistra interna); e Silvano Labriola(professore universitario di Diritto costituzionale).I 4 assessori socialisti sarebbero divenuti, negli anni successivi, tutti parlamentari :Labriola nel ’76;Buccico nel 79,ma qualche mese dopo l’elezione sarebbe tragicamente scomparso;Carpino,subentrato a Buccico;Giulio Di Donato eletto nel 1983.

Maurizio Valenzi, nel libro-intervista curato da Massimo Ghiara (“Sindaco a Napoli” -Editori Riuniti,1978) confessò che quando la Giunta da lui guidata si insediò a Palazzo San Giacomo nel settembre del ’75, egli, come alcuni dei suoi compagni, provò una sensazione di “trepidazione e angoscia” dovuta alla grave situazione della città ed all’inesperienza di un buon numero di neoassessori. In effetti su 19 membri dell’amministrazione comunale di sinistra soltanto 3 socialisti avevano maturato un’esperienza amministrativa nella precedente giunta di centro sinistra (Labriola, Carpino e Buccico), un’altra decina si era formata in Consiglio comunale nelle battaglie di opposizione alle amministrazioni municipali democristiane, e “quattro o cinque erano passati di botto dal rango di candidati a quello di assessori senza alcuna conoscenza diretta della macchina amministrativa".
Il 15 giugno il PCI era diventato il primo partito (32,3% e 27 seggi), ma aveva distanziato di solo 4 punti percentuali la Democrazia cristiana, che, benché uscita sconfitta dalle urne, si era comunque attestata al 28,4%(24 seggi). Il PCI aveva ottenuto straordinari risultati nei quartieri delle periferie da est a ovest: a Ponticelli (46,1%), a Barra (50,6%), a San Giovanni a Teduccio (52,4%), a Bagnoli (43,6%). La crescita era avvenuta anche al centro della città: a Montecalvario il PCI era balzato al 29,3%, ad Avvocata al 28,1%.

Il Movimento sociale italiano-Destra nazionale aveva presentato come primo capolista Achille Lauro- ormai più che ottuagenario- nell’intento di raccogliere consensi in quei settori dell’elettorato napoletano ancora ingenuamente legati all’immagine demagogica e populistica del Sindaco monarchico vendicatore dei torti subiti dalla città. In lista, dietro il vecchio Comandante, vi erano i capi delle due anime del Movimento sociale italiano: quella moderata che avrebbe dato vita, un anno dopo, alla scissione di Democrazia nazionale (il partito cuscinetto della destra, la cui nascita fu favorita da Andreotti) e quella almirantiana e rautiana, dichiaratamente fascista. Ma nonostante il buon successo personale di Lauro (70.000 preferenza, fu il candidato più votato), il partito di Almirante non confermò la percentuale delle politiche del ‘72(26,3%), scendendo al 18,5%(15 seggi).

L’opposizione era molto agguerrita, soprattutto i democristiani, spodestati dal voto popolare dopo 13 anni di governo cittadino, erano particolarmente accaniti contro giunta ed assessori di sinistra. Il sindaco uscente, Bruno Milanesi, che guidava la corrente democristiana dorotea-gavianea di cui faceva parte Alfredo Vito(anni dopo diventato famoso come “Mister centomila preferenze”) attaccava quotidianamente Valenzi, mentre Paolo Cirino Pomicino(medico ospedaliero che nel ’76 sarebbe stato eletto deputato) rappresentava la componente più aperta al confronto ed al dialogo con la nuova amministrazione(diventato un leader nazionale della corrente andreottiana,”O’ Ministro” avrebbe intessuto, negli anni ’80, rapporti preferenziali con alcuni settori del PCI napoletano).

Il gruppo consiliare comunista con le elezioni del ‘ 75 era cresciuto numericamente (da 23 a 27 consiglieri) con alcuni nuovi ingressi, soprattutto di giovani quadri (Berardo Impegno, Benito Visca ed i già citati Eugenio Donise, Aldo Cennamo, Emma Maida) emersi nelle battaglie antifasciste ed antimperialiste della fine degli anni Sessanta. Andrea Geremicca, divenuto segretario della Federazione di Napoli nel XIII congresso del ’72, aveva lasciato già da un paio di anni il ruolo di capogruppo, ma continuava a sedere tra i banchi consiliari ed a seguire le più rilevanti questioni relative al governo della città. Il professor Eugenio Jannelli, illustre ortopedico, Domenico Marano, casco giallo dell’Italsider di Bagnoli, Telemaco Malagoli, farmacista dell’Ospedale Cardarelli erano tra i consiglieri con maggiore esperienza istituzionale.

Nel giugno del ’75 i principali protagonisti della lotta al laurismo in Consiglio comunale avevano lasciato da tempo la Sala dei Baroni: Giovanni Bertoli, ingegnere e storico oppositore delle giunte di destra, era scomparso nel ’70, un anno e mezzo dopo la sua riconferma a Palazzo Madama(era stato consigliere dal ’46 al gennaio del ’70 e senatore nel ’58,’63 e ’68) ; Gerardo Chiaromonte ed Abdon Alinovi(ancora segretario regionale) erano dirigenti nazionali del Partito; Massimo Caprara, che aveva aderito al gruppo del Manifesto, nelle elezioni del’72 era stato candidato come secondo capolista alla Camera dietro Valpreda, ma la lista non aveva raggiunto il quoziente elettorale necessario per entrare a Montecitorio, non rieletto deputato si era dedicato al giornalismo collaborando al settimanale “Il Mondo”( a lui Giulio Andreotti aveva rivelato in un’intervista che Guido Giannettini era stato un agente del Sid); Giovanni Bisogni aveva lasciato il PCI per aderire al PSI; Carlo Fermariello era stato eletto senatore nel ’68 ed aveva importanti incarichi nell’associazionismo venatorio(Arci caccia); Carmelo Gabriele, il grande pediatra di origini calabresi, si era ritirato dalla vita politica attiva.

Ma torniamo a Le mani sulla città. Nel ’62 quando Rosi, Enzo Forcella, giornalista politico e uomo di straordinaria cultura, lo scrittore Raffaele La Capria ed Enzo Provenzale iniziarono la stesura della sceneggiatura del film, Napoli viveva uno dei più difficili momenti della lunga e tormentata fase di passaggio dal laurismo al centro sinistra. Il declino del fenomeno laurino era iniziato in realtà nel ’58, poco meno di 2 anni dopo le elezioni amministrative del 27 maggio del ’56, che avevano decretato il successo del Partito monarchico popolare (51,8% e 44 consiglieri), la formazione di destra nata dalla scissione del Partito monarchico nazionale. Il PMP era una creatura di Lauro, una forza politica di modeste dimensioni, il cui bacino elettorale era concentrato prevalentemente in alcune città meridionali. Il 13 febbraio del ’58 Giovanni Gronchi, presidente della Repubblica, firmò il decreto di scioglimento del Consiglio comunale, un provvedimento richiesto da Fernando Tambroni, ministro dell’Interno del governo guidato da Adone Zoli. Tambroni imputava all’amministrazione comunale di aver persistito, nonostante i ripetuti richiami "in un’azione illegale e contraria alle regole essenziali di corretta e responsabile gestione della cosa pubblica". Un mese prima, Lauro aveva tentato di prevenire la mossa del Viminale e si era dimesso da Sindaco, facendo presentare le dimissioni anche a tutta la giunta. Al suo posto, fu eletto l’avvocato Nicola Sansanelli, che era stato federale fascista di Napoli, e, sia pure per breve tempo, segretario nazionale del PNF, subito dopo la Marcia su Roma. Ma l’espediente furbesco escogitato dal Comandante non servì ad evitare il giusto ma tardivo commissariamento. L’Unità riportò la notizia in prima pagina, titolando: "Il governo scioglie l'amministrazione comunale di Napoli dopo cinque anni di complicità con Lauro". Giorgio Amendola rilasciò alla stampa una dichiarazione molto dura e precisa in cui il PCI rivendicava di aver lungamente e tenacemente combattuto e denunciato nel Consiglio comunale, nel Parlamento, tra le masse il pericolo che minacciava la capitale del Mezzogiorno. Per tre anni, sino al febbraio del ’61, la città fu amministrata dal commissario prefettizio Alfredo Correra. Il 6 novembre del ’60(4 mesi dopo il fallito tentativo autoritario di Tambroni, divenuto capo del governo con il voto determinante del Movimento sociale italiano) i napoletani furono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Consiglio comunale. La coraggiosa e ferma risposta popolare antifascista, in quel drammatico luglio, aveva respinto e sconfitto in tutto il Paese il disegno reazionario dell’uomo politico marchigiano, sostenuto dal presidente Gronchi e dai settori più retrivi delle classi dirigenti italiane. A Napoli nonostante la mobilitazione della CGIL, del PCI, del PSI, del mondo della cultura e dello spettacolo (Eduardo De Filippo aveva parlato a migliaia di manifestanti in Piazza Cavour), il risultato elettorale premiò ancora una volta la destra monarchica e clientelare. “Stella e Corona”, la lista di Lauro, ottenne il 36%(29 seggi) ed era pertanto il partito di maggioranza relativa, seguito dalla DC al 26,2%(22 seggi) e dal PCI al 23,3%(19 seggi). Il Comandante fu rieletto sindaco, ma con una maggioranza molto risicata, che sarebbe durata poco tempo anche per le crepe interne. Ebbero inizio infatti tra i consiglieri laurini le grandi manovre per aprire una nuova stagione politica in città. Si trattava, ovviamente, di un’operazione di mero trasformismo, tesa a traghettare nei più sicuri lidi democristiani una parte del personale politico laurino (quella meno legata agli interessi economici della flotta). Gava era pronto a trattare per conquistare Palazzo San Giacomo, facendo qualche generosa concessione agli ex seguaci del Comandante e garantendo ai capi dell’ammutinamento un’adeguata collocazione nei ranghi della Democrazia cristiana. Una pattuglia di eletti con Stella e Corona, per la precisione sette, ritenne, quindi, che fosse giunto il momento di prendere definitivamente le distanze da Lauro, sulle cui reali prospettive politiche molti nutrivano più che fondati dubbi. I sette transfughi, insultati dai fedelissimi del Comandante e bollati come volgari traditori (il giornalista Alberto Giovannini li definì “i sette puttani”) non riuscirono però ad essere determinanti per la formazione di un nuovo governo cittadino. Lo scioglimento del comune, a quel punto, fu inevitabile ed a Napoli fu inviato dal Ministero un altro commissario prefettizio, Ferdinando D’Aiuto, che restò in carica per poco meno di un anno (dal novembre ’61 all’ottobre del ’62). Il 10 giugno del ’62 i napoletani tornarono al voto, ma il risultato elettorale complicò ancor di più le cose. Il Pdium di Lauro venne confermato partito di maggioranza relativa, con una percentuale più bassa di quella ottenuta nella precedente consultazione 31%(25 seggi), la Democrazia cristiana si attestò al 27,8%(23 seggi) ed il PCI arretrò al 20,9%(17 seggi). Alcuni consiglieri uscenti provenienti dai monarchici dissenzienti furono candidati nella lista democristiana e quasi tutti rieletti. Il professor Vincenzo Maria Palmieri, esponente dc ed illustre cattedratico, divenne sindaco, ma i numeri non potevano assicurargli una navigazione tranquilla, ed a luglio del ’63 il comune fu sciolto nuovamente. Tra tanta confusione ed incertezza era ormai indubitabile che la vicenda storica del laurismo si era completamente esaurita, anche se, come abbiamo visto, Lauro avrebbe goduto ancora, nel decennio successivo, di un elevato consenso personale. I Gava, che avevano conquistato la Provincia di Napoli facendo eleggere presidente della giunta il giovane Antonio, erano impegnati nel continuo consolidamento del loro vasto, radicato e moderno sistema di potere (che si estendeva dal Banco di Napoli all’ Isveimer, dalla Cassa del Mezzogiorno all’ industria pubblica), grazie al quale costruivano giorno dopo giorno una formidabile macchina di consenso elettorale. Il senatore Silvio, il patriarca della famiglia, più volte ministro di importanti dicasteri, era uno dei leader nazionali più influenti della corrente dorotea (Rumor, Piccoli, Carlo Russo) la più corposa componente democristiana. Nel ’63, Giovanni Leone, presidente della Camera dei deputati dal’55, lasciò la sua importante carica parlamentare per guidare il suo primo governo monocolore dc( definito dalla stampa “balneare”), e, conclusa la breve esperienza governativa, si adattò ad un ruolo puramente “notabilare”(peraltro favorito dalla successiva nomina a senatore a vita), forte del suo prestigio accademico e professionale, rinunciando a qualsiasi forma di competizione di potere all’interno della Democrazia cristiana. Ma nonostante l’imponente crescita dei Gava, i dorotei napoletani, dopo il fallimento del tentativo di Palmieri, avrebbero dovuto attendere le elezioni amministrative dell’autunno del ’64 per poter conquistare stabilmente il governo della città, mantenendolo ininterrottamente sino al 15 giugno del ‘75.

Rosi e La Capria volevano girare un film che raccontasse e denunciasse lo scempio edilizio che aveva devastato una grande e bella città come Napoli, sulle complicità politiche- nazionali e locali- di cui avevano goduto costruttori senza scrupoli, unicamente interessati alla realizzazione del profitto. La Capria narrò in un’intervista la genesi di “Le mani sulla città”: "Noi sentivamo il problema della speculazione immobiliare perché Napoli è stata una delle città più devastate da una speculazione immobiliare oscena...L'idea era di partire da una semplificazione estrema per dimostrare che in questa speculazione in definitiva era compromesso tutto il paese, e in definitiva anche il governo" (intervista a La Capria, ora in L’avventurosa storia del cinema italiano di Faldini e Fofi ed. Feltrinelli). Intervistato dal settimanale “L’Europeo” nell’autunno del ’63, Rosi chiari perché avesse voluto fare quel film di forte denuncia: "Volevo raccontare una città. Non solo le vicende di alcuni uomini in una città. E avevo scelto Napoli perché la conosco meglio…. Girando per giorni e giorni da una parte e dall’ altra mi sono reso conto del dramma che condiziona la vita di Napoli, e che la condizionerà per generazioni. Cosa c’è sotto, che non funziona? Senza scoprire niente di nuovo, ho capito che tutto dipende da un fatto: per una complicata meccanica politica e legislativa, gli uomini eletti per rappresentare una città finiscono per prendere decisioni che non hanno niente a che fare con gli interessi della città. Con lo scrittore La Capria assistemmo a innumerevoli sedute del consiglio comunale, facemmo decine di interviste: il problema centrale era sempre quello urbanistico. Parlammo con molti studiosi. L’architetto Piccinato, per esempio, ci rivelò che gli urbanisti sono arrivati, tutti d’accordo, a questa diagnosi:a causa del loro sviluppo urbanistico irrazionale, due città come Napoli e Milano ormai sono completamente perdute".

Rosi e La Capria intervistarono a Napoli tutti coloro che avevano avversato il fenomeno laurino sin dal suo primo apparire: dirigenti comunisti e socialisti, sindacalisti, giornalisti, intellettuali democratici. Rosi e La Capria, nel corso della loro inchiesta di stampo giornalistico, ebbero lunghe conversazioni con il grande urbanista comunista Luigi Cosenza. Cosenza, che nel’46 era stato consigliere comunale per il Blocco del Popolo( la lista formata da comunisti, socialisti ed indipendenti), e autore, nel dopoguerra, di un Piano regolatore di Napoli che non trovò mai concreta attuazione perché, come scrisse Paolo Ricci il 9 aprile ’84 sull’Unità<>,spiegò ai due i meccanismi della politica napoletana, che ritroveremo tutti narrati in Le mani sulla città . La ricostruzione di alcune vicende napoletane e le dinamiche di potere, gli intrecci tra economia, politica, mondo degli affari e scempio edilizio furono, infatti, descritti nel film con precisione, senza fare ricorso a particolari drammatizzazioni, ma riproducendo, in linguaggio cinematografico, la realtà per come essa era.

Il tramonto del laurismo non si era tradotto in una svolta profonda e significativa nella vita della città, perché i gruppi dirigenti dorotei della Democrazia cristiana, come abbiamo visto, acquisirono una parte del personale politico laurino nell’intento di condizionare in senso ancor più moderato la dialettica interna al loro partito, depotenziando in tal modo i già timidi propositi innovatori del centro sinistra, formula politica che avrebbe iniziato a governare Napoli a partire dall’autunno del ’64, con l’elezione a Sindaco del democristiano Nando Clemente. Rosi nel film rappresenta in maniera molto efficace il compromesso tra la destra ed il centro, compromesso che trova il punto di equilibrio politico e sociale negli affari e nella perpetuazione del malgoverno e dello scempio del territorio. Nel ’67, dopo 4 anni dall’uscita del film nelle sale, la Commissione di studio sul sottosuolo napoletano concludeva i suoi lavori con una relazione che rappresentava un vero e proprio atto di accusa alle classi dirigenti della città: "Una lava di casa ha sommerso Napoli, incredibilmente. Le colline sono state aggredite, il verde distrutto, i luoghi sconvolti dalla speculazione edilizia". E poi continuava: "Nell'arco di tempo ben definito, e che parte dagli anni '50, sono state consentite alterazioni gravi ed irreversibili di un paesaggio tra i più belli del mondo, è stato compromesso lo sviluppo urbanistico ordinato e civile della città, si è persino attentato, ciecamente, alla sicurezza ed alla vita dei cittadini napoletani".

Nella scelta degli attori ai quali affidare ruoli principali e di contorno, Rosi seguì un criterio che contribuì in maniera fondamentale al successo di Le mani sulla città: chiamò una grande star internazionale Rod Steiger (magistralmente doppiato da Aldo Giuffrè); un gigante della scena teatrale italiana,Salvo Randone(che aveva già interpretato il personaggio del presidente della Corte in Salvatore Giuliano); e Guido Alberti, proprietario dell’azienda produttrice del liquore Strega, alla sua seconda prova cinematografica(aveva recitato con Fellini in 8 e mezzo).Tutti gli altri attori erano non professionisti: giornalisti, un famoso avvocato penalista, un commerciante,un dirigente sindacale e politico,un docente del Centro sperimentale di cinematografia. Per il ruolo del consigliere De Vita, il tenace oppositore della giunta di destra, Rosi volle Carlo Fermariello, dirigente della Federbraccianti e segretario della Camera del lavoro di Napoli. Il regista seguì attentamente molte sedute della Sala dei Baroni e fu colpito da Fermariello e dai suoi interventi, appassionati, lucidi, documentati, vigorosi. Pensò che nessun attore professionista sarebbe stato bravo quanto lui. " Avevo intuito questa sua capacità di riprodurre se stesso, non in maniera meccanica, ma partecipata, perché credeva nelle cose che avrebbe dovuto dire" (Da un’intervista di Rosi al professor Pasquale Iaccio, ora in Cinema e storia Liguori editore).
Fermariello accolse la proposta del regista con perplessità perché pensava di non possedere particolari doti recitative, ma soprattutto era convinto che un sindacalista non potesse distrarsi dal suo compito di rappresentante dei lavoratori, ed apparire in un film sarebbe stato scambiato per un gesto di frivolezza. Anche la Federazione napoletana del PCI nutriva dei dubbi sulla partecipazione di un suo dirigente di primo piano ad una storia cinematografica, sia pure importante e sia pure diretta da un regista molto famoso, autore di opere di denuncia sociale ed impegno civile. Ma Rosi non si scoraggiò, e parlò con Pajetta della partecipazione di Fermariello al film. Pajetta, ed anche Amendola (con il quale il regista ebbe una conversazione in un ristorante di Torre del Greco) ritennero che sarebbe stato un grave errore rifiutare la proposta di Rosi, anzi vedevano quella partecipazione al film un’occasione per poter far conoscere ancora meglio le battaglie democratiche dei comunisti e la grave situazione di Napoli. Alla fine Fermariello cedette alle pressioni del regista, un po’ perché convinto dalle argomentazioni di Pajetta ed Amendola, e un po’ per l’incoraggiamento che gli venne da alcuni operai napoletani, ben felici che un loro dirigente potesse dal grande schermo “fare comizi” a tanta gente in tutta Italia. Anche gli altri attori non professionisti recitarono con convinzione, interpretando con efficacia i ruoli assegnati. Vincenzo Metafora, un commerciante napoletano di automobili vagamente rassomigliante a Lauro, è il Sindaco di destra, populista e clientelare, che distribuisce soldi alle popolane che protestano per le loro condizioni di vita. Angelo d’ Alessandro, dirigente del Centro Sperimentale di cinematografia e sceneggiatore, è il consigliere comunale democristiano Balsamo, un pediatra ospedaliero serio e preparato, molto sensibile alle tematiche sociali, onesto intellettualmente e deciso avversario della destra, con la quale non vuole arrivare a nessun tipo di compromesso, e per questo motivo esprime pubblicamente il suo dissenso dal partito. Luigi Mazzella, un artigiano comunista iscritto al partito dai tempi della clandestinità, segretario provinciale dell’ANPI tra la fine degli anni Sessanta ed i primissimi anni Settanta, appare (pronunciando, non doppiato, un paio di battute) nella scena, girata in un vicolo di Via Marina, in cui un gruppo di cittadini protesta contro lo sgombero di un edificio. Rosi chiamò, per i ruoli minori, alcuni giornalisti e professionisti napoletani, che interpretarono i consiglieri della maggioranza e dell’opposizione. L’aula consiliare (la storica Sala dei Baroni) fu ricostruita negli studi della Titanus a Cinecittà, dall’architetto Massimo Rosi, fratello di Francesco.

Rod Steiger è il costruttore Nottola, avido uomo di affari, privo di scrupoli, corrotto e corruttore, che mira a diventare assessore all’Edilizia (passaggio indispensabile per poter continuare ad edificare anche dove la legge non lo consente) e che per raggiungere questo obiettivo cambia partito e passa con il centro. Salvo Randone interpreta De Angelis, il capo del gruppo democristiano in consiglio comunale, un politico abile e spregiudicato, tessitore dell’accordo di governo con la destra. Guido Alberti è Maglione, il leader dei consiglieri fedeli al Sindaco, nemico implacabile di Nottola quando questi cambia casacca, ma poi i due si riappacificano all’insegna della spartizione del potere (la scena dell’abbraccio è tra le più significative del film).

Quando Le mani sulla città apparve nelle sale cinematografiche fu accolto con ostilità dagli ambienti conservatori; la destra attaccò Rosi, accusandolo di dare un’immagine distorta di Napoli e del suo sviluppo urbanistico. La critica non fu soltanto ai contenuti del film, perché il regista fu denunciato per vilipendio delle forze dell’ordine, anche se poi la ridicola accusa cadde. Le riprese furono ultimate mentre si svolgeva la campagna elettorale del ’63. Rosi inserì alcuni momenti dei comizi conclusivi di Togliatti a Piazza del Plebiscito (tra la folla si scorgono i volti di alcuni vecchi compagni comunisti) e di Lauro in una piazza del centro storico. Quelle elezioni, svoltesi il 28 e 29 aprile, videro una straordinaria avanzata del PCI (un milione di voti conquistati). Quando il Primo maggio successivo i lavoratori sfilarono in corteo nelle principali città italiane, i risultati elettorali erano stati resi noti soltanto da 24 ore. Vi era un entusiasmo travolgente perché finalmente il PCI superava la barriera del 25% dei voti validamente espressi. A settembre Le mani sulla città avrebbe ottenuto il Leon d’oro alla XXIV Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia. L’importante riconoscimento, assegnato dalla giuria all’unanimità “per la vigoria artistica ed il caldo messaggio civile”, scatenò velenose polemiche contro Rosi ma anche contro il professor Chiarini, da poco nominato direttore della Mostra. I giornali di destra accusarono il neodirettore di cedimenti alla sinistra; persino il compassato Gian Luigi Rondi, noto critico cinematografico e curatore di alcune rassegne televisive dedicate a registi e attori italiani, legato alla DC più moderata ed andreottiana, manifestò il suo misurato ma fermo disappunto. Il regista francese Louis Malle, infastidito per essere uscito sconfitto dalla Mostra alla quale aveva partecipato pensando di poter vincere con il suo Fuoco fatuo, dichiarò alla stampa che il premio era stato ben meritato da Rosi, ma poi aggiunse, in maniera inelegante, che la giuria era stata composta in modo tale da poter premiare un solo film: Le mani sulla città, appunto.Rosi reagì legittimamente offeso, ribattendo che un tale putiferio gli appariva del tutto spropositato per un’opera cinematografica che avrebbe dovuto suscitare un dibattito prevalentemente di natura estetica. Nella già citata intervista al settimanale L’Europeo il regista respinse con forza i veleni diffusi da chi insinuava che fosse stato pagato dal PCI per girare un film fazioso, e bollò come fantasie le voci che parlavano di un accordo politico per assegnarli il premio. A dicembre si sarebbe formato il primo governo organico di centro sinistra guidato da Aldo Moro, con la partecipazione di ministri socialisti. A luglio dell’anno successivo, quando la formula di centro sinistra cominciò a rivelare le sue insanabili contraddizioni ed entrò in crisi, le classi dirigenti italiane e la destra conservatrice maturarono la convinzione che alle spinte impetuose delle masse popolari, alla grande volontà di cambiamento manifestata dalle lotte operaie del ’62 e dal voto dell’ aprile ’63 si dovesse rispondere con una strategia di continuo attacco alle basi della democrazia repubblicana, strategia di cui il famoso “Piano Solo” fu il primo atto.

*Segretario della Federazione provinciale napoletana del PCdI

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