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(25 Aprile 2012) Enzo Apicella

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25 APRILE 2015: PER IL SETTANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE

(20 Aprile 2015)

Questo è un intervento con intenti di parte attraverso il quale si cercherà di stare proprio dalla parte dei partigiani che, il 25 aprile 1945, compirono l’opera della Liberazione.
Un intervento che rifiuta il banale neo-revisionismo del qualunquismo “temperato” del Casaleggio della recente intervista dell’“amor di patria senza ideologia”.
E’ necessario riprendere per intero i termini reali che, sul piano morale e su quello politico, animarono la Resistenza Italiana soprattutto perché, ormai da tempo e proprio in questi giorni, attraverso l’attacco diretto ai principi fondativi della Costituzione Repubblicana proprio gli attuali governanti, che sabato 25 Aprile com’è loro costume si gonfieranno il petto alle celebrazioni ufficiali, dimostrano di disprezzare mutando la natura del nostro Stato da Parlamentare ad autoritario, in una forma spuria di surrettizio presidenzialismo.
Deve, quindi, essere fatta chiarezza e la si può fare soltanto stando con precisione da una certa parte della barricata, dimostrando davvero gramscianamente di “odiare gli indifferenti”.
Lo stesso richiamo unitario, che pure deve essere sviluppato in un’occasione come questa, deve essere chiarito nell’essenza del messaggio e della realtà che in effetti, settant’anni orsono, si svolse.
Per aver l’unità, nel corso dei grandi frangenti storici, non è sufficiente che i dirigenti politici di determinati gruppi o partiti si mettano d’accordo tra di loro.
Questo non basta.
Alle volte, anzi, questo avviene ma il movimento non va avanti e non vince perché manca quella forte spinta, sorta dal basso, che è l’anima vera di ogni movimento unitario e che fu l’anima vera del movimento della Liberazione.
Una simile spinta, fatta di volontà e di passione, fu in Italia , come in tante altre parti d’Europa, tra il 1943 e il 1945.
Si delineò nell’animo del popolo un ideale: balenò nella mente della grande maggioranza un obiettivo che doveva essere raggiunto ad ogni costo, maturò la decisione, sempre più valida e generale, di unirsi per ottenere lo scopo.
Gli operai in numero sempre più grande, i contadini, le popolazioni inermi della città appoggiarono coloro che combattevano; la parte migliore dell’apparato dello Stato si schierò dalla parte dei combattenti, la parte sana della classe dirigente non poté resistere a questa spinta, che fu la realtà vera nella vita della nazione.
Celebrare la Resistenza oggi, vuol dire rifarsi ancora una volta a questa realtà, vuol dire non dimenticare da cosa la Resistenza è sorta, che cosa è stata la lotta e come si è giunti alla vittoria del 25 Aprile.
Oggi, forse, non tutti ricordano quali furono le condizioni di partenza, a quale grado di delusione, di smarrimento e persino di decomposizione era giunto l’animo dei cittadini italiani attraverso l’esperienza dura, umiliante, tragica della tirannide fascista.
Pochi ricordano ormai, a distanza di tanto tempo, quali fossero le condizioni del nostro paese quando quell’infame regime crollò sotto il peso dei delitti che aveva commesso.
Tra il 25 Luglio e l’8 Settembre 1943, la vecchia classe dirigente che per una parte aveva tiranneggiato il popolo, sopprimendo qualsiasi vestigia di libertà e per l’altra parte ingrassata all’ombra del regime tirannico, approfittando di tutte le prepotenze, di tutte le violenze, di tutti i delitti per rafforzare i propri privilegi ed estendere il cumulo dei propri profitti materiali, quella classe dirigente si sfasciava, era in fuga, stava scomparendo.
E il popolo, che cosa doveva fare il popolo in quelle condizioni, in cui sembrava che tutto mancasse, in cui la persona semplice, cui fosse stato posto il problema di quello che avrebbe dovuto fare non avrebbe saputo rispondere perché troppi erano i problemi insoluti o quasi impossibili da risolvere che premevano da tutte le parti?
Il miracolo della Resistenza, il fatto più grande che vi sia stato nella storia d’Italia dei tempi moderni, fu quello del passaggio dalla tirannide abbietta alla lotta per la democrazia; dall’asservimento a un imperialismo straniero come quello nazista che metteva il piede sul collo perfino ai suoi servi fascisti alla fiera rivendicazione dell’indipendenza per riconquistare dignità, pieni diritti nazionali e la pace.
La Resistenza consentì il passaggio dalla retorica tronfia e vergognosa che esaltava la guerra come sola igiene del mondo, all’umanità nuova dei nostri partigiani che combatterono e morirono sapendo proclamare di combattere e morire perché sorgesse un mondo nuovo.
Una lezione di allora che vale oggi nel bel mezzo delle drammatiche contraddizioni dentro le quali ci troviamo ad agire e che ci sono ricordate, ogni giorno, dalle tragedie dell’attualità che ci parlano nuovamente di guerre che portano alla disperazione interi popoli costretti alla fame, alla miseria, alla morte mentre cercano di fuggire dall’infamia di nuovi genocidi, nuovi terrorismi, nuove sopraffazioni a livello globale.
Torniamo però alla Resistenza, al ricordo dell’alba radiosa del 25 Aprile 1945.
Chi operò quella trasformazione?
Una classe dirigente nuova apparve in quel momento sulla scena della storia e fu la stessa classe dirigente che poi, negli anni immediatamente successivi, assicurò – non senza difficoltà – lo sviluppo democratico del Paese.
Vi erano partiti di cui, irridendo nel corso del ventennio si era detto fossero stati fatti scomparire, ridotti a qualche gruppo di poveretti che languivano nelle carceri o vegetavano sotto la sorveglianza della polizia in qualche sabbiosa isola del Tirreno, oppure ancora erravano in esilio sotto cieli stranieri.
Questi partiti irruppero con irresistibile impeto sulla scena, sostenuti dal popolo.
Operai, lavoratori, cittadini di tutte le condizioni si raccolsero nelle loro file.
Era una nuova classe dirigente che mise in primo piano coloro che fino il giorno prima erano stati perseguitati, ma soprattutto forze sociali nuove, perché i socialisti, comunisti, esponenti del Partito d’Azione, democratici cristiani, repubblicani, liberali preso il posto che a loro spettava.
Erano sostenuti dagli operai delle fabbriche di Torino, Milano, Genova, Napoli, di dieci e dieci altre città, erano appoggiati dai braccianti e dagli altri lavoratori delle campagne, dagli intellettuali.
Una classe dirigente nuova e forze sociali nuove si collocarono così, di fatto, alla testa dell’Italia.
Questo è stata la Resistenza, politicamente e al di sopra di tutto anche rispetto alle più o meno accurate rievocazioni storiche succedutesi nel corso degli anni.
Non si dimentichi mai questo momento.
Non si dimentichi mai che se questo mutamento profondo di classe dirigente non fosse avvenuto la Resistenza, forse, non ci sarebbe stata e certamente non avrebbe potuto vincere.
Attenzione però: vi possono essere svolte, strappi, momenti in cui il movimento si fa più rapido e travolgente.
Ma tutto ciò che viene alla luce è sempre stato preparato e fatto dalle donne e dagli uomini attraverso un lavoro lento, faticoso, alle volte penoso.
Anche la Resistenza così fu preparata e non ci sarebbe stata.
Una coscienza nuova si era formata e una parte grande del popolo aveva conquistato la capacità di mettersi alla testa di tutto il Paese.
La Resistenza non è stata soltanto il combattimento militare svoltosi tra il 1943 e il 1945.
Incomincia, si può dire, dal momento in cui si era preparata e poi instaurata la tirannide del fascismo: una tirannide la cui natura fu compresa da pochi, soltanto dai dirigenti più avanzati del popolo e della classe operaia: Gramsci, Gobetti, Matteotti, Turati.
Sulla base del loro insegnamento e del loro sacrificio una piccola parte della classe operaia lavorò anni e anni per definire ciò che era la dittatura fascista intesa come tirannide instaurata sul popolo nell’interesse del ceto privilegiato reazionario.
Oggi viviamo, sia pure in condizioni molto diverse, una nuova fase di attacco alla democrazia e alla condizione materiale di vita dei ceti subalterni: un attacco su vasta scala, prima di tutto sul piano internazionale ed europeo, dall’Europa dei banchieri e della ferocia capitalista.
Per questo motivo i settant’anni che ci separano dal giorno della Liberazione vanno ricordati in un modo del tutto particolare.
Legando la memoria a un’idea di trasformazione profonda dei rapporti economici, sociali, politici, nell’interesse delle forze del lavoro, nel rispetto dell’eguaglianza e della libertà di tutti i cittadini.
Il ricordo della Resistenza deve valere, ancor oggi, per stimolarci a fare di quella fase storica una fase permanente, come fondamento di una società diversa da quella, ancora basata su inaccettabili ingiustizie, nella quale stiamo vivendo.
Per questo motivo la Costituzione che è stata sul terreno della norma regolatrice dei rapporti tra il cittadino e lo Stato la più grande conquista della Resistenza e della lotta di Liberazione, non è stata applicata in tutte le sue parti e oggi neppure rispettata perché si tende a modificarla in parti essenziali.
Respingere quest’attacco è il nostro dovere primario, il dovere di chi crede ancora nei valori e nei principi fondativi che ispirarono i Padri Costituenti.
Con questi propositi va ricordata oggi la Resistenza.
Avendo sempre presente, nel momento in cui ci accingiamo a questo compito, ciò che disse Sandro Pertini nel comizio di Piazza del Vittoria il 30 giugno 1960, quando si trattò di respingere il ritorno dei fascisti al governo del Paese: accanto a noi, in questo momento, accanto alle nostre bandiere ci sono i martiri della Benedicta, del Turchino, di Cravasco, di Sant’Anna di Stazzema, di Marzabotto e delle tante altre stragi che i nazifascisti compirono in quei mesi nel corso dei quali la tenacia e l’intelligenza del popolo alla fine prevalse e sorse un avvenire migliore per tante generazioni.

Franco Astengo

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