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Buona notte, Italia

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(11 Giugno 2010) Enzo Apicella
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    PRIMA DI CAMBIARE CI SAREBBE DA CAPIRE

    (4 Maggio 2015)

    L’atteggiamento è ormai passato dall’arrogante all’aggressivo mentre il Presidente del Consiglio recita quello che è stato ormai definito il suo mantra: “ Siamo qui per cambiare l’Italia”.

    Un recitativo ripetitivamente ossessivo legato non certo a una visione del mondo ma, più semplicemente, a una legge elettorale il cui scopo è quello di soddisfare soltanto la bramosia di potere di un piccolo gruppo, sostenuto per convenienza da chi il dominio reale sulle cose concrete già lo detiene per padronanza del denaro e della possibilità di far credere agli altri ciò che appare e non è, esaltando l’apparire in luogo dell’essere.

    Ciò che sorprende (anche se non troppo, ma forse dimostrare ancora un poco di senso dell’ingenuità non è alla fine un brutto segnale) è come sempre meno ci si interroghi su ciò che c’è da capire nella realtà del pensiero, della cultura, della politica, della società in questo mondo, per certi versi mutato vertiginosamente nel corso degli ultimi anni ma in fondo rimasto eguale al passato.

    C’è da capire, prima di tutto, perché le distanze tra i ceti sociali, quelle distanze che sarebbe ancora corretto definire di “classe”, non solo sono rimaste inalterate ma anzi si sono accentuate sia all’interno delle stesse aree che furono di sviluppo economico e, ancora, tra le diverse zone del Pianeta.

    Accanto alle distanze sociali hanno ripreso vigore i ritmi assurdi della guerra, le cui realtà massacranti si spostano da un quadrante all’altro generando nuova barbarie in nome di antichi pregiudizi: di razza, di lingua, addirittura di religione. Il tutto in apparenza, perché la sostanza delle ragioni della guerra rimane quella della sopraffazione fine a se stessa.

    Ci sarebbe da capire perché tutte le soluzioni politiche offerte dai potenti della terra si risolvano in una sorta di arretramento epocale: pensiamo alla provocazione offerta dalle migrazioni che avvengono sulla spinta della fame; il ritorno alle mai abbandonate discriminazioni di razza, di genere, di territorio.

    Il quadro offerto dal pensiero espresso da quelli che appaiono essere i livelli culturali più in vista, più in alto, offerti dalla stragrande maggioranza dei facitori dell’industria culturale è davvero di mediocre profilo: ritornato categorie come quelle della speranza (una categoria usata a piene mani) che non dovrebbero più avere spazio perché la ricerca del futuro dovrebbe essere frutto della lotta per l’eguaglianza, di nuovi equilibri tra le classi, di idee di rispetto tra il genere umano e il territorio.

    Siamo partiti dal piccolo caso di questa Italia che rischia di tornare indietro dai livelli di civiltà e di democrazia (civiltà e democrazia complicate, contradditorie, non facili beninteso) che ci erano stati consegnati dalle generazioni precedenti dopo decenni di spaventosi sacrifici, per cercare di affacciarci su di una prospettiva più ampia, quella che la politica un tempo non poteva fare a meno di ricercare.

    Rapporti collettivi sulla base dell’analisi di classe, rischi di conflitto globale, concreto atteggiamento delle grandi masse rispetto alle istituzioni, ruolo dello Stato erano questi i grandi temi che l’agire politico tentava di proporre nell’idea di una trasformazione degli equilibri presenti.

    Una trasformazione che si voleva più o meno radicale: ed era questo, della radicalità, della qualità del cambiamento il vero terreno di confronto dopo aver attraversato la notte buia degli orrori del totalitarismo, nella fase suprema del capitalismo imperialista.

    Quanta miseria culturale e morale c’è invece oggi in chi pensa di cambiare senza capire e, pensa, per questo di voler affermare la propria vanità gonfia di intolleranza e di disprezzo.

    Accade in Italia, purtroppo, come in altre parti del mondo, e nessuno sembra volerlo capire adagiati come siamo nell’individualità di un consumismo senza principi e nell’assenza di una riflessione collettiva.

    Franco Astengo

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