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    Il coraggioso sciopero dei braccianti messicani

    (27 Maggio 2015)

    coraggiosanquintin

    Il Messico è il terzo paese più popoloso del continente Americano, con 117 milioni di abitanti, il secondo dell’America Latina, dopo il Brasile. La sua importanza economica e industriale è notevole, strettamente legata agli Stati Uniti d’America. Dopo l’accordo economico del Nafta (Accordo per il libero commercio in Nord America), del 1994, molte industrie statunitensi si sono trasferite in Messico. E moltissimi sono i messicani emigrati negli USA. Il rafforzamento della lotta proletaria in uno dei due paesi non può che riflettersi nell’altro.

    La concorrenza ha sempre spinto i capitalisti a guerre commerciali per accaparrarsi posizioni di mercato e una leva utilizzata a questo scopo è la compressione dei salari. La cosiddetta “delocalizzazione” ha principalmente questo obiettivo. Succede così che nella regione messicana della Bassa California, a neanche 200 chilometri dal confine con gli Stati Uniti, si trovi una fiorente produzione ortofrutticola (fragole, more, pomodori) destinata a varcar la frontiera con i marchi di grandi gruppi agroalimentari che hanno sede nella parte della California appartenente agli Stati Uniti. Queste aziende producevano negli Stati Uniti, sfruttando emigranti messicani, spesso clandestini. Ma oltre frontiera i salari sono ancora più bassi e così da alcuni anni hanno trasferito colà la produzione.
    I salariati agricoli, lo sappiamo bene anche in Italia, ricordiamo la grande rivolta di Rosarno nel gennaio 2010, sono una delle parti più sfruttate della classe operaia. Nella Bassa California i braccianti, in prevalenza immigrati interni provenienti dalla regione di Oaxaca e di Guerrero, vivono – come quelli di Rosarno e di molte altre parti del mondo – in baracche, senza acqua corrente, e percepiscono un salario di circa 8 dollari per una giornata lavorativa di 9 ore.

    Esasperati, a San Quintin, il 17 marzo scorso, sono scesi in sciopero, bloccando la strada transpeninsulare che collega le principali città della regione – Tijuana, Ensenada, La Paz e Los Cabos – occupando alcuni edifici governativi e un commissariato. Le rivendicazioni vanno da un aumento del salario del 50%, da 200 a 300 pesos giornalieri, circa 19 dollari, all’assistenza sanitaria, agli scatti di anzianità, alla richiesta che nessun lavoratore in lotta sia oggetto di future ritorsioni.

    Il giorno stesso il governatore della Bassa California si è incontrato con gli impresari a Tijuana e ha poi sorvolato la regione in elicottero. Atterrato al sicuro nella caserma del 67° battaglione di fanteria, in conferenza pubblica ha detto che se a San Quintin vivono così tanti abitanti è perché evidentemente è un terra “piena di opportunità”. Per i capitalisti certamente è così, visto il grado di sfruttamento dei lavoratori.

    Per porre fine alla rivolta e spezzare lo sciopero il governo ha quindi inviato un corpo repressivo di circa 1.200 uomini fra agenti federali, polizia statale e municipale, esercito. Cariche, lacrimogeni, proiettili di gomma, assalti alle famiglie operaie nelle case hanno condotto a circa 200 arresti, 25 dei quali di minorenni, ma non hanno fermato lo sciopero che è proseguito ad oltranza, condotto da 30.000 braccianti su un totale di circa 80.000.

    Per resistere più a lungo gli scioperanti si sono organizzati con mense collettive. Vi è da considerare che la categoria è in maggioranza avventizia: si lavora a chiamata giornaliera, col sistema del caporalato. In queste condizioni, l’organizzazione e l’adesione allo sciopero di circa il 35% di questi operai è un notevole risultato. Lo conferma il fatto che dopo 10 giorni i padroni denunciavano una danneggiamento al 45% del raccolto e al quindicesimo giorno di sciopero offrivano un aumento salariare del 15%, rigettato dai lavoratori. Al 7 aprile, dopo 21 giorni, il fronte di sciopero restava compatto, con una adesione del 30% dei braccianti, poco meno dei 30.000 iniziali. Il 16 aprile gli scioperanti erano scesi a 10.000 ma resistevano determinati.

    Il 24 aprile, giorno in cui era previsto un incontro fra rappresentanti del governo e dei lavoratori, fin dalla mattina i braccianti hanno interrotto la strada con picchetti, impedendo il passaggio dei pullman, e bloccando completamente la produzione. Si è quindi svolto un corteo di oltre 7.000 lavoratori, il terzo dall’inizio dello sciopero. Al termine dell’incontro il rappresentante dei lavoratori ha definito “unilaterali” le proposte del governo e ha dichiarato la prosecuzione dello sciopero.

    Per i braccianti, come per tutti i lavoratori, vale la legge per cui gli scioperi, più sono isolati dal resto della classe, più sono facili da sconfiggere per il padronato. Il proletariato agricolo di San Quintin dovrebbe cercare e ricevere il sostegno, non simbolico ma materiale, con lo sciopero, delle altre categorie. Deve unirsi agli altri lavoratori in lotta nel paese, come gli insegnanti, che stanno conducendo una dura battaglia per miglioramenti salariali e contro la ristrutturazione della scuola, con aspri scontri con le forze dell’ordine, costati anche la vita ad uno di loro nell’ultimo sciopero.

    A questa unione della classe lavoratrice è di ostacolo l’organizzazione dei braccianti non come proletari, cioè salariati, ma come contadini (campesinos), cioè unitamente ai piccoli proprietari, ma separatamente dai lavoratori delle metropoli, ponendo prevalentemente l’accento sulle loro origini indigene. Questa forma organizzativa interclassista è tipica in tutta l’America Latina. Il governo non a caso cerca di ridurre la rivolta di San Quintin a una questione locale, indigena e contadina, per scongiurare l’unità della classe operaia.

    I lavoratori devono organizzarsi al di sopra delle divisioni aziendali, di categoria, nazionali ed etniche, perché i loro obiettivi sono gli stessi: difesa del salario e delle condizioni di lavoro (ritmi, orario, ambiente di lavoro). Il movimento operaio accetta il sostegno alla sua lotta da parte degli strati sociali di lavoratori non proletari, come ad esempio i contadini poveri, ma si organizza da questi separatamente e non nulla fa proprio del loro programma sociale: se vogliono ottenere il sostegno dei lavoratori devono mettersi al seguito delle loro organizzazioni di lotta e del loro partito.

    * * *

    Mentre ci apprestiamo a mandare in stampa il giornale, giunge notizia che la polizia messicana, all’alba di sabato 9 maggio ha attaccato a San Quintin i lavoratori che, ancora in sciopero, il giorno prima erano tornati a bloccare la strada transpeninsulare, in reazione alla rottura delle trattative. Gli operai non si sono sottratti allo scontro, affrontando le forze dell’ordine che hanno aperto il fuoco uccidendo due, forse tre di loro. Una settantina sono stati i feriti. Il sangue di questi lavoratori ancora una volta mostra che la democrazia è la maschera della dittatura del Capitale. Noi non ci scandilizziamo del fatto che lo Stato borghese faccia il suo sporco mestiere. È quello che ci attendiamo e che i fatti confermano.
    Denunciamo da un lato l’opportunismo politico, il quale insegna ai lavoratori che sarebbe la democrazia a difenderli, quando al contrario, nel momento in cui gli operai lottano davvero, è proprio col regime democratico che vanno allo scontro. A quel punto l’opportunismo torna a parlare di fascismo, di crisi della democrazia, di deriva fascista. Questo è un ottimo alibi per il capitalismo: lo sfruttamento e l’oppressione della classe lavoratrice non sarebbe mai colpa di questo modo di roduzione e del suo regime politico, ma di una sua deviazione, del fascismo! Non si vuole capire, o ammettere, che fascismo e democrazia sono due metodi di governo del regime borghese, complementari.
    Dall’altro lato denunciamo l’opportunismo che dirige in tutto il mondo le principali organizzazioni sindacali. In Messico, in un mese e mezzo di sciopero, le principali federazioni sindacali hanno lasciato isolati i braccianti di San Quintin, senza organizzare alcuna lotta di solidarietà del resto della classe lavoratice, nemmeno limitatamente alle campagne. Così agisce l’opportunismo di fronte alle lotte determinate di parti della classe operaia: finge di sostenerle, restando a guardare, isolandole, aspettando che esauriscano le forze di fronte a un nemico – la classe borghese – più forte perché organizzato e centralizzato, anche e soprattutto grazie al suo Stato. Così, ad esempio, è successo recentemente in Italia, con lo sciopero di 35 giorni alle acciaierie di Terni.

    PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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