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Asili Nido: l'esperienza di un'educatrice "di lungo corso"

(12 Giugno 2015)

Per capire le trasformazioni che stanno caratterizzando un settore importante e delicato quale quello degli Asili Nido, è necessario tornare indietro con lo sguardo. Ci aiuta a farlo Annamaria Giordano, educatrice della capitale che lavora nel settore dal 1977, svolgendo una prima ma breve intensa esperienza in un Nido aziendale, per poi lavorare stabilmente in una di quelle strutture comunali che vengono istituite con la l. 1044 del 1971, che ne prevedeva la costruzione e la gestione di almeno 3800 nel quinquennio 1972-1976. Un obiettivo non totalmente raggiunto, anche perché in alcune aree periferiche del paese (concentrate soprattutto nel meridione) l'avvento di queste strutture rimane un miraggio ancora per un po' di tempo. A Roma, però, quella che è in gran parte una conquista del movimento delle donne, trova modo di concretizzarsi in tempi relativamente rapidi. Nella testimonianza che abbiamo trascritto, Annamaria, sulla base della propria esperienza, ci spiega i limiti iniziali degli Asili Nido, le battaglie fatte dalle educatrici per trasformarli e quanto alcune delle tendenze attuali possano distruggere un servizio essenziale per la prima infanzia. In particolare, secondo la nostra interlocutrice la parola "privatizzazione", nel verbo corrente caricata di valenze positive, fa invece rima con "disumanizzazione".

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A Roma, gli Asili Nido comunali vengono aperti al principio degli anni '70, in seguito ad imponenti mobilitazioni delle donne lavoratrici. La spinta all'emancipazione femminile che si registra a partire dalla fine della decade precedente, con rivendicazioni e lotte in ogni specifico ambito della società, ha dato un forte impulso alla genesi e allo sviluppo del servizio, essenzialmente rivendicato come un diritto delle lavoratrici-madri. Nodi che attualmente ci sembrano centrali, come il “discorso educativo” e la “centralità del bambino” assumeranno importanza nel dibattito solo in un periodo successivo. Io, in fondo, posso dire di essere stata testimone e partecipe della fase di transizione dalla prima sperimentazione del servizio alla consapevolezza dei suoi limiti ed alla conseguente spinta a trasformarlo. La mia esperienza professionale vede la sua tappa iniziale negli anni che vanno dal 1977 al 1979, quando prestai servizio presso il Nido della Banca d’Italia, gestito dal Centro nascita Montessori (del resto, avevo studiato presso una scuola Montessoriana). Svolgevo il mio lavoro sia nella sede centrale, in Via Panisperna, sia presso lo Stabilimento del Servizio Banconote, in Via Tuscolana. La Direttrice era Maria Pia Fini, in seguito membro del Comitato scientifico della rivista Bambini, un personaggio di spicco degli studi sull'educazione in Italia: anzitutto alla sua impostazione pedagogica si deve il fatto che il Nido era considerato, in quegli anni, un 'eccellenza nel settore. In effetti, il rapporto educatrici-bimbi era 1-4 per i più piccoli, 1-6 per i più grandi ed il trattamento a noi riservato era davvero eccellente. Per fare un esempio, a pranzo, la cuoca della struttura ci invitava persino a scegliere il menu. Mi trovavo talmente bene, che ebbi presto l’impressione di vivere in una sorta di “bolla sociale” o, comunque, in una situazione privilegiata. Certo, non lavoravamo poco: il nostro orario era prolungato fino a dopo pranzo, ed eravamo attive anche nel mese di luglio. Però, le condizioni erano ottimali, così come ben curati erano il lato educativo e tutti gli aspetti organizzativi del Nido, che prevedeva anche la presenza di un'economa; tale situazione rifletteva il buon trattamento di cui, all’epoca, godevano i bancari. Il mio titolo di studio era il diploma quinquennale di Assistente di Comunità infantile (oggi Educatrice professionale), che rinviava non solo ad una preparazione teorica di alto livello, ma anche e soprattutto ad una lunga esperienza di tirocini presso strutture come il Reparto Maternità al San Camillo o gli Orfanotrofi; realtà che, a frequentarle, lasciano il segno: si tenga presente che, all’epoca in cui feci quelle esperienze, avevo 17 anni.

Nel 1979, dopo due anni di servizio presso il Nido aziendale di Bankitalia, mi arriva la lettera del Comune: avevo vinto il Concorso per lavorare nei Nidi comunali. La scelta fu difficile, considerato quanto mi trovavo bene, ma, allo stesso tempo, fatta con la massima convinzione: ritenevo prioritario lavorare in una realtà “non privilegiata”. Il primo incarico fu in Via delle Galline bianche, a Prima porta, ossia in una zona assai distante dalla mia abitazione: non avendo la macchina, non ebbi neanche la possibilità di iniziare, ed ottenni la possibilità di prestare servizio nel Nido dell’ex ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia)1, in Via dei Lincei, nel quartiere Tor Marancia, dove lavoro tuttora. Qui ho trovato una situazione decisamente “estrema”, cui non ero preparata: una struttura sviluppata su tre piani dello stesso edificio, con 80 bambini e un rapporto tra piccoli utenti e operatrici di circa 10 a 1. Le operatrici, peraltro, erano ex puericultrici o ex operaie avviate a tale professione previo un breve corso e perlopiù ritenevano che dar da mangiare e tener puliti i bimbi fossero i compiti essenziali, non avendo una preparazione pedagogica. Va detto, tuttavia, che a fronte dell'aperta ostilità manifestata da molte di loro verso le mie motivazioni ed i mie progetti, alcune vecchie operatrici mi appoggiavano nella volontà di cambiare le cose. Per fortuna, nel giro di poco tempo vennero assunte altre giovani colleghe, in molti casi laureate in psicologia. Dall’incontro con queste ultime, nacque un gruppo eccezionale, in principio fortemente osteggiato da alcune “vecchie” colleghe e dalla coordinatrice, la quale arrivò a separarci. Per far capire meglio la situazione, vorrei ricordare un episodio: nella sezione dei più“piccoli” (da tre mesi a un anno) c’era una bimba la quale, alla presenza di una delle Assistenti, scoppiava in lacrime, disperata. Scoprii presto la ragione: questa la forzava a mangiare, con modi decisamente rudi. Ma col tempo, noi “nuove”, iniziammo a “rovesciare il Sistema”. In una calda estate, scrivemmo una relazione di 40 pagine, descrivendo le dinamiche che si svolgevano in quella struttura. Di lì a poco, gli atteggiamenti violenti e l'idea che i bambini andassero semplicemente “contenuti” divennero solo un brutto ricordo. Ad inizio anni ’80 (all’epoca ero diventata io la Coordinatrice) rifiutammo di continuare a lavorare in una struttura su tre piani: fu un atto di disobbedienza, “da oggi si lavora su un piano e si riduce il numero degli utenti”, ci dicemmo. Certo, all’epoca, i Presidenti dei Comitati di gestione di queste strutture erano dei Politici, ma dovevano tener conto di una più diffusa sensibilità rispetto a quegli aspetti educativi che, nella prima fase di esistenza dei nidi, furono trascurati. Così, non solo il rapporto educatrici-bimbi scese dall'iniziale 10 a 1 a quel 6 a 1 che si è tuttora mantenuto, ma mutò ogni aspetto gestionale ed organizzativo della struttura.
Del resto, alcune trasformazioni sono intervenute anche fuori: rispetto alla composizione sociale delle famiglie che al nostro Nido fanno riferimento, si deve segnalare che, se all’inizio tra i genitori vi erano molti operai, che ci portavano i figli alle 7 del mattino, con il tempo ha finito col prevalere un dato più interclassista, in linea con la nuova fisionomia assunta da Tor Marancia e dagli altri quartieri popolari “storici”.
Nel complessivo miglioramento del servizio, vi sono ulteriori passaggi che vanno segnalati: ad esempio, nel 1997-98 fu introdotta la chiusura nel mese di luglio, e venne istituita la figura della Supplente ad personam, grazie all’interessamento di un'Assessora del Municipio molto sensibile alle nostre ragioni.
Ulteriori progressi si sono avuti sotto la Giunta Veltroni (2001-2008), che si è distinta per una una certa attenzione alla qualità del servizio e per la promozione di una valida attività formativa; in quella fase il nostro Nido, in conseguenza degli esiti delle mobilitazioni pregresse e dell'attenzione da parte delle Istituzioni, si è rivelato una Eccellenza.
Però, quella esperienza di gestione della città non è stata esente da ombre: è nel corso di essa che ho avuto piena consapevolezza delle esternalizzazioni del servizio e dei convenzionamenti con soggetti esterni, con tutte le spiacevoli conseguenze annesse. Ricordo come fosse imbarazzante e doloroso sapere che colleghe con le quali facevamo formazione insieme, fossero pagate la metà per lavorare molte più ore. Io tra l'altro escludo che il privato, convenzionato o meno, possa garantire un servizio qualitativamente paragonabile a quello offerto dal pubblico. Il, dunque, non consiste solo nelle condizioni economico-normative delle educatrici, che nelle strutture private non possono seriamente difendersi dai datori di lavoro. Il punto è che il livello di esperienza e di formazione che possiamo vantare nel servizio pubblico il privato non sarà mai in grado di garantirlo. Occorre precisare, però, che le cose stanno rapidamente degenerando: con l’avvento dei funzionari (Coordinatori educativi esterni, vincitori di concorso comunale) è stata cancellata la figura della coordinatrice eletta dalle educatrici. Si è passati da un modello di organizzazione circolare – che io rivendico- ad uno verticale e burocratico. Nice Terzi, grande figura di psicopedagogista e Dirigente del Dipartimento scuola ed educazione tra il 2000 e il 2002, in un suo studio aveva teorizzato l'istituzione della figura del coordinatore “facilitatore”, capace di farsi carico tanto degli aspetti burocratici, quanto di quelli relazionali, così da evitare attriti e malsane forme di competizione tra le educatrici. Tale modello di coordinamento esterno, però, è andato incontro ad un fenomeno di degenerazione progressiva. Sarebbe necessario analizzare lucidamente tutte le ricadute dell'azione che tali figure svolgono, ma i coordinatori, con alcune eccezioni, si oppongono: sono diventati il “braccio armato” dell’amministrazione e vengono premiati economicamente nel caso in cui le educatrici realizzino determinati progetti educativi. Il che li motiva a rafforzare la propria posizione amministrativa più che a fare il bene dei Nidi.

D’altra parte, il vero nodo non è il conflitto tra “noi” e “loro”, perché stiamo parlando di un problema più ampio e di natura sociale. Se la scuola viene vista esclusivamente come un costo, si fa il male del bambino, il quale non può passare 8-9 ore al giorno in un Nido, senza che il suo delicato equilibrio ne risenta. Per non dire di novità che la stampa presenta come positive e che invece possono avere conseguenze devastanti. E' di fine marzo la notizia dell’apertura, nell'area nord ovest di Roma, del primo Nido notturno, gestito da privati che hanno però vinto un Bando regionale. In verità si tratterà d'un luogo dove i genitori potranno “parcheggiare”, anche solo per concedersi una serata di svago, i propri figli. Ora, presso gli amministratori, come tra alcune famiglie, questa cosa allucinante sta passando come “normale”: una testimonianza di quanto, nel nostro settore, si stia delineando un vero e proprio fenomeno di disumanizzazione.

1 Ente parastatale istituito dal regime fascista nel 1925, finalizzato all'assistenza sociale della maternità e dell'infanzia. Segnato da un'impronta culturale fortemente patriarcale, viene ufficialmente soppresso il 31 dicembre 1975: poiché le sue funzioni, nel frattempo, sono state assegnate alle Regioni, nate nel 1970, nel quadro di un generale riordino del parastato, se ne decreta la fine, contemporanea a quella di altri Enti inutili (ndr).

A cura de Il Pane e le rose - Collettivo redazionale di Roma

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