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L’ATTUALITA’ SPIEGATA... CENTO ANNI FA

(15 Giugno 2015)

L’articolo di Lenin che qui di seguito riportiamo data esattamente a cent’anni fa. Ciò che di esso colpisce particolarmente noi “passatisti” è la sua bruciante attualità in quanto il bersaglio di esso sono esattamente delle posizioni ricorrenti oggi in certi ambienti di “compagni” (Lenin non esita a definirli socialsciovinisti).

La difesa degli interessi “nazionali” propugnata dai “socialsciovinisti” in questione, che Lenin marca fuoco, si ammantava allora e si ammanta oggi di argomenti apparentemente socialisti, ed anzi addirittura marxisti. Non era stato, infatti, lo stesso Marx a solidarizzare attivamente col nostro Risorgimento? Sì, spiega Lenin: quando all’ordine del giorno era la questione delle “guerre di liberazione nazionale”; non oggi allorché l’Italia “democratica e rivoluzionaria” (borghese, appoggiata sulle proprie posizioni dal proletariato) si è trasformata “definitivamente” (alla faccia dei secondi e terzi presunti risorgimenti togliattiani o contropoteristi) in “una borghesia brutale, sudicia, reazionaria in modo rivoltante”.

Questa borghesia soffre dell’“oppressione”, cioè della concorrenza ad armi impari, di altri paesi capitalisti ed “il paese” tutto insieme non ne soffre? Non è interesse di “tutti” liberarsene? (Da notare la “novità” delle recriminazioni antitedesche!). “Da un punto di vista borghese – scrive Lenin –, questo modo di ragionare è ineccepibile. (..) La concorrenza tra i diversi paesi pone il problema solo così: rimanere al nono posto e correre il rischio di far la fine del Belgio o rovinare e sottomettere gli altri paesi, e conquistarsi un posto da grande potenza” visto che “politica coloniale e imperialismo non sono affatto deviazioni morbose e guaribili del capitalismo (..) ma sono le conseguenze dei principi stessi del capitalismo”.

Il socialsciovinista Arturo Labriola, approdato infine al PCI, asseriva che “noi lottiamo non solo contro i turchi, ma anche contro le minacce, il denaro egli eserciti dell’Europa plutocratica” (leggi oggi: l’Europa di Bruxelles, della Merkel). Molto più coerentemente il capo dei nazionalisti italiani, contropoterista ante litteram, scrive: “Come il socialismo fu il metodo di redenzione del proletariato dalle classe borghesi, così il nazionalismo sarà per noi italiani (tutti parimenti redenti, n.n.) il metodo di redenzione dai tedeschi, dai francesi, dagli americani del Nord e del Sud che sono i nostri borghesi”. Da qui la nozione di “paese proletario” da redimere ulteriormente. E ad innalzare questa bandiera e battersi per essa fu non a caso Mussolini (con un bel codazzo di transfughi dal socialismo).

Oggi si parla, allo stesso modo, dei Brics e della loro lotta contro l’Europa plutocratica. E ieri come oggi questa posizione reazionaria poteva ammantarsi di richiami (falsamente) socialisti, o persino internazionalisti, come risulta dal testo di un certo Barboni qui preso in esame da Lenin il quale ipotizza “un programma di pace sulla base del disarmo e dell’indipendenza nazionale di tutte le nazioni nonché la costituzione di “tutte le nazioni in Lega per la reciproca garanzia dell’integrità e dell’indipendenza” (traduci: l’Europa alternativa cui guardano come obiettivo certi “compagni” neowilsoniani).

Restiamo quindi al dilemma di cent’anni fa: o “la classe rivoluzionaria d’Europa deve pensare al modo di diventare il più rapidamente possibile serva della sua borghesia nazionale” o “riflettere al modo di svolgere immediatamente una propaganda rivoluzionaria e d’iniziare la preparazione di azioni rivoluzionarie”. Per quanto questa seconda via appaia oggi lontana dal presentarsi come attualità vicina noi stiamo su questa trincea.

Si accomodino tutti gli altri che si rifiutano di chiudersi “entro il guscio di tartaruga” del... passivismo comunista sul terreno del socialsciovinismo, ma abbiano almeno il coraggio di dichiarare dove si vuole andare a parare.

10 giugno 2015


Lenin
IMPERIALISMO E SOCIALISMO IN ITALIA
(Nota)



Per chiarire le questioni che l’attuale guerra imperialistica ha posto davanti al socialismo, non è inutile gettare uno sguardo sui diversi paesi europei e imparare a distinguere le varietà nazionali e i particolari del quadro complessivo, da ciò che è fondamentale ed essenziale. Si dice che, stando in disparte, si giudica meglio. Perciò, quanto meno l’Italia rassomiglia alla Russia, tanto più interessante è paragonare, da un certo punto di vista, l’imperialismo e il socialismo nei due paesi.

In questa nota ci proponiamo di esaminare soltanto il materiale che offrono sulla questione i libri pubblicati dopo l’inizio della guerra dal professore borghese Roberto Michels: L’imperialismo italiano e dal socialista T. Barboni, Internazionalismo o nazionalismo di classe? (Il proletariato d’Italia e la guerra europea). (*)

Il chiacchierone Michels, superficiale in questa come nelle altre sue opere, sfiora appena il lato economico dell’imperialismo, ma nel suo libro è raccolto un materiale pregevole sulle origini dell’imperialismo italiano e sul passaggio che costituisce l’essenza dell’epoca contemporanea e che, in Italia, ha un particolare risalto, il passaggio cioè dall’epoca delle guerre di liberazione nazionale all’epoca delle guerre di rapina imperialistiche e reazionarie. L’Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l’Italia della rivoluzione borghese che si liberava dal giogo austriaco, l’Italia del tempo di Garibaldi, si trasforma definitivamente davanti ai nostri occhi nell’Italia che opprime altri popoli, che depreda la Turchia e l’Austria, nell’Italia di una borghesia brutale, sudicia, reazionaria in modo rivoltante, che all’idea di esser ammessa alla spartizione del bottino, si sente venire l’acquolina in bocca. Michels, come ogni altro professore che si rispetti, considera, naturalmente, il suo servilismo di fronte alla borghesia come obbiettività scientifica e chiama questa spartizione del bottino una spartizione di quella parte del mondo che era rimasta nelle mani dei popoli deboli (p. 179). Egli respinge sdegnosamente come utopistico il punto di vista di quei socialisti che avversano ogni politica coloniale e ripete gli argomenti di coloro i quali ritengono che l’Italia, per densità di popolazione e intensità di emigrazione, dovrebbe essere la seconda potenza coloniale, lasciando il primo posto solo all’Inghilterra. In Italia il 40 per cento della popolazione è analfabeta, ancora oggi vi scoppiano delle rivolte a causa del colera, ecc. ecc., ma si respingono questi argomenti citando l’esempio dell’Inghilterra: non era l’Inghilterra il paese della povertà incredibile, dell’abiezione, della morte in massa degli operai per la fame, per l’alcoolismo, per la miseria e il sudiciume mostruosi nei quartieri poveri delle città, non era questa l’Inghilterra della prima metà del secolo XIX, allorché la borghesia inglese gettava con tanto successo le fondamenta della sua attuale potenza coloniale?

E si deve riconoscere che, da un punto di vista borghese, questo modo di ragionare è ineccepibile. Politica coloniale e imperialismo non sono affatto deviazioni morbose e guaribili del capitalismo (come pensano i filistei, Kautsky compreso), ma sono le conseguenze inevitabili dei princìpi stessi del capitalismo. La concorrenza tra le singole imprese pone il problema solo in questo modo: colare a picco o far colare a picco gli altri; la concorrenza tra i diversi paesi pone il problema solo così: rimanere all’ultimo posto e correre il rischio di far la fine del Belgio, oppure rovinare e sottomettere gli altri paesi, e conquistarsi un posticino tra le «grandi» potenze.

L’imperialismo italiano è stato chiamato «l’imperialismo della povera gente» in considerazione della povertà dell’Italia e della disperata miseria delle masse degli emigrati italiani.

Lo sciovinista italiano Arturo Labriola, che si distingue dal suo avversario G. Plekhanov solo perché ha rivelato un po’ prima il suo socialsciovinismo e perché è giunto a questo socialsciovinismo attraverso il semianarchismo piccolo-borghese e non attraverso l’opportunismo piccolo-borghese, questo Arturo Labriola scriveva nel suo libro sulla guerra di Tripoli (1912):

«...È chiaro che noi non lottiamo soltanto contro i turchi... ma anche contro gli intrighi, le minacce, il denaro e gli eserciti dell’Europa plutocratica, la quale non può tollerare che le piccole nazioni osino fare anche un solo atto o dire una parola che comprometta la sua ferrea "egemonia"» (p. 22). E il capo dei nazionalisti italiani, Corradini, dichiarava: «Come il socialismo, così il nazionalismo sarà per noi italiani il metodo di redenzione dai francesi, dai tedeschi, dagli inglesi, dagli americani del Nord e del Sud che sono i nostri borghesi».

Ogni paese che ha più colonie, più capitali, più soldati di «noi», «ci» priva di alcuni privilegi, di un certo profitto o sopraprofitto. Come tra i singoli capitalisti, chi ha macchine migliori della media, o ha una qualche posizione di monopolio ottiene un sopraprofitto, così anche tra i diversi paesi ottiene un sopraprofitto quello che è economicamente meglio situato degli altri. È affare della borghesia lottare per i privilegi e i vantaggi del suo capitale nazionale e trarre in inganno il popolo o il basso popolo (con l’aiuto dei Labriola e dei Plekhanov) facendo apparire la lotta imperialista per il «diritto» di depredare gli altri come una guerra di liberazione nazionale.

Fino alla guerra di Tripoli, l’Italia non aveva depredato altri popoli, o, almeno, non in grande misura. Non è questo un affronto insopportabile per l’orgoglio nazionale? Gli italiani sono oppressi e umiliati di fronte alle altre nazioni.

L’emigrazione italiana ammontava a circa 100.000 persone all’anno verso il 1870, e giunge ora a una cifra che varia da mezzo milione a un milione: e son tutti miserabili che la fame, nel senso letterale della parola, caccia dal loro paese, fornitori di forza-lavoro per le industrie che dànno i salari peggiori, una massa che popola i quartieri più affollati, poveri e sudici delle città d’America e d’Europa. Il numero degli italiani che vivono all’estero è salito da un milione nel 1881 a cinque milioni e mezzo nel 1910, di cui la più gran parte spetta a paesi «grandi» e ricchi, nei quali gli italiani costituiscono la massa operaia più rozza, più «greggia», più misera e del tutto priva di diritti. I principali paesi che impiegano la poco costosa mano d’opera italiana sono: Francia, 400.000 italiani nel 1910 (240.000 nel 1881); Svizzera, 135.000 (41.000); Austria 80.000 (40.000); Germania, 180.000 (7.000); Stati Uniti, 1.779.000 (170.000); Brasile, 1.500.000 (82.000); Argentina, 1.000.000 (254.000).

La «brillante» Francia, che 125 anni fa lottava per la libertà e perciò chiama «guerra di liberazione» la sua guerra attuale per lo schiavistico «diritto alle colonie» suo e dell’Inghilterra, la Francia mantiene addirittura in ghetti separati centinaia di migliaia di lavoratori italiani, e la canaglia piccolo-borghese della «grande» nazione si sforza di tenersene lontana il più possibile e cerca di umiliarli e offenderli in ogni modo. Gli italiani vengono chiamati sprezzantemente «macaroni» (il lettore della Grande Russia può ricordare quanti nomignoli spregiativi si inventavano anche in Russia per gli «stranieri» che non avevano avuto la fortuna di venire al mondo col diritto a privilegi sovrani e come questi privilegi servivano di strumento ai Purisckevic per opprimere sia il popolo grande-russo che tutti gli altri popoli della Russia). La grande Francia concluse nel 1896 un trattato con l’Italia in base al quale l’Italia s’impegnava a non elevare il numero delle scuole italiane a Tunisi! E da allora, la popolazione italiana a Tunisi è cresciuta di sei volte. A Tunisi vivono 105.000 italiani accanto a 35.000 francesi; ma, dei primi, solo 1.167 sono proprietari di terre, con 83.000 ettari, mentre 2.395 proprietari francesi hanno rubato, nella loro colonia, 700.000 ettari. Come dunque non riconoscere con Labriola e gli altri «plekhanovisti» italiani, che l’Italia ha «diritto» alla sua colonia di Tripoli, a opprimere gli slavi nella Dalmazia, a prender parte alla spartizione dell’ Asia Minore, ecc.! (**)

Come Plekhanov difende la guerra «di liberazione» della Russia contro l’ aspirazione della Germania a fare di essa una sua colonia, così il capo del partito riformista, Leonida Bissolati, strilla contro «l’invasione del capitale straniero in Italia» (p. 97): capitale tedesco in Lombardia, inglese in Sicilia, francese nel Piacentino, belga nelle imprese tranviarie, ecc. ecc. senza fine.

La questione è posta in modo categorico e non si può non riconoscere che la guerra europea ha recato all’umanità l’enorme vantaggio di porre la questione stessa, di fatto, categoricamente, davanti a centinaia di milioni di uomini delle diverse nazioni: o difendere col fucile o con la penna, direttamente o indirettamente, in una forma qualunque, i privilegi di grande potenza in genere o i vantaggi o le pretese della «propria» borghesia, e ciò vuol dire esserne i seguaci e servitori, oppure servirsi di ogni lotta, e soprattutto di ogni lotta armata per quei privilegi, allo scopo di smascherare e abbattere ogni governo, e in prima linea, il proprio governo per mezzo dell’azione rivoluzionaria del proletariato internazionalmente solidale. Non c’è via di mezzo; in altre parole: il tentativo di prendere una posizione intermedia significa in realtà un passaggio camuffato dalla parte della borghesia imperialista.

Tutto il libro di Barboni è appunto fatto, in sostanza, per mascherare questo passaggio. Barboni fa l’internazionalista proprio come il nostro signor Potresov. Egli pensa che bisogna determinare da un punto di vista internazionale qual’è fra le due parti quella il cui successo sarà più utile o meno nocivo al proletariato, e, naturalmente, risolve la questione in modo sfavorevole all’Austria e alla Germania. In uno spirito del tutto eguale a quello di Kautsky, Barboni propone al Partito socialista italiano di affermare solennemente la solidarietà degli operai di tutti i paesi, – e, in prima linea, naturalmente, dei paesi belligeranti, – le idee internazionaliste, un programma di pace sulla base del disarmo e dell’indipendenza nazionale di tutte le nazioni, nonché la costituzione di «tutte le Nazioni in Lega per la reciproca garanzia dell’integrità e dell’indipendenza» (p. 126). E proprio in nome di questi princìpi, Barboni dichiara che il militarismo è un organo «parassitario» e «non è punto un fenomeno necessario al capitalismo, che l’Austria e la Germania sono imbevute di «imperialismo militaristico», che la loro politica aggressiva è una costante minaccia alla pace europea», che la Germania «ha costantemente rifiutato ogni proposta di riduzione degli armamenti sia da parte della Russia (sic!!) sia da parte dell’Inghilterra» ecc. ecc., e che il Partito socialista italiano deve, al momento opportuno, dichiararsi favorevole all’intervento dell’Italia per la Triplice Intesa!

Rimane da dimostrare in base a quali princìpi si può preferire all’imperialismo borghese della Germania, che si è sviluppata economicamente, nel secolo XX, più rapidamente degli altri paesi europei e che è stata particolarmente «lesa» nella ripartizione delle colonie, l’imperialismo borghese dell’Inghilterra che si è sviluppata molto più lentamente, ha saccheggiato una quantità di colonie dove (lontano dall’Europa) applica spesso metodi di oppressione non meno bestiali della Germania e, coi suoi miliardi, assolda milioni di soldati di diverse potenze continentali, per impiegarli nel saccheggio dell’Austria, della Turchia, ecc. L’internazionalismo di Barboni, come quello di Kautsky, nasconde in realtà sotto la maschera di un’ipocrita difesa dei principi socialisti, la difesa della sua borghesia, della borghesia italiana. Non si può non osservare che Barboni, il quale ha pubblicato il suo libro nella libera Svizzera (dove la censura ha cancellato solo una mezza riga, a p. 75, che probabilmente conteneva una critica all’Austria), non ha voluto citare in ben 143 pagine, i punti fondamentali del manifesto di Basilea e analizzarli coscienziosamente. Per contro, egli cita con grande simpatia due ex rivoluzionari russi, a cui ora tutta la borghesia francofila fa la réclame, il piccolo borghese anarchico Kropotkin e il filisteo socialdemocratico Plekhanov (p. 103). Sfido io! I sofismi di Plekhanov non differiscono per nulla, nella sostanza, dai sofismi di Barboni. La sola differenza è che la libertà politica che esiste in Italia permette di smascherare meglio questi sofismi e dimostra con maggiore evidenza che la posizione di Barboni è quella di un agente della borghesia nel campo operaio.

Barboni lamenta «l’assenza di un’anima veramente rivoluzionaria» nella socialdemocrazia tedesca (proprio come Plekhanov); saluta con le più calde espressioni Karl Liebknecht (come lo salutano i socialsciovinisti francesi che non vedono la trave nei loro occhi); ma dichiara recisamente che «non è questione di bancarotta o altro simile dell’Internazionale» (p. 92), che i tedeschi «non hanno rinnegato nulla dello spirito dell’Internazionale» (p. 111), poiché hanno agito con la «leale» convinzione di difendere la loro patria. E, con lo stesso tono untuoso di Kautsky, ma con una certa retorica latina, Barboni dichiara che l’Internazionale è pronta (dopo la vittoria sulla Germania) «a perdonare come Cristo a Pietro, del fugace attimo di sfiducia, e, dimenticando, lenirà le profonde ferite aperte dall’imperialismo militarista e tenderà la mano sollevatrice ad una pace dignitosa e fraterna» (p. 113).

Un quadro commovente: Barboni e Kautsky – probabilmente non senza la partecipazione dei nostri Kosovski ed Axelrod – si perdonano a vicenda!!

Pienamente soddisfatto di Kautsky e di Guesde, di Plekhanov e di Kropotkin, Barboni non è soddisfatto del suo partito socialista operaio, in Italia. In questo partito, che ebbe la fortuna di sbarazzarsi prima della guerra dei riformisti, Bissolati e soci, si andò formando, capite, un «aere quasi irrespirabile a quanti» (come Barboni) «non giurassero sul verbo della neutralità assoluta» (cioè della lotta contro l’entrata in guerra dell’Italia (p. 7). Il povero Barboni si duole amaramente che uomini come lui, vengano chiamati nel Partito socialista italiano «intellettuali», «gente che ha perduto il contatto con le masse, fuorusciti dalla borghesia vinti da assalti nostalgici, anime smarrite fuori dalla via diritta del socialismo e dell’internazionalismo» (p. 7). Il nostro partito – esclama Barboni indignato – «ha più fanatizzato che educato le moltitudini» (p. 4).

Vecchia canzone! Una variante italiana della nota canzone dei liquidatori e degli opportunisti russi contro la «demagogia» dei malvagi bolscevichi, che «incitano» le masse contro gli eccellenti socialisti della Nascia Zarià, del Comitato di organizzazione e della frazione di Ckheidze! Ma quale preziosa confessione di un socialsciovinista italiano, il fatto che nell’unico paese in cui, per parecchi mesi, si sono potuti discutere liberamente i programmi dei socialsciovinisti e degli internazionalisti rivoluzionari, proprio le masse operaie, proprio il proletariato cosciente si sono schierati dalla parte di questi ultimi, mentre gli intellettuali piccolo-borghesi e opportunisti si son gettati dalla parte dei primi!

La neutralità è egoismo meschino, incomprensione della situazione internazionale, viltà verso il Belgio, è «assenza», e «gli assenti hanno avuto sempre torto», ragiona Barboni, in modo perfettamente eguale a Plekhanov e Axelrod. Ma, giacché in Italia esistono due partiti legali, uno riformista e uno socialdemocratico operaio, giacché in questo paese non si può trarre in inganno il pubblico ricoprendo la nudità dei signori Potresov, Cerevanin, Levitsky e soci con la foglia di fico della frazione di Ckheidze o del Comitato di organizzazione, Barboni riconosce apertamente:

«Da questo punto di vista sento più rivoluzionarismo nell’ azione dei socialisti riformisti – i quali hanno prontamente intuito di che immenso interesse sarebbe per le future lotte anticapitalistiche un rinnovato ambiente politico» (in conseguenza di una vittoria sul capitalismo tedesco) «e, perfettamente coerenti, hanno sposato la causa della Triplice Intesa – che non in quella dei socialisti ufficiali rivoluzionari che si son chiusi entro il guscio di tartaruga della neutralità assoluta» (p. 81).

Di fronte a una confessione così preziosa non ci rimane che esprimere l’augurio che un compagno il quale conosca il movimento italiano, raccolga ed elabori sistematicamente l’ampia e interessantissima documentazione pubblicata da entrambi i partiti italiani per determinare, da una parte, quali strati della società e quali elementi hanno difeso la politica rivoluzionaria del proletariato italiano e con quali aiuti e argomenti l’hanno difesa, e per determinare, dall’altra, chi si è messo al servizio della borghesia imperialistica italiana. Quanti più documenti si raccoglieranno nei diversi paesi su queste due questioni, tanto più chiara apparirà agli operai coscienti la verità sulle cause e il significato del fallimento della II Internazionale.

Per concludere, si osservi che Barboni, quando si occupa del partito operaio, si sforza di adattarsi, con l’aiuto di sofismi, agli istinti rivoluzionari degli operai. Egli dipinge i socialisti internazionalisti italiani, che sono avversi alla guerra, condotta in realtà per gli interessi imperialistici della borghesia italiana, come fautori di una vile astensione i quali cercano di sfuggire egoisticamente davanti agli orrori della guerra. «Un popolo educato al terrore di tali orrori probabilmente avrà terrore anche degli orrori di una rivoluzione» (p. 83). E accanto a questo rivoltante tentativo di passare da rivoluzionario, trovi l’accenno, grossolanamente furbesco, alle «chiare» parole del ministro Salandra: «L’ordine sarà mantenuto ad ogni costo»; ogni tentativo di sciopero generale contro la mobilitazione condurrebbe solo ad una «inutile carneficina»... «Non bastammo a impedire la guerra di Libia, tanto meno basteremo ad impedire la guerra di Libia, tanto meno basteremo ad impedire la guerra contro l’Austria» (p. 82).

Al pari di Kautsky, di Cunow e di tutti gli opportunisti, Barboni, coscientemente, nel vilissimo intento di trarre in inganno questa o quella parte delle masse, sostituisce all’atteggiamento rivoluzionario il piano ingenuo di «far finire» «di colpo» la guerra e di farsi fucilare dalla borghesia nel momento più opportuno per essa. Barboni tenta così di sottrarsi ai compiti che sono stati chiaramente segnati a Stoccarda e a Basilea al fine di utilizzare la crisi rivoluzionaria per una sistematica propaganda rivoluzionaria e per la preparazione di azioni rivoluzionarie di massa. Che l’Europa attraversi un momento rivoluzionario, Barboni lo vede chiaramente.

«Poiché (su questo punto è necessario d’insistere anche a costo di finir con l’annoiare i lettori; giacché non è possibile di valutare giustamente l’odierna situazione politica se non ci si tiene attaccati ad esso) il periodo che attraversiamo è un periodo catastrofico, d’azione, in cui sono a cimento non delle idee da spiegare, dei programmi da compilare, delle linee di condotta politica da tracciare per l’avvenire, ma delle forze vive ed attive per un risultato alla distanza di mesi, forse anche di sole settimane. In queste condizioni non c’è da filosofare sul futuro del movimento proletario: c’è da fissare il punto di vista proletario di fronte all’attimo fugace» (p. 87-88).

Ancora un sofisma che viene impiegato come argomento rivoluzionario! Quarantaquattro anni dopo la Comune, dopo quasi mezzo secolo di raccolta e di preparazione delle forze delle masse, in un momento di crisi catastrofica, la classe operaia d’Europa deve pensare al modo di diventare il più rapidamente possibile serva della sua borghesia nazionale, al modo di aiutarla a depredare, a violentare, a mandare in rovina, a soggiogare popoli stranieri, anziché riflettere al modo di svolgere immediatamente tra le masse una propaganda rivoluzionaria e di iniziare la preparazione di azioni rivoluzionarie.

(*) ROBERTO MICHELS, L'imperialismo italiano, Milano, 1914. T. BARBONI, Internazionalismo o nazionalismo di classe? (Il proletariato d'Italia e la guerra europea). Edito dall'autore a Campione d'Intelvi (provincia di Como), 1915.

(**) E’ sommamente istruttivo notare il legame tra il passaggio dell’Italia al­l’imperialismo e l’accettazione della riforma elettorale da parte del governo. Questa riforma ha portato il numero degli elettori da 3.219.000 a 8.562.000, cioè ha «quasi» realizzato il suffragio universale. Prima della guerra di Tripolitania, lo stesso Giolitti che ha realizzato l’attuale riforma, era decisamente contrario ad essa. «Il motivo del cambiamento di linea da parte del governo» e dei partiti moderati – scrive Michels – è, in sostanza, patriottico. «Nonostante la vecchia ripugnanza teorica per la politica coloniale, gli operai dell’industria, e più ancora i manovali, si sono battuti contro i turchi con molta disciplina e docilità, contrariamente a tutte le previsioni. Questo comportamento devoto verso la politica governativa meritava una ricompensa per incitare il proletariato a continuare a seguire questa nuova via. Al parlamento il presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato che la classe operaia italiana, con il suo comportamento patriottico sui campi di battaglia della Libia, aveva dimostrato alla patria la sua alta maturità politica. Chi è capace di sacrificare la vita per un nobile scopo è anche capace di difendere gl’interessi della patria in qualità di elettore e merita che lo Stato lo ritenga degno di assumere i pieni diritti politici» (p. 177). Parlano bene i ministri italiani! Ma ancor meglio parlano i socialdemocratici «radicali» tedeschi, che oggi ripetono questo ragionamento da lacchè: «noi» abbiamo fatto il nostro dovere, «vi» abbiamo aiutato a rapinare altri paesi, e «voi» non volete dar«ci» il suffragio universale in Prussia...


(da ’Kommunist’, n. 1-2 1915; in Opere complete, vol. 21, Roma 1966, pp. 327-335)

Nucleo Comunista Internazionalista

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