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(25 Aprile 2010) Enzo Apicella

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Una riforma che deforma la costituzione

(10 Maggio 2005)

Deve essere una Costituzione destinata a durare perché esprime il sogno «di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini alleati per debellare il dolore»: così si esprimeva nel 1947 il giurista Piero Calamandrei in un discorso pronunciato all’Assemblea Costituente parlando del nuovo Statuto che fondava la Repubblica sul lavoro e la impegnava a rimuovere gli ostacoli che, «limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Una Costituzione portatrice quindi di un grande disegno riformatore con obiettivi di uguaglianza e di giustizia riguardati non solo come un orizzonte di valori ma anche ed essenzialmente come un impegno politico concreto da svolgere col metodo insostituibile e costante della partecipazione democratica in tutti gli ambiti della vita associata. Un disegno condiviso dai padri fondatori della Costituzione nel quale confluivano e si armonizzavano le sensibilità e le aspirazioni del socialismo, del solidarismo cristiano, della cultura liberaldemocratica e di tutte le forze attive che avevano partecipato al movimento popolare della Resistenza.

Progetto di società e metodi per realizzarlo, scelte e regole, dinamiche e garanzie, fini e mezzi, i secondi sempre in funzione dei primi e questi a quelli organicamente legati da un vitale ed inscindibile rapporto: è questa l’anima (ed insieme la struttura) della Costituzione del 1947 che, dopo un lungo periodo di progressivo radicamento nella cultura delle forze politiche di quello che veniva definito “l’arco costituzionale”, sul finire degli anni ’60 e nel decennio successivo ebbe significative attuazioni con riforme di rilievo come quella pensionistica, di attuazione dell’ordinamento regionale, del servizio sanitario e dello Statuto dei Lavoratori. Una fase questa che purtroppo si chiuse presto con l’avvento di tendenze neoliberiste lontane dal modello di società delineato dalla Carta ed orientate, le più moderate, a svilirlo e, le più estreme, a cancellarlo del tutto con politiche di restaurazione sul piano economico-sociale e di incisive innovazioni (la “grande riforma” di Craxi) sul versante costituzionale.

Si giunge così, lungo una strada lastricata di involuzioni e di incertezze, alla devastante super-riforma di Berlusconi e di Bossi che, intervenendo formalmente solo sulla seconda parte della Costituzione, quella degli strumenti e delle garanzie (l’ordinamento della Repubblica), incide pesantemente anche, per le ragioni cui si è dianzi fatto cenno, sulla prima parte dello Statuto sia mettendo a rischio i diritti fondamentali dei cittadini in essa enunciati e sia alterando il disegno di una democrazia sostanziale e partecipativa costruita sulla mediazione dei partiti ed impegnata ad operare, come scriveva il grande costituzionalista Mortati, «una trasformazione di fondo dei rapporti di produzione e di distribuzione del reddito, per giungere così ad un diverso equilibrio sociale».

Un pericolo, quello della deformazione dei connotati della nostra democrazia, insito nella riforma berlusconiana come conseguenza dell’attribuzione al Primo ministro (nuova denominazione dell’attuale Presidente del consiglio) di un controllo sostanziale sulla funzione legislativa e quindi su tutte le scelte decisive per le sorti del Paese e per la regolamentazione dei diritti fondamentali dei cittadini. Se la riforma passasse, ci troveremmo invero di fronte ad una inammissibile modificazione del ruolo del Parlamento e ad un grave vulnus inferto allo stesso principio della divisione dei poteri che è il cardine di ogni moderno stato costituzionale. Una riforma che cambia la struttura del Parlamento rendendo farraginosa e difficile la produzione legislativa; che modifica la forma del governo rafforzando i poteri dell’esecutivo e del Primo ministro al quale conferisce il compito di formare la compagine governativa oggi spettante al Presidente della Repubblica; che attribuisce al premier il potere di promuovere l’attività dei ministri e di nominarli e revocarli a suo piacimento.

Ed ancora: una riforma che elimina la mozione di fiducia in occasione della presentazione del Primo ministro alla Camera (solo a quella dei deputati) per illustrare il programma di legislatura, che prevede una «questione di fiducia» nel caso in cui il premier intende chiedere alla Camera di approvare con priorità proposte governative; che per evitare i cosiddetti ribaltoni e rafforzare il ruolo della maggioranza, introduce una mozione di «sfiducia costruttiva»  di difficilissima attuazione pratica la quale peraltro potrebbe contraddittoriamente esporre il premier ai ricatti di una minoranza della sua maggioranza; che attribuisce al Primo ministro il potere esclusivo di scioglimento anticipato della Camera; che depotenzia, fino a renderlo simbolico, il ruolo del Presidente della Repubblica ed anche quello degli altri organi di garanzia come la Corte Costituzionale ed il Consiglio Superiore della Magistratura.

In merito poi al cosiddetto federalismo, oltre a quanto si è ampiamente scritto e detto sulle gravi prospettive di frantumazione dei sistemi sanitario e scolastico e di differenziazione delle relative prestazioni nelle diverse regioni con penalizzazione del meridione, si appalesano gravi i rischi di confusione, di conflitto e di paralisi nei settori appunto della sanità e dell’istruzione. Non può infatti sfuggire che la nuova formulazione dell’art. 117 della Costituzione prevede, sempre per la sanità e l’istruzione, una legislazione «esclusiva» dello Stato in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti esclusivi e sociali», di «norme generali sulla tutela della salute» e di «norme generali sull’istruzione». Stabilisce inoltre questo articolo una legislazione «concorrente» dello Stato e delle Regioni in materia di «istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione dell’istruzione e della formazione professionale». Prevede infine una potestà legislativa «esclusiva» delle Regioni in materia di «assistenza e organizzazione sanitaria» e di «organizzazione scolastica». Una competenza «esclusiva» che disinvoltamente si estende anche ad una non meglio precisata «polizia amministrativa regionale e locale».

Un pericoloso guazzabuglio dunque di disposizioni e di idee, peggiore di quello, già notevole, operato dal centrosinistra ma per fortuna limitato alla sola materia del federalismo. Un avventurismo istituzionale, povero di cultura democratica e di cultura giuridica, sul quale ha acceso le luci, se ce ne fosse stato bisogno, lo stesso Berlusconi quando, polemizzando con Prodi, si è così espresso: «non capisco perché Prodi si lamenta. Se fosse sicuro di vincere le elezioni del 2006 dovrebbe rallegrarsi perché io gli ho preparato un premierato fortissimo». Una sconcertante sortita che si commenta da sé.

Brindisi, 6 maggio 2005

Michele DI SCHIENA

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