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CHI CREDE ALLA FARSA DELL'ISLAM "RADICALE"

Che c'è dietro l'abuso di etichette in salsa occidentale

(24 Novembre 2015)

La sempre più frequente dicitura "Islam radicale" tradisce le culture, non garantisce sicurezza e non dà conto dei veri conflitti nel mondo musulmano

E' imbarazzante la facilità con cui ci siamo abituati a pensare all'Islam come distinto in due grandi famiglie: l'Islam "moderato", da un lato, l'Islam "radicale", dall'altro, a presidiare la dissipazione, l'abominio e il terrorismo. Qualsiasi slogan ripetuto incessantemente produce uno spicchio di immaginario sociale, di costruzione del consenso: si acconsente ad una bipartizione così comoda e irrispettosa perché è l'unica (o quasi) ad esserci proposta. Un approccio del genere ha fatto dei danni non da poco. Se vogliamo concentrarci sulle implicazioni ideologiche e religiose, è falso sostenere che vi siano due tipi di Islam: dal punto di vista dottrinale, le scuole islamiche sono molto più numerose e quelle che siamo abituati a mixare nella stessa etichetta sono, in realtà, fieramente autonome e distinte; dal punto di vista della coesione identitaria, probabilmente, l'Islam è innanzitutto percepito da chi lo segue come Islam, appunto, unitario. Non dovrebbe essere necessario precisare un concetto del genere. In Italia c'è sempre stato un forte movimento d'opinione, cattolico, intransigentemente devoto agli insegnamenti del Magistero (nella loro interpretazione più letterale). E c'è sempre stato, a volte silenzioso e alle altre assertivo, un fronte di opinione cattolica contrario all'imperialismo, al proibizionismo e al sessismo. Quale sarebbe il Cattolicesimo radicale in Italia? Quello degli intransigentemente devoti o quello progressivo e volenteroso, ancorché disarticolato? E quale sarebbe quello "moderato"? Quello che si è rifugiato in un centro politico ormai gassificato o quello che ha difeso le prerogative costituzionali dello Stato? E' evidente che categorie del genere ("radicali" e "moderati") siano molto deboli per accostarsi alla diversità culturale e ancor più per descrivere l'Islam. A meno che con "moderato" non si voglia e debba intendere la cultura islamica meglio introiettata nello stile di vita occidentale e con radicale l'Islam tout court, incline alla perseveranza delle proprie radici storico-concettuali. E' appena il caso di ricordare che nella seconda legislatura a maggioranza berlusconiana (2001-2006) ci fu un certo risveglio di ambienti, riviste e varia intellettualità intorno ai temi della giustizia e dell'informazione. Oltre dieci anni fa si ribadì che c'erano due Sinistre, una moderata e una radicale: una della Margherita e dei Democratici di Sinistra e una di tutti gli altri soggetti non identificati (ora mediaticamente catturata dal giustizialismo, ora dal massimalismo). Il risultato di questo sfascio lessicale in termini di rappresentanza politica è che sembra non esservi più alcuna Sinistra. La dissoluzione del lato positivo delle appartenenze nasce proprio dal raccontarle in modo artificiale.
Quel che più conta sottolineare è che il terrorismo, ben prima di ogni dietrologia sul suo fondamento ideologico, materiale, finanziario, sta togliendo spazio, dignità e voce a situazioni conflittuali che sono ben radicate nel Medio Oriente, ma di cui diviene sempre più scomodo parlare. Basti pensare alla questione palestinese, surclassata, nella mentalità da motore di ricerca che contraddistingue ormai gli organi di stampa, dall'allarme sul Califfato. Una battaglia dimenticata, obliata ed isolata si allontana (piuttosto che avvicinarsi) da una sua soluzione politica. E non dimentichiamo dei tanti fronti che si erano aperti durante le cd. Primavere Arabe. Lì davvero volere appiccicare categorie religiose aveva la stessa pertinenza dei cavoli a merenda: perché in alcuni contesti, i movimenti popolari chiedevano di non accettare acriticamente il modello laico-occidentale e di ritornare all'identificazione solidale comunitaria; in altri, all'opposto, era una visione teocratica -e gli apparati che ne erano scaturiti- ad essere messa in questione, per il suo carico di afflittività.
Di questi percorsi non c'è traccia alcuna, e da tempo, sui nostri mezzi di informazione. Non solo: quando ci si avventura in analisi comportamentali e di costume sui nuovi adepti della violenza, si scopre che spesso si tratta di convertiti o di soggetti che a seguito di specifici accadimenti personali hanno poi abbracciato una causa sciaguratamente distruttiva ed isolazionista. Per comprendere la compulsività che c'è dietro a queste scelte, l'Occidente erudito, piuttosto che pontificare sulle altrui appartenenze religiose, dovrebbe riuscire ad interrogarsi sui limiti della sua proposta socio-politica. In base a quali precisissimi meccanismi si sono create negli ultimi decenni sbalorditive sacche di esclusione? La storia del malcontento e del disagio estremi ci racconta che dietro essi c'è il vuoto di elaborazione e lo smarrimento. Ecco perché, dal sottoproletario per censo al fondamentalista per "deviazione" esistenziale, si rischia tutti indistintamente di essere "catturati" dal messaggio rivendicativo più spiccio e immediato: trova un nemico, arruolati e combattilo. La politica (persino: la politica del diritto) dovrebbe entrare precisamente in questo interstizio: disinnescare l'estrema alienazione, sabotare la forza attrattiva che ha da sempre l'uso strumentale della disperazione. Non sono supervisione informatica bancaria e protocolli di allarme urbano a potersi sostituire a ciò.
Aggiungiamo una conclusione sulle manifestazioni dei musulmani italiani contro il terrorismo e a favore della pace. In primo luogo: sbagliatissimo descrivere questi tentativi di organizzazione secondo le macroappartenenze confessionali sunnite e sciite. Questo ragionamento poteva andar bene sino alla metà degli anni Novanta, quando l'associazionismo islamico in Italia, dovendo appellarsi alle sole forme organizzative di diritto privato, finiva per strutturarsi secondo le diverse appartenenze intra-confessionali. Adesso i numeri dicono altro: basta guardarsi e guardare per strada. Negli stessi insediamenti urbani, si trovano sciiti e sunniti e le diverse componenti talvolta procedono in comune, senza rinunciare alle proprie differenziazioni ma anche senza porle a base di una costituzione dell'esclusione politica del diversamente credente. In secondo luogo: i numeri dei cortei, si, erano tremendamente esigui. Probabilmente rappresentati da musulmani di seconda e terza generazione. Cittadini italiani (qualcuno già dalla nascita), sostanzialmente integrati nei diversi contesti, sufficientemente sereni dal sentire di esporsi ben al di là della situazione complessiva. Ma quando la faremo anche una riflessione su tutti gli "altri"? Quelli cioè che sperimentano ancora la ghettizzazione del fenomeno migratorio, l'intolleranza sociale, la mancanza di qualunque agenzia che non sia il doversi appellare al "nucleo duro" di un'appartenenza nei fatti remota e idealmente però percepita come pura, cristallina, consolatoria, intima e totalmente coesiva?
Davanti a tutto questo, chi si mette alla lavagna e segna col gesso Islam moderato e Islam radicale (i nuovi "buoni" e "cattivi", o forse: "gli un po' meno cattivi" e "i tremendamente cattivi") è il perfetto uomo assist della strategia del terrore. Che si porta dietro armamenti, restrizione di libertà politiche e civili, esclusione sociale, rinegoziazione finta della sicurezza pubblica.

Domenico Bilotti

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