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L'angoscia dell'anguria

L'angoscia dell'anguria

(24 Luglio 2013) Enzo Apicella

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    Le battaglie difensive dei lavoratori sono una catena che condurrà, quando dirette dal partito comunista, allo scontro mondiale con la borghesia e alla sua fine

    (4 Giugno 2016)

    Continua, per il Capitale, la ricerca della motivazione della crisi nel tentativo (ancora purtroppo riuscito) di assolvere se stesso. Si continua a blaterare e ad appoggiare chiunque parli di “crisi della finanza” e di “finanzieri senza scrupoli”, e si predica che la soluzione non può che essere negli nelle agevolazioni da concedere al mercato.

    La realtà, come noi comunisti sappiamo, e non possiamo tacere, è ben diversa. La crisi è di sovrapproduzione.

    Il più efficace e “tecnologico” sistema produttivo che l’umanità abbia mai sviluppato impoverisce i lavoratori perché produce troppo. Troppo non per i bisogni degli uomini ma per quelli del mercato, dato che la produzione non ha lo scopo di soddisfare le necessità umane ma di accrescere il Capitale, in un ciclo che si vorrebbe ipoteticamente infinito ma materialmente destinato alla crisi per saturazione da una parte e per i profitti sempre minori dall’altra.

    Investimenti per cosa se investire non porta profitto? Per il capitale è sempre meno il momento d’investire, di costruire, e sempre più il momento di distruggere. Oggi chiudere fabbriche, tagliare posti di lavoro, distruggere quello stesso Stato sociale che al Capitale è servito a sopire la lotta di classe. Domani riprendere la produzione ma solo per produrre armi, cioè per preparare la distruzione generali delle merci in eccesso – fra cui la merce forza-lavoro – con un nuovo macello mondiale su cui ricostruire un nuovo ciclo di produzione, di investimenti, di accumulazione del capitale.

    La crisi di sovrapproduzione, a cui si vuole dare il significato di crisi finanziaria per mascherare i limiti intrinseci del sistema capitalista – sovrapproduzione con conseguente crollo dei profitti – sta costringendo la classe sociale borghese di tutto il mondo a dichiarare la propria guerra alla classe sociale del proletariato nel disperato tentativo di salvare quanto più possibile dei propri mancati profitti e di rimandare nel tempo la crisi definitiva.

    Non una crisi passeggera e contingente, risolvibile con qualche aggiustamento, ristrutturazione e sacrificio, tale per cui è sufficiente restare a galla finché passa la tempesta, ma una crisi che ha, come radici, il funzionamento stesso del sistema produttivo attuale: l’incessante esigenza di trasformare il denaro in merce e la merce in denaro, senza nessuna logica legata al soddisfacimento delle umane necessità, quanto piuttosto di un’economia che con le sue leggi e meccanismi non risponde più neanche a chi vorrebbe governarla.

    Non è un caso che ogni iniziativa politica decisa il giorno prima, produce danni peggiori di quelli che avrebbe dovuto risolvere se non ottiene, il giorno dopo, l’approvazione delle borse e dei mercati.

    Ovunque licenziamenti, chiusure di imprese, concentrazioni di grandi aziende con dismissioni dei settori meno produttivi per il capitale, condizioni di vita e di lavoro sempre più precarie, smantellamento di quella previdenza sociale tanto decantata dalla borghesia stessa, richiesta di sacrifici in nome di un migliore futuro.

    A questa guerra i proletari sono arrivati completamente disarmati.

    Decenni di sviluppo industriale costruito su due guerre mondiali hanno creato l’illusione che la pace e la prosperità fossero ormai condizioni acquisite per l’umanità tutta (o quasi) e che nulla avrebbe potuto fermare questa corsa verso uno sviluppo ed un benessere possibile per tutti.

    Questo ha contribuito, insieme alla scientifica disinformazione sull’argomento “Comunismo” attuata dai mezzi di propaganda borghesi, al considerare eventi di un passato ormai lontano e sepolto dalla Storia lo scontro tra le classi sociali, divenute, secondo questa visione, ormai protagoniste e beneficiarie tutte di questo sistema produttivo.

    I lavoratori sono, quindi, arrivati in prossimità di questo appuntamento storico privi di quella che era e dovrebbe essere la loro tradizionale politica, autonoma e di classe, in cui difendere i propri interessi, come classe e non come lavoratori di questa o quella azienda, di questa o quella regione, di questa o quella nazione, o, peggio che mai, come individui.

    Perché se la crisi è internazionale, se l’azione delle borghesie è internazionale, la risposta dei proletari non può rimanere limitata nell’ambito aziendale o di categoria, limiti che snervano le risposte che i primi proletari tentano di dare, e talvolta finiscono per rafforzare la convinzione che poco si possa comunque fare.

    In mancanza di questa lotta generale della classe non rimangono che le soluzioni individuali e personalistiche, sgomitate e furberie, che danno l’illusione di poter sfuggire, almeno provvisoriamente, al problema contingente, rimandando al domani una soluzione che non arriverà, e quelle funzionali al capitale, ovvero vendere la propria forza lavoro a condizioni sempre peggiori, in una spietata concorrenza di tutti contro tutti, fino a giungere, una volta che i proletari avranno accettato come inevitabile tutto questo, alla unica e vera soluzione che il Capitale ha a sua disposizione per risolvere le sue, inevitabili e cicliche, crisi: la guerra capitalista in cui distruggere uomini e merci (c’è differenza per il Capitale?) di cui il Mercato non ha più necessità.

    In tutto il mondo sono strumenti di questo smarrimento i partiti e i sindacati di regime che continuano a presentare ai lavoratori necessario ed inevitabile ciò che è necessario ed inevitabile per il mercato e il Capitale, per la concorrenza e le “compatibilità” aziendali e nazionali, allontanandoli progressivamente dai postulati che erano e devono tornare ad essere i loro.

    Gli interessi della classe operaia, di tutta la classe lavoratrice, sono inconciliabili con quelli del capitalismo, e contro i suoi cardini politici, sociali ed economici: la nazione, l’azienda. Il solo vero interesse dei lavoratori è vivere e lavorare in una società liberata dalle inumane e anti-storiche leggi dell’economia capitalistica.

    Tutte le presunte “conquiste” dei decenni passati sono da anni sotto attacco e la borghesia si sta riprendendo passo dopo passo tutto ciò che aveva ceduto. Il riformismo e lo stalinismo – ed oggi i suoi rottami – hanno sempre spacciato questi “diritti” come qualcosa di definitivamente acquisito in un capitalismo dipinto come nuovo, “democratico”. E hanno spinto i lavoratori ad abbandonare i metodi della lotta di classe convincendoli che li avrebbe tutelati non la loro forza ma le regole della democrazia elettorale.

    La crisi dimostra come questa visione riformista sia falsa e fallimentare. Le conquiste passate per i lavoratori non sono nulla più che dei provvisori attestamenti nella lotta di classe, da difendere non nell’illusione che sia possibile mantenerle per sempre in questa società, ma per rafforzarsi e avanzare in una vera guerra sociale che terminerà solo con la rivoluzionaria soppressione della borghesia.

    La lotta dei lavoratori contro gli attacchi degli industriali e dei governi borghesi di ogni colore, di “destra” o di “sinistra”, è una catena di battaglie che condurrà al suo esito finale, cioè all’alternativa fra la soluzione borghese e quella proletaria alla crisi del capitalismo: o guerra imperialista fra gli Stati capitalistici, in cui spartirsi i mercati mondiali, distruggere le merci in eccesso, far massacrare i lavoratori divisi sui fronti contrapposti, o rivoluzione proletaria internazionale.

    La sola politica della classe lavoratrice è la milizia nel partito che ha chiaro questo percorso storico e ad esso vuole preparare i lavoratori.

    Partito Comunista Internazionale

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