">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Stato e istituzioni    (Visualizza la Mappa del sito )

Un alibi di ferro

Un alibi di ferro

(27 Luglio 2012) Enzo Apicella

Tutte le vignette di Enzo Apicella

PRIMA PAGINA

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

SITI WEB
(Stato e istituzioni)

Mohammed Alì: oggi il cielo è un ring

(7 Giugno 2016)

classius e malcolm

Di Leandro Albani (*)

Se n’è andato Mohammed Alì, uno dei pugilatori più riconosciuti al mondo, ma anche un referente per il popolo afro-discendente non solo degli Stati Uniti. Irriverente e solidale con quelli che stanno in basso, Alì lascia una scia di dolore con la sua partenza verso nuovi combattimenti.

Credo che la boxe mi piaccia perché ne ho letto nei racconti di Julio Cortàzar, Robert Arlt, Abelardo Castillo e per quel pugilatore sempre sconfitto ma sempre in piedi che Osvaldo Soriano costruì nel suo racconto Caserme d’inverno.

Quando posso guardo la boxe, anche se non sono molto disciplinato nel seguire giorno per giorno gli sport. Lo sono così poco che non ho nemmeno idea di chi sia il numero 5 dell’Indipendente, la squadra a cui mio nonno Emilio mi abbonò per tutta la vita.

Nella boxe – al di là del godermi gli incontri di Nicolino Loche che si trovano su internet e che mi lasciano senza fiato per la sua rapidità di torace e per la sua difesa sempre bassa – faccio attenzione alla storia dei pugili. Storie dure, di sconfitte permanenti, di crudeltà e vizi distruttivi. La lista dei pugilatori argentini che arrivarono al vertice della gloria e in appena un minuto caddero nell’abisso è lunga: Carlos Monzòn, Ubi Sacco, César “La bestia” Romero e tanti altri.
La storia di Mohammed Alì l’ho conosciuta leggendo i discorsi e frugando nella storia di Malcolm X, quel rivoluzionario integrale e radicale che gli Stati Uniti produssero. La relazione di entrambi si cementò quando Alì entrò nella Nazione dell’Islam, organizzazione con un profondo sviluppo in Nord America e che, in principio, si trasformò in rifugio per la comunità nera segregata e repressa.

Le foto di Mohammed Alì e di Malcolm X sono molte. Sorridono, parlano, scherzano. La relazione tra loro fu sincera e di fraternità. Ma quando Malcolm X ruppe con la Nazione dell’Islam e con il suo leader Elijah Muhammad (un personaggio controverso e che non desiderava che la radicalizzazione dei suoi seguaci gli sfuggisse di mano), quel legame si incrinò. Da quel momento Alì non risparmiò parole per colpire il suo antico compagno.

La storia di Malcolm X era ormai fissata: il suo cammino politico, la rapida presa di coscienza verso posizioni di sinistra e la messa in pratica delle autodifese armate per contrastare la repressione poliziesca avrebbero segnato gli ultimi mesi di Red, come lo chiamavano da piccolo.

Qualcuno potrà dire che Mohammed Alì fu parte dello spettacolo patetico dell’affare della boxe. O che è stato solo una pedina in più nell’ingranaggio che lascia allo scoperto le peggiori perversioni del capitalismo, perché la boxe questo è, uno specchio in cui si riflettono le più crude bassezze a cui un sistema inumano espone le persone.

Ma Alì è stato molto di più. Grande e prepotente, nato nella profonda Louisville nel gennaio 1942, visse anch’egli il processo di radicalizzazione negli Stati Uniti del decennio 1960.

Il suo no a combattere in Vietnam, le sue critiche al potere degli uomini bianchi e la sua costante irriverenza lo trasformarono in qualcosa di molesto per il sistema.

Per questo penso ad Alì come ad un’anomalia del sistema o, per dirlo in creolo, come “il fatto maledetto” all’interno dello show business.

Ma questa anomalia in cui si trasformò Alì non è un fatto isolato, ma è una delle punte dell’iceberg che contiene la solida lotta del popolo afro-discendente degli Stati Uniti.

“Perché mi chiedono di mettermi un’uniforme e di andare a 10.000 miglia da casa e buttare bombe e sparare pallottole a gente di pelle scura mentre i neri di Louisville vengono trattati come cani e gli si negano i diritti umani più semplici? Non andrò a 10.000 miglia da qui a prestare la mia faccia per aiutare ad assassinare e a bruciare un’altra nazione povera semplicemente per continuare la dominazione degli schiavisti bianchi” dichiarò riguardo all’invasione statunitense in Vietnam.

E nemmeno risparmiò parole per descrivere il mondo in cui camminava tutti i giorni: “La boxe è un numeroso gruppo di uomini bianchi che guardano come si picchiano due uomini neri”. Non tacque nemmeno sui suoi avversari sul quadrato: “Ho visto George Foreman boxare contro la sua ombra. Ha vinto l’ombra” o “Joe Frazier è così brutto che quando piange le lacrime corrono a rifugiarsi nella sua nuca”.

Lo stesso uomo che diceva di essere “così veloce che la notte scorsa ho spento la lampada ed era già nel letto prima che la luce svanisse”, faceva anche denunce che continuano a valere: “la parola Islam significa pace, la parola musulmano significa “colui che si sottomette a Dio”. Ma la stampa ci mostra come estremisti”.

A 74 anni Mohammed Alì ha lasciato il mondo dei mortali e, nel luogo che ha scelto per trascorrere la sua nuova vita, questo bambino immenso che affermava di poter “chiudere in carcere i tuoni” starà sicuramente svolazzando come una farfalla e pungendo come un’ape.



(*) Giornalista argentino, redattore del periodico delle Madri di Plaza de Mayo; da: Resumen; da latinoamericano; 6.6.2016

Traduzione di Daniela Trollio, Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

5543