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Ancora su "Lettera a un giudice"

(28 Agosto 2016)

"Lettera a un Giudice" di Paolo Saggese, è un romanzo breve (o racconto lungo) incentrato sul tema della corruzione. L'autore definisce il suo libro un "racconto fantastico", ma temo che non sia affatto immaginario, né surreale. È proprio questo il limite principale del libro, che tenta di discostarsi dalla realtà, senza riuscire ad intaccarla minimamente. Per mettere in discussione un ordinamento politico-istituzionale che è profondamente ed organicamente marcio e corrotto, temo che occorra una presa di posizione assai più coraggiosa intellettualmente, una critica serrata e radicale che provi a mettere in discussione le radici stesse del sistema e dei rapporti di forza vigenti. Tali radici affondano nel dominio di classe del capitale, dell'alta borghesia che detiene il controllo dei mezzi di produzione e di distribuzione economica, nonché il potere politico incarnato in organi istituzionali ed amministrativi nazionali e sovranazionali, che sono "mega-comitati di affari". Se non si coglie tale complessità e non si prende atto di un fenomeno assai più vasto, articolato e controverso di quanto si creda, la piaga sociale della corruzione non sarà mai compresa nella sua entità reale, nella sua essenza connaturata agli assetti capitalistici dominanti, per cui non potrà mai essere estirpata in modo radicale e definitivo dalla nostra esistenza quotidiana. Il romanzo racconta, attraverso una serie di epistole, l'amara vicenda, non autobiografica (almeno così sottolinea l'autore), di un "secchione" (inteso in un'accezione simpatica) che, non essendo raccomandato, fallisce la prova di un concorso per dirigenti pubblici, per cui decide di rivolgersi ad un magistrato per offrire libero sfogo al suo sdegno contro la corruzione. La trama narrativa si ambienta in un paese immaginario chiamato Repubblica dei Pomodori. L'idioma nazionale è il pomodorese, i gendarmi sono pomodoresi, tutto è pomodorese. L'autore non sembra essersi arrovellato troppo l'immaginazione per inventare nomi di fantasia. Non mi pare originale l'idea che ispira la vicenda narrata. La passione per il grande scrittore siciliano (Leonardo Sciascia) si evince dai richiami alle opere e ai soggetti sciasciani: Candido, A ciascuno il suo, Il giorno della civetta ed altri. Il tratto forse meno originale, risiede in uno spunto ideologico moralistico o, come si usa dire oggi, giustizialista. Questa valutazione non vuol essere affatto una stroncatura nei confronti della prima fatica letteraria di questo autore mio conterraneo. Il quale è un intellettuale esperto in lettere classiche, un umanista e un critico letterario, per cui non potrei competere con l'autorità e l'erudizione dello studioso. Non possiedo la perizia che serve ad esprimere un giudizio pertinente a livello tecnico-letterario. Mi limito a notare che il registro stilistico del romanzo, per quanto lieve, scorrevole, per niente volgare o stucchevole (ed è già tanto di questi tempi) non risponde al mio gusto estetico. Trattasi di un giudizio soggettivo. Il romanzo si legge tutto d'un fiato, non è mai tedioso, ma non sono riuscito ad intravedere il fuoco che infiamma il genio, l'inquietudine che assale lo "spirito guerriero" dello scrittore. Per me la letteratura e l'arte non sono uno "specchio" che riflette il mondo reale, bensì una sorta di "martello" che picchia sull'incudine con furia e sofferenza per modificare lo stato di cose presenti. Scrivere, dipingere, scolpire, creare, suonare, esigono un ardore militante, una tensione rivoluzionaria. È una battaglia in cui l'artista si cimenta in modo indiretto. Ciò esalta il valore più autentico dell'arte, che altrimenti non potrebbe esternare nulla.

Lucio Garofalo

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