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    ANNOTAZIONE SU UNO STRISCIONE DELLA MANIFESTAZIONE DI PIACENZA CONTRO L’ASSASSINIO DI ABD ELSALAM

    (5 Ottobre 2016)

    Su uno striscione firmato USB Piemonte e retto da lavoratori immigrati era scritto “Voglio lavoro e Stato sociale”. Una sferzata contro i sentimenti di ostilità diffusi in larghe fette della popolazione italiana ed europea colpite dall’arrivo di un numero crescente di immigrati.

    Come non pensare leggendo questo striscione alla canea quotidiana, con direttori d’orchestra istituzionali (ma con ampi settori di ascolto e propagazione anche tra le file del proletariato bianco), che raccoglie allarmata le notizie su sbarchi e tentativi vari di attraversamento delle frontiere per entrare in Europa e denuncia l’invasione dei disperati, dei “terroristi”, di quelli che con la loro presenza e il loro disagio mettono a repentaglio la pulizia e la sicurezza delle nostre città, o anche solo semplicemente dei ”furbi” che vogliono entrare per scroccare le prestazioni sociali in vigore nei paesi europei?

    Adb Elsalam aveva un contratto stabile dal 2003, il che esalta l’esempio di solidarietà di classe che ci ha dato e il suo sacrificio. Abd Elsalam ha potuto accedere a quell’insieme di prestazioni aggiuntive che va sotto il nome di “Stato sociale” e avrebbe forse conseguito in Italia la sua meritata pensione (beninteso una piccola parte, posto che avendo 53 anni giammai avrebbe raggiunto gli oltre 40 anni di contribuzione). La massa dei lavoratori, immigrati e “italiani doc”, del tutto difficilmente riesce a trovare e a mantenere un’occupazione stabile. La menzogna della collaborazione breve, occasionale, a progetto, se non addirittura professionale ed autonoma, serve a falcidiare per tutti, immigrati e italiani, le cosiddette “tutele sociali” che sono vero e proprio salario indiretto e differito. Le forche caudine del lavoro nero sottopagato, dell’intermittenza di mille lavori a termine, delle frodi contributive di padroni che dichiarano fallimento e spariscono, tutto ciò rende difficilissimo raggiungere e formalizzare la continuità del lavoro e della contribuzione. Per il lavoratore immigrato va anche peggio perché la perdita del lavoro mette a repentaglio la stessa permanenza in Italia, mentre la vita di chi ha dovuto abbandonare il proprio paese non è facilmente programmabile quanto a date di arrivo e di eventuale ripartenza. Ne consegue la realtà documentata da mille statistiche di una popolazione lavoratrice immigrata che versa fette considerevoli di tasse allo Stato e di contribuzione alle casse “sociali” spesso senza arrivare a poter tradurre tutto questo nei corrispondenti trattamenti.

    Sappiamo bene che su quella impalcatura di garanzie sociali per la classe lavoratrice che va sotto il nome di “Stato sociale” e sul miraggio della sua stabilizzazione e generalizzazione il capitalismo imperialista d’Occidente ha tentato di legare il proletariato alla conservazione di un sistema che riserverebbe anche ai proletari un minimo di garanzie per le incertezze dell’avvenire, togliendogli il carattere di chi “nulla ha da perdere oltre le proprie catene”. Questa impalcatura – costruita nel corso dell’ormai conclusa fase di sviluppo esplosivo – è frutto della connessione da un lato delle concessioni da parte della borghesia, sulle crescenti quote di plusvalore accumulato, come assicurazione preventiva contro un possibile incendio di classe e dall’altro delle reali lotte rivendicative dei lavoratori. Essa, pur dopo un lungo ciclo espansivo del capitalismo, si dimostra poco o niente stabilizzata, non gestibile secondo la contabilità capitalistica – che innanzitutto vi ha caricato sopra gli speciali diritti di prelievo dei capitalisti e delle classi improduttive –, per nulla generalizzata e generalizzabile all’insieme dei proletari senza-scorta delle metropoli imperialiste (figuriamoci poi dell’intera platea proletaria mondiale cui noi ci riferiamo). Noi rivendichiamo le cosiddette “garanzie sociali” che il proletariato ha potuto conquistarsi regnante il capitalismo e al tempo stesso ne proiettiamo la sostanza minimamente abbozzata nelle particolari forme di economia collettiva che il capitalismo è stato costretto ad assumere (pur sempre deviate in ossequio ai suoi interessi privati di classe) nella prospettiva che abbatte e supera l’orizzonte angusto del capitale. Queste “garanzie sociali”, storpie e monche per mille motivi, derivano la loro fonte da prelievi sul lavoro e dalla ricchezza che esso genera. Sono “privilegi assistenziali” per quanti borghesi e beneficiati vari dal capitalismo ne abusano a sbafo, non certo per il proletariato che ne garantisce e sopporta l’intero peso di produzione. Operai come quelli le cui vicende ispirano queste note, si tratti di facchini che movimentano quintali di merci per giornate di lavoro anche di 14 ore, di manutentori che puliscono il materiale dai nastri che liberati dal peso si rimettono in movimento schiacciandoli e quant’altro ancora, costituiscono la classe che produce la ricchezza sociale che in piccola parte torna indietro ad essa come salario diretto e indiretto strappato all’avidità del capitale in forma di pensioni, accesso – sempre meno gratuito – alle cure mediche, assistenza per infortuni, invalidità (quando la folgore e i rulli non li ammazzino), etc. etc.. I facchini egiziani della Seam/GLS hanno tutti i titoli di classe per rivendicare quello che chiamano “Stato sociale”, anche se questo fa schiumare di rabbia tanti italianissimi, e tra questi innanzitutto le classi improduttive ammesse alla tavola dello “Stato sociale” per servirsi a piacere delle cibarie procurate dal lavoro di altri (italiani e non).

    Noi siamo impegnati in questa sacrosanta battaglia, che veramente è la battaglia di tutti i proletari, italiani e immigrati, giovani e meno giovani, più o meno “stabili” o precarizzati. Comprendiamo benissimo l’aspettativa di quanti lavoratori dei paesi dominati dall’imperialismo rivendicano e lottano per poter lavorare e vivere “come in Occidente” e la facciamo nostra chiamando alla lotta contro gli attacchi al salario diretto e indiretto dell’intera classe operaia condotti dai governi occidentali, rivendicando parità di condizioni per le giovani generazioni cui il salario è stato in mille modi decurtato e sottratto, per i lavoratori immigrati contro il ricatto del lavoro nero, per i lavoratori di ogni paese e del mondo intero contro i muri della gerarchizzazione internazionale del lavoro quali ci vengono consegnati dallo sviluppo combinato e diseguale del capitalismo. E’ necessario al tempo stesso iscrivere la lotta nella giusta prospettiva di classe, l’unica vincente. Non possiamo lottare con la testa rivolta all’indietro, con l’illusione che possa ristabilirsi lo scenario dei decenni passati, quelli che hanno visto crescere (giammai generalizzarsi né stabilizzarsi neanche nel perimetro dei paesi occidentali più avanzati) il “modello sociale europeo” o l’economia del benessere stelleestrisce. Men che meno possiamo illuderci che potremmo preservarci “il nostro Stato sociale” a livello di nazione, se solo ci divincolassimo dai rigidi diktat europei recuperando “la sovranità dell’Italia”. Né può essere nostra l’aspettativa illusoriamente riformista di un lento e progressivo estendersi dello “Stato sociale” oltre i paesi e continenti di origine, se oggi vediamo che in quegli stessi paesi lo “Stato sociale” viene smontato a pezzi e la promessa delle sue garanzie si rivela un miraggio per fette sempre più ampie di proletariato.

    Lo “Stato sociale” è pur sempre lo Stato (“sociale”?!: antisociale!) del capitale e ne porta interamente il segno. La legislazione e l’organizzazione burocratica che lo connotano mascherano la realtà effettiva di una persistente predazione delle riserve sociali tratte dal lavoro di tutti da parte delle classi dominanti. E’ qui inutile dilungarsi in esempi – sono infiniti – per dimostrare come lo “Stato sociale” del capitale è del tutto piegato agli interessi privati delle classi dominanti: i proletari ne reggono il peso e lo ricostituiscono continuamente con il proprio lavoro (e nella propaganda della borghesia sarebbero invece “assistiti dallo Stato”), mentre una intera galassia di profittatori con titoli di merito acquisiti presso la cupola capitalistica se ne alimentano. Nella nostra prospettiva, quella rivoluzionaria che strappa alla borghesia la totalità del potere politico e drizza la barra della storia umana al Comunismo, la vera riserva sociale compatibile con gli interessi della stragrande maggioranza lavoratrice, realmente in grado di porre fine al privilegio e al monopolio della minoranza borghese, è quella che supera e rende inutile – nella prospettiva – ogni meccanismo di prenotazione e intestazione individuale su molecole della riserva, in quanto la scorta nell’economia socialista è a disposizione di chiunque. Tutti partecipano a costituirla secondo le proprie capacità, ciascuno vi accede secondo il proprio bisogno. Una prospettiva indubbiamente non vicinissima, ma necessaria già oggi a nostro avviso per orientare le lotte in corso e rafforzare le sacrosante rivendicazioni agitate anche dalla piazza di Piacenza con l’accento forte messo sulla necessità di unificare la lotta “per i diritti di tutti”, cioè della classe operaia di ogni nazionalità, età e condizione contrattuale.

    4 ottobre 2016

    Nucleo Comunista Internazionalista

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