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Siria

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(16 Agosto 2012) Enzo Apicella

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    (Imperialismo e guerra)

    Il confronto tra gli imperialismi sul campo di battaglia siriano prefigura la guerra mondiale

    (2 Febbraio 2017)

    Entrata nel sesto anno di guerra la Siria è un paese completamente devastato. Dall’inizio della rivolta nei primi mesi del 2011, si calcola che i morti siano circa mezzo milione, altri due milioni sarebbero i feriti, più del dieci per cento della popolazione. A questo si aggiungono le distruzioni materiali e le sofferenze imposte a quanti costretti a fuggire: 5 milioni all’estero e 6,5 milioni gli sfollati interni, quasi la metà della popolazione.

    La ricostruzione si presenta come un enorme affare su cui si getteranno i capitalisti di tutto il mondo: parlano di un giro di 200 miliardi di dollari. Damasco ha promesso di aprire alle compagnie russe. Distrutti industrie, settore agricolo, reti idriche e elettriche. La fuga di metà della popolazione ha privato il paese di professionisti, operai, contadini, insegnanti, medici. Esasperate le divisioni interne in etnie, gruppi politici, religioni.

    Il regime imperialista, nella sua fase decadente, ha solo bisogno di distruggere, di radere al suolo quanto ha edificato nei suoi cicli precedenti, mandando al macello, insieme ai proletari, intere popolazioni.

    Ad ottobre 2016 l’arcivescovo maronita di Aleppo, in una audizione davanti al Senato italiano ebbe a dichiarare: «In Siria non ci sono né una rivoluzione né una guerra civile; c’è la terza guerra mondiale per procura; noi siamo un giocattolo nelle mani delle grandi potenze». L’alto prelato metteva a nudo, in quel momento costretto alla sincerità, una realtà tenuta volutamente nascosta: in Siria si sta combattendo una guerra organizzata da potenze statali esterne per misurare i loro rapporti di forza nella regione ed essa continua e trova nuovo alimento dal fatto che i vari briganti imperialisti, sia regionali sia globali, non hanno ancora trovato le condizioni per un compromesso di divisione, per rinnovare, cento anni dopo, gli accordi Sikes-Picot che avevano spartito l’area mediorientale tra l’imperialismo inglese e quello francese.

    L’intero corso di questa guerra feroce sta a dimostrare quanto lo scontro di interessi regionali tra Iran, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Israele, come quello più vasto tra Stati Uniti, Russia e Cina, sia stato determinante nel suo deflagrare, nella sua condotta, come lo sarà per il suo cessare.

    In questo quadro le stragi e i misfatti perpetrati dai diversi gruppi guerriglieri, dall’Isis come dall’esercito siriano e dai suoi alleati, i bombardamenti aerei indiscriminati contro la popolazione civile, gli attacchi terroristici, sono tutti strumenti utilizzati scientemente per attizzare la guerra, per propagare il terrore e l’odio tra la popolazione, per spezzare ogni residua possibilità di organizzazione autonoma del proletariato di Siria e di Iraq.

    Una guerra che è reazionaria, non lo si dimentichi mai, su entrambi i fronti.


    In questa fase della guerra è stato determinante il recente voltafaccia “sunnita” Turchia, che ha rinunciato di fatto a pretendere la caduta del regime alawita di Assad, e il conseguente accordo tra Ankara e Mosca. La fine del sostegno ai gruppi armati “sunniti” anti-Assad che presidiavano una parte di Aleppo, ha causato la loro sconfitta e la presa della città da parte dell’esercito siriano e dei suoi molti alleati, in primis le milizie sciite controllate dall’Iran. In cambio la Turchia ha ottenuto mano libera nella sua azione contro i guerriglieri curdi siriani, come si rileva dall’accordo di tregua entrato in vigore il 29 dicembre scorso, tregua che non comprende quei gruppi che i vincitori definiscono “terroristi”, cioè l’Isis, le formazioni legate ad Al-Qaeda e quelle loro alleate, ma anche i guerriglieri curdi dell’YPG, braccio armato del Partito di Unione Democratica (Pyd) che nei mesi passati, con l’appoggio dell’aviazione russa prima e di quella statunitense dopo, hanno condotto l’offensiva proprio contro l’Isis nella Siria nord occidentale, al confine con la Turchia.

    Poco sappiamo dei colloqui di pace che alla fine di gennaio inizieranno ad Astana, in Kazakistan e che vedranno protagonisti gli attuali vincitori, la Russia, la Turchia e l’Iran. I gruppi ribelli che hanno accettato il cessate il fuoco, hanno denunciato che l’esercito siriano ha ripreso l’avanzata nella Valle di Barada, vicino a Damasco, per riconquistare quella zona dove si trovano le principali fonti di approvvigionamento d’acqua per la capitale. Possiamo prevedere che poi sarà la volta di Idlib, una delle città ancora nelle mani dei rivoltosi finché non sarà ristabilito il controllo del regime su tutta la parte centro occidentale della Siria, sulle città e sulle linee di comunicazione.

    La Turchia, da parte sua, si occuperà di mettere in sicurezza il suo confine meridionale riportando a più miti consigli le milizie curde dell’YPG che hanno costituito in territorio siriano una entità indipendente.

    Qualunque sia l’aspetto che prenderà questa “pace”, che essa preservi o meno una Siria unita o, ancora peggio, la divida in cantoni su base etnica o religiosa, essa sarà nell’interesse dei paesi imperialisti, reazionaria quanto questa guerra.

    Nonostante la situazione di controllo militare del territorio, di feroce repressione di ogni forma di opposizione, di scontro tra le varie etnie e religioni, il proletariato della regione dovrà cercare, appena ve ne sarà la possibilità, di ritrovare il cammino della sua unità su basi di classe, per la difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro. Solo così potrà superare le divisioni che sono imposte e alimentate dall’imperialismo e dai suoi sgherri politici e sindacali locali.

    Non è da una inconsistente prospettiva democratica che anche il proletariato siriano e iracheno può aspettarsi la sua emancipazione, ma solo dalla lotta internazionale per l’abbattimento di questo regime di sfruttamento di guerra e di terrore.

    PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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