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Un'intervista ad Aldo Milani

(23 Febbraio 2017)

Dalla rivista nuova unità, periodico comunista di politica e cultura – febbraio 2017

nuova unità aldo milani

La provocazione e la trappola ordita da Levoni e dalla questura di Modena contro il Sicobas e il suo coordinatore nazionale crolla sotto la mobilitazione dei lavoratori.

Il 26 gennaio, durante una trattativa sindacale a Modena, viene arrestato in diretta per “estorsione” Aldo Milani, coordinatore nazionale del Sicobas. Come prova dell’infamante accusa di aver intascato bustarelle in cambio della pace sociale, la questura fa trasmettere su tutte le tv uno spezzone di pochi secondi, senza audio, in cui si vede uno scambio fra Levoni, grosso industriale delle carni, e un uomo in giacca e cravatta seduto a fianco di Milani (un certo Piccinini, consulente di Levoni) che prende una busta e dopo averla intascata fa il segno delle manette. La trappola scatta e Milani viene arrestato. Subito le edizioni dei giornali on line alimentano la macchina del fango riportando con grande enfasi la notizia dell’arresto di due sindacalisti del Sicobas, facendo apparire il consulente del padrone come un iscritto al Sicobas

Appena si sparge la notizia dell’arresto di Aldo Milani, centinaia di “facchini” aderenti al Sicobas scendono in sciopero contro il tentativo di criminalizzazione del loro coordinatore nazionale e del sindacato, e nelle ore successive centinaia di lavoratori della logistica, insieme a altri proletari e compagni solidali con lui, assediano il carcere di Modena, dove è rinchiuso Milani. Subito arrivano attestati di solidarietà (pochi per la verità) a Milani e al Sicobas da parte di altre organizzazioni, mentre alcuni sindacati, compresi quelli di base, per opportunismo o paura si dissociano dal Sicobas prendendo per buone le accuse della questura, e altri dubbiosi delle dichiarazioni della questura aspettano di vedere come finirà per prendere posizione.

Il giorno dopo il suo arresto, il 27 gennaio, la montatura si sgonfia e Aldo Milani viene scarcerato.

Ad attenderlo all’uscita del carcere centinaia di lavoratori e compagni. Per conoscere meglio i fatti riportiamo l’intervista di Aldo a nuova unità.



Intervista ad Aldo Milani, Coordinatore nazionale del SiCobas

di Michele Michelino



Domanda: Dopo i fatti che ti hanno visto finire in galera e la montatura sul tuo arresto, molti si sono chiesti “ma come hanno fatto a farti cadere nella trappola? Come l’hanno preparata?”



Risposta: Rispondo agli sciocchi perché qualcuno ha detto “o è un coglione o è uno che ha accettato di essere corrotto”. Io non sono un corrotto e non sono un coglione. La vicenda si è svolta in questi termini: noi avevamo in corso una vertenza non con i Levoni, ma con la Bellentani un’azienda sempre del settore delle carni, dove questo Piccinini (quello della bustarella) concorre con altri due fornitori per questa azienda.

Precedentemente, al nostro coordinatore in luogo era stata presentato Piccinini come un “lavoratore buono”; io invece in un’assemblea generale dissi che Piccinini non era poi tanto buono perché era già stato condannato ad 1 anno e 8 mesi in seguito a denunce fatte da noi e il suo capo era stato condannato a 7 anni e 8 mesi. Quindi la mia posizione su questo signore era abbastanza chiara. Questo signore, essendo venuto a sapere dai delegati che mi ero espresso in questi termini, mi scrisse una mail dicendo che lui era cambiato dopo questa esperienza fatta 4 anni prima, e che aveva messo in piedi un’associazione di sostegno ai bambini siriani colpiti dalla guerra, che non era un eroe ma che, in piccolo, anche lui faceva delle cose.

In seguito si fece vivo perché c’era un problema che riguardava questo appalto (la Bellentani). Non vinse lui l’appalto, vinse l’altra cooperativa e facemmo l’accordo con l’altra cooperativa, il migliore accordo in assoluto. Migliore in termine qualitativo, perché perquarant'anni tutti i lavoratori delle carni che erano presenti sul territorio non hanno mai avuto un accordo specifico degli alimentaristi. Fino a quel momento c’erano stati accordi che riguardavano le pulizie e altri temi, ma che non riguardavano il lavoro specifico.

In varie riunioni in Prefettura, a cui ho partecipato io e altri nostri compagni, anche l’ispettore dell’Ispettorato del Lavoro ha sempre sostenuto che si trattava dell’accordo più giusto, quello degli alimentaristi. Però non l’hanno mai applicato. Ma l’accordo c’era, ottenuto grazie agli scioperi del 90% dei lavoratori dell’azienda che ogni giorno hanno scioperato. Avevamo raggiunto il risultato e questo, secondo noi, è stato l’elemento dirompente.

Dato che Piccinini concorreva anche per l’appalto alla Levoni, dove erano stati licenziati 55 operai della cooperativa precedente. Per questo i lavoratori, non io, gli chiesero se, nel caso l’avesse vinto, avrebbe assunto i licenziati. Piccinini disse di si, ma chiese che anche i lavoratori facessero un po’ di pressioni con Levoni perché lui ricevesse l’appalto. Noi rispondemmo che Levoni non voleva parlare con noi, che si rifiutava di incontrare i lavoratori, che facesse lui pressione per ottenere almeno un incontro con i lavoratori. I Levoni sostennero che l’incontro l’avrebbero fatto informalmente solo con me, Aldo Milani, in quanto coordinatore nazionale del SiCobas, perché con gli altri operai che stavano scioperando il clima era troppo teso. Inoltre avevano visto dei video e mi consideravano una persona “seria”.

Io andai a questo incontro il pomeriggio, quello in cui mi hanno arrestato anche se io non dovevo andarci perché nello stesso orario avevo un incontro alla Fercam di Parma. Fu Piccinini ad insistere perché ci fossi in quanto (secondo lui) più autorevole nell'indicare alcuni passaggi, prima che si incontrassero i legali nei primi giorni di febbraio. Allora Non sapevo che al mattino, quando gli operai avevano circondato la macchina dei Levoni, questo impaurito, aveva detto ai lavoratori che si sarebbe incontrato con me nel pomeriggio.

Io non sono mai intervenuto a Modena ma, vista l’assenza di rapporti sindacali col padrone che non voleva vedere gli altri operatori del Sicobas, decisi di andare, dopo aver frettolosamente discusso, appena informato, con i lavoratori una serie di passaggi. Il nostro errore, se così si può dire, è stato di non essere abbastanza informati delle soluzioni possibili dal punto di vista sindacale, al di là della questione fondamentale dei licenziati. Inoltre c’era in ballo una somma cospicua dal punto di vista economico per le vertenze legali che avevamo fatto, con una prima udienza favorevole ai lavoratori. C’era anche aperto il problema dei lavoratori licenziati che, non avendo pagato la cooperativa i contributi, non potevano avere neanche la NASPI (1).

ln un primo incontro il 12 dicembre, avevo prospettato un accordo se si rispettavano certe questioni.
Allora chiesi due cose. Dal momento che c’erano due vertenze contrattuali, perché non unirle invece che andare davanti a un giudice una prima volta, e poi dopo un mese una seconda volta davanti allo stesso giudice per due cause simili che potevano essere unificate. Quindi chiesi che i rispettivi avvocati si incontrassero per unificare le due cause. Il nostro obiettivo è di arrivare a una soluzione, perché secondo quanto dicevano i lavoratori si continuava a lavorare, mentre i Levoni sostenevano il contrario.

Levoni , nel frattempo, aveva spostato la scarnificazione della carne e il 20% lo faceva venire dalla Spagna, giustificando così i 55 licenziamenti avvenuti in due reparti. La carne trattata, però, risultava carne italiana. Ho fatto presente che questo è illegale, e che noi avremmo tutelato i lavoratori, facendo anche delle denunce; tuttavia, se nel frattempo Levoni avesse aperto altri reparti, noi proponevamo di fare una graduatoria in modo da assumere per primi gli operai licenziati. Inoltre avevo chiesto un esodo, un incentivo di almeno 12 mensilità più la Naspi che per averla i lavoratori, Levoni doveva versare ancora tre mensilità per ogni lavoratore, circa 100 mila euro, perché la cooperativa non aveva versato questi tre mesi di contributi.

Altro problema di cui abbiamo discusso: dato che la cooperativa non aveva pagato i contributi e quindi i licenziati non avevano diritto alla NASPI, abbiamo chiesto a Levoni che pagassero loro i 3 mesi necessari per usufruirne. Questo il primo incontro, dopo il quale, senza che io ne sapessi niente, il signor Levoni nomina suo consulente Piccinini, e gli da 10.000 euro in quanto tale, che lui registra nella contabilità della sua azienda. Tutto regolare ….. soldi dati al suo consulente. In più gli affida la gestione di una cooperativa in quel di Udine per conto della Levoni. Ecco instaurato il rapporto tra Levoni e Piccinini.


D.: Ti hanno fatto l’accusa infamante di aver preso delle bustarelle, e subito tutti i media – giornali TV ecc. – hanno dato grande risalto alla notizia trasmettendo però solo le immagini registrate dello scambio di buste tra Levoni e Piccinini ma non il sonoro. Eppure il giorno dopo, quando il giudice, dopo aver ascoltato anche il sonoro ti ha scarcerato, solo in pochissimi hanno pubblicato un trafiletto per darne conto, gli altri hanno bellamente ignorato il fatto. I lavoratori del SiCobas e pochi compagni solidali (noi di nuova unità tra quelli) hanno denunciato subito che la trappola non era solo un attacco a te, ma anche un segnale e un attacco a tutto il movimento anticapitalista che si muove fuori dalle “compatibilità” del sistema.

Sapevi che i tuoi compagni erano scesi subito in lotta per la tua scarcerazione? Come giudichi la loro risposta? Cosa pensi del fatto che tanti, troppi sindacati e organizzazioni varie – per opportunismo? per convenienza? – si sono “bevuti” subito le veline della questura? Quali altri provvedimenti ha preso la magistratura contro di te?



R.: Si, immaginavo che i miei compagni avessero capito la trappola che mi avevano teso e pensavo che avrebbero reagito all'attacco all'organizzazione. Adesso, dopo la scarcerazione per mancanza di indizi, ho fatto ricorso rispetto alla privazione della libertà di movimento impostami dalla Procura, che oggi mi impedisce di muovermi da Milano. Questa è una misura punitiva. Ad esempio, per andare dal mio avvocato a Bologna, mi hanno dato 4 ore tra andata e ritorno. Il mio avvocato, ritiene che - viste tutte le carte - ho il 90% di possibilità di essere completamente scagionato e quindi poi di essere libero di muovermi su tutto il territorio nazionale fino al processo, che comunque ci sarà. Io ritengo invece, al contrario, che al 90% non succederà così, nonostante che la provocazione abbia avuto caratteristiche molto maldestre e provinciali, per come è stata fatta e poi gestita. Non è tanto un problema di prove, ritengo che vogliano cercare di limitare l’attività del sindacato e questo comporterà, secondo me, che andranno fino in fondo su questa linea.

Il motivo è che noi siamo andati a rimestare sul serio nella merda. Nella regione i DS hanno i nervi scoperti. Perché Modena rappresenta il centro in cui sono presenti tutti i settori industriali, dalla carne (5.000 dipendenti che ci lavorano), ai mattoni, alle porcellane, ai metalmeccanici ecc. All'interno di questi settori, nei mesi precedenti, ci sono state almeno una ventina di scioperi - anche della CGIL – nel settore delle carni, e non hanno concesso né a noi né a loro il contratto di categoria.

Ma noi siamo riusciti a entrare all'interno della Levoni, con 200 iscritti su 200 lavoratori. E’ chiaro che per loro questo significava mettere in discussione una questione che non è soltanto il rapporto operai/ padroni/ stato. Lì c’è tutta l’organizzazione capitalistica, che va dall'impiegato comunale al consigliere comunale, al consigliere regionale, al parlamentare o al poliziotto ecc. Tutto è strettamente legato a questa organizzazione e gestione dell’ex PCI, ora PD, che oggi sta scricchiolando. Questi accordi stanno cominciando a mettere in discussione questo assetto e si tratta di cose ottenute con un solo modo: la lotta.


D.: Oltre al tuo arresto, ci sono stati altri provvedimenti repressivi contro altri lavoratori del SiCobas?



R.: Si da tutte le parti. Stando arrivando denunce, che cercano di colpirci non solo dal punto di vista legale, ma anche finanziario ed economico. Abbiamo una denuncia per cui dovremmo pagare 200.000 euro alla CALT per uno sciopero che abbiamo fatto; 70 denunce a Piacenza per la CEVA e altre ancora. Oltre ai provvedimenti penali verso l’organizzazione, stanno colpendo personalmente ogni lavoratore che ha partecipato ad una lotta. Tre giorni dopo che sono uscito dal carcere, all’Interporto di Bologna è stata fatta una riunione del cosiddetto “tavolo della legalità”, per combattere mafia e camorra. Ma l’Emilia Romagna è piena di mafiosi e camorristi proprio in questo settore. A questo “tavolo della legalità” è stato formulato un accordo nei fatti tra padroni, questurini e sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, per arrivare ad una posizione comune di denuncia da parte dei confederali di quelle azioni che loro ritengono violente, illegali. I padroni sostengono inoltre che – dato che uno sciopero fatto alla DHL arreca danni a tutto l’interporto – le denunce vanno fatte non solo là dove concretamente si sciopera, ma anche da parte di tutti gli altri settori “danneggiati”. Denunce non solo contro l’organizzazione sindacale, ma anche segnalazioni alla DIGOS – come se ogni fornitore disponesse di una sua polizia “privata” – di tutti i lavoratori individuati come agitatori. Nel dispositivo della mia denuncia si sostiene che io manderei in giro degli agitatori a fare gli scioperi e quindi andrei successivamente a chiedere eventualmente la parte economica . Questa è la loro tesi: dimostrare che lo sciopero è un’estorsione. Lottare per il salario e per i diritti, per i padroni è un’estorsione. In realtà è il diritto di sciopero che vogliono mettere in discussione


D.: Il capitalismo acuisce la concorrenza fra lavoratori e scompone la classe operaia, mette operai disoccupati contro gli occupati, i precari contro quelli a lavoro fisso, i dipendenti pubblici contro i privati. Nelle lotte economiche e sindacali dei lavoratori della logistica, invece, si assiste a fenomeni di ricomposizione di classe, fra operai/e italiani e stranieri e, nonostante le difficoltà e la repressione padronale e dello stato, quest’unità di classe ha prodotto anche dei risultati nella lotta contro lo sfruttamento capitalista e per ripristinare i diritti umani. In queste lotte i lavoratori hanno scioperato e manifestato in modo più o meno cosciente, riconoscendosi come appartenenti alla stessa classe. Tu come vedi il discorso della solidarietà di classe? Si può estendere dalle cooperative agli altri settori operai e proletari?

R.: Io credo che avvenga anche per linee sociali. Prendiamo l’esempio di Modena: nella media azienda il 40% è formato da immigrati, e così è anche nella metallurgia, nella chimica, ecc. L’esperienza che si fa non viene tramandata soltanto attraverso il volantino o l’intervento dell’organizzazione sindacale o politica, ma avviene attraverso la conoscenza di quel tipo di lotte e quindi si diffonde. Almeno per quanto riguarda l’area del Nord, avviene così un processo di allargamento della lotta.

Inoltre c’è un elemento che molte vediamo solo sul piano statistico e mai dal punto di vista dai processi che mette in moto realmente. La crisi ha messo in movimento situazioni particolari.

Facciamo un esempio: la DM di Bologna, 40 lavoratori che lavoravano in cooperativa, in due anni sono stati messi fuori dal processo lavorativo. Lo stesso nel settore metalmeccanico, ci siamo trovati di fronte a lavoratori iscritti alla FIOM che ci contrastavano e non permettevano – alleati al loro padrone – che lì noi facessimo assemblee nella loro fabbrica. Un anno e mezzo dopo, gli stessi lavoratori della FIOM vengono a iscriversi al SiCobas perché buttati fuori dall’azienda: c’è la crisi e il loro sindacato non ha saputo dare la risposta adeguata per contrastare questo processo .

Certamente la crisi fa sì che oggettivamente avvengono queste cose, si creano condizioni più favorevoli, ma ci vuole anche l’aspetto soggettivo, la capacità di interpretare – anche se con molte difficoltà - questi processi .

Un’organizzazione come la nostra ha questa caratteristica e, potenzialmente, è già un’organizzazione “internazionalista” perché è formata anche da operai che provengono da varie situazioni, ma è incapace di proiettarsi su un piano nazionale . Quindi non è che non ci sia ideologicamente la volontà di unificare, c’è però la formazione dei quadri che sono molto legati all'aspetto aziendalistico-territoriale. Ecco perché bisogna fare un salto di qualità.

Noi vediamo in queste lotte, almeno dove siamo presenti, a Bologna e in altri luoghi, che abbiamo almeno 15/ 20 lavoratori immigrati che sono loro stessi gli operatori sindacali in queste situazioni, nel senso che cominciano a formarsi dei quadri che hanno un’idea molto più ampia di quella che è una visione solo aziendale. Io stesso, in tutte le riunioni, ho sempre calcato non solo sugli aspetti aziendali o contrattuali, ma che facevamo lotte contro il capitalismo nelle sue varie forme, semplicemente, non in maniera ideologica, ma per far vedere quello che realmente è.

D.: Oggi viviamo in un momento in cui la lotta di classe è latente. La mancanza di un’organizzazione di classe (politica e sindacale) fa sì che gli stessi operai non riescano più a riconoscersi come appartenenti alla stessa classe sociale. Ormai anche nel lessico comune non si parla più di padroni, ma di datori di lavoro; non più di operai e proletari, ma di risorse umane; si parla sempre più di società civile, di battaglie per la parità di genere, di diritti dei “cittadini” in generale. Le lotte dei “facchini”, dei lavoratori della logistica, ripropongono con forza il protagonismo della classe operaia. Tuttavia, anche le lotte economiche vincenti (sempre più rare) riportano di attualità il problema del rapporto fra lotta economica e lotta politica.

In parte hai già risposto, affermando che si sta formando con fatica un’avanguardia, ma questo fenomeno avviene in tutto il SiCobas?

R.:
Questo sta da sempre nella mia concezione teorica, ma praticamente sta avvenendo anche nel SiCobas.

Certo, io non voglio sentirmi napoleone, ma credo di aver avuto un ruolo in questa direzione.

In ogni caso l’oggettività spinge anche in questa direzione e ci sono settori di lavoratori che non si accontentano più di andare a dire “il facchino non ha paura” nello scontro con la polizia e il capitale, ma cominciano a porsi il problema di come mai un’azienda, dopo che si è raggiunto il miglior contratto possibile, viene chiusa.

Cominciano a riconoscere che questo è il capitalismo, e quindi a porsi il problema di come battersi contro questa forza. Hanno magari meno legami col passato e più una tradizione di lotta, che magari va strutturata e organizzata meglio. Per me l’ultima manifestazione, quella del 4 febbraio, è stata meravigliosa come risultato finale ma ha dimostrato anche un caos organizzativo e la nostra incapacità a gestire quel tipo di processo. Si è avviato spontaneamente, anche come risultato di una serie di esperienze già fatte e quindi un po’ più strutturate.

Non dico che non serve un’organizzazione ma, fondamentalmente, non puoi pensare di dare solamente parole d’ordine ideologiche. Bisogna organizzarli, strutturarli. Mentre ero in carcere, l’avvocatessa mi ha detto che i compagni domandavano chi doveva gestire questa situazione da fuori. Io ho dato subito l’indicazione per un compagno, perché era quello più capace di muoversi, e lei quando è uscita, dopo il colloquio in carcere, ai compagni ha detto: “voi sapete cosa fare”.

D.: L’esperienza dimostra che chi lotta può vincere o perdere, ma può pagare anche di persona come nel tuo caso. Tuttavia, da quello che dici, la lotta sta facendo crescere in alcuni anche la consapevolezza che non si tratta solo di rivendicare diritti e salario, ma anche di battersi contro il sistema del lavoro salariato che continua a riprodurre gli operai come schiavi e i padroni come sfruttatori. Questo significa che la necessità dell’organizzazione politica cominciano a porsela anche alcuni lavoratori
?

R.: Si, io credo che il sindacato non debba più avere semplicemente le stesse caratteristiche del passato, anche per un fatto oggettivo. Secondo me, in Italia non si è prodotto un Partito Comunista in grado di poter interpretare le esperienza più genuine dei lavoratori ed è chiaro che chi si avvicina alla lotta - anche solo sul piano economico - deborda sul piano politico. Non dice più "questo è sindacale e questo è politico” ma necessariamente sperimenta che è lo Stato che interviene direttamente, non sono solo le forze tradizionali in campo. Il problema è che l’articolazione di questa battaglia politica deve stare, per come la penso io, in un concetto leninista, nella visione di un partito e di un’organizzazione.

Io penso - ne avevo parlato anche con te - che dovremmo riprendere questo tema, che avevamo lasciato per problemi che si erano posti dal punto di vista anche organizzativo, causati anche dal passaggio dallo SlaiCobas al SiCobas, a forme anche ibride (“non è proprio il partito e non è proprio il sindacato”). Ma penso anche che, se si comincia a discutere su cosa fare, tra comunisti e avanguardie operaie ci si può organizzare. Il problema dei lavoratori comunisti è all'ordine del giorno.


(8 febbraio 2017)





Nota (1) La riforma degli ammortizzatori sociali introdotta con il Jobs Act, ha previsto, per chi perde involontariamente il lavoro a partire dal 1° maggio dello scorso anno una nuova indennità di disoccupazione 2017: NASpI, Asdi, Dis-Coll e ricollocamento:

La NASpI 2017 è il sussidio di disoccupazione universale che sostituisce dal 1° maggio scorso l'assegno unico di disoccupazione introdotto dalla Riforma Fornero. Tale indennità, prevede nuove modalità di calcolo che influiscono sia sulla misura stessa del beneficio che sulla sua durata. La NASpI è un assegno che spetta ai lavoratori in disoccupazione involontaria, quindi chiunque perde il lavoro
a partire dal 1° maggio scorso, ha diritto ad un assegno di disoccupazione se ha lavorato almeno 3 mesi.

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