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Crisi imperiali e nazionalismi

(16 Luglio 2017)

Il Partito Comunista Internazionale ci ha inviato questo scritto, tratto da "Comunismo" n. 82 - giugno 2017. Ritenendolo tutt'altro che sorpassato dagli eventi e anzi di estremo interesse, lo pubblichiamo volentieri.

Quella delle passerelle è una pratica sperimentata per gli affari degli Stati capitalistici. Discussioni tra capi, reggicoda e alti funzionari, posizioni distanti che alla fine si ricongiungono e così via. Il 2017 ne ha viste di queste rappresentazioni, l’ultima a Taormina a giugno. Ed erano solo “in Sette”; a luglio si ritroveranno in 20, ad Amburgo, nel summit che sarà presieduto dal cancelliere tedesco, proprio lei, che ha dichiarato che “i tempi in cui potevamo fare affidamento sugli altri sono passati”, in risposta al presidente ossigenato che aveva sentenziato che “i tedeschi sono cattivi, molto cattivi”.

Storia divertente, quella del G7, nato nel 1975 come G6, diventato G7 nel 1976 con il Canada, poi ad 8 Stati nel 1997 con la Russia. È tornato a 7 nel 2014, dopo l’espulsione della Russia “per i fatti di Ucraina”, con sanzioni economiche fortemente volute dagli USA, che hanno pesantemente penalizzato i flussi di esportazione tanto tedeschi quanto dei paesi del sud Europa, un affare grande davvero, in specie per l’Italia che non è riuscita, come molte industrie di Germania, ad uscire dalle maglie della rete.

I Grandi del mondo si riunivano annualmente per “fare il punto della situazione”, e dimostrare che tutto era sotto controllo, che si stava lavorando per la pace mondiale e il benessere dei popoli. Tutta propaganda per il pubblico. Poi gli accordi, i trattati, gli impegni veri, quando c’erano, si facevano fuori dal cono dei riflettori, come fuori ne restavano tensioni e scontri. Ciò che appariva era aggiustato e sistemato in ponderosi documenti finali che promettevano sempre il meglio di prosperità sociale, economia in sviluppo e “sostenibile”, eliminando ogni spunto polemico, ogni frizione.

Questa volta non è andata così. Le dure dichiarazioni delle due parti, quasi insulti, sono state esplicite e pubbliche. Il presidente americano si è spinto fino a denunciare gli accordi di Parigi sul clima, suscitando un coro di reprimende internazionali.

Quegli accordi sono soltanto una sceneggiata per dar sollievo alla cattiva coscienza del capitalismo e non significano davvero nulla per la protezione dell’ambiente, che avrebbe invece assoluto bisogno della sparizione del sistema del profitto per non essere sconvolto. Accordi, per altro, dei quali il sistema politico e produttivo americano non ha mai tenuto alcun conto. Lor signori lo sanno benissimo, e valutano quella decisione di Trump per ciò che è: una dichiarazione di guerra ai trattati internazionali imposti agli Stati Uniti, o che gli Stati Uniti decidano di eliminare, non fosse altro che per ribadire la loro forza.

Il principale motivo del contendere riguarda, sul terreno europeo, per ora il commercio internazionale, piuttosto che presunte egemonie politiche, o meno ancora militari. Tra l’imperialismo ancora più forte alla scala mondiale e prima potenza capitalistica, e la Germania, che in un processo perfettamente naturale nel sistema delle nazioni si sta costituendo come potenza imperiale locale, il rapporto è ancora solido e in questo momento le alleanze militari non sono messe in discussione. A questo stadio i due capitalismi nazionali non sono in contraddizione, si possono fare una limitata guerra commerciale, ma il resto non è in discussione

Su quali saranno le dinamiche future non è oggi possibile individuare tendenze certe, ma ancora tra Germania e Usa non è arrivato il momento della rottura.

Solo si manifesta la difficoltà a mantenere un allineamento che bene o male ha caratterizzato gli anni passati ed ha costituito un fronte solido di alleanze politiche e militari nei confronti del grande vicino dell’Est. Poi le politiche economiche e finanziarie, com’è uso tra briganti imperiali, possono viaggiare su altri binari, il che è sempre accaduto nel mondo della politica borghese senza destare alcuno scandalo.

Anche senza andare a riproporre le vicende della politica commerciale e monetaria degli Stati Uniti negli anni ’80 verso Germania e Giappone, i quali si erano rafforzati a suo scapito sul piano finanziario e commerciale, quando l’amministrazione americana minacciò una politica decisamente protezionistica, nell’attuale decennio di crisi generale del sistema capitalistico la situazione del debito federale sempre crescente e del disavanzo commerciale col resto del mondo dimostrano la sostanziale debolezza del complesso economico e militare più forte di fronte alle sfide economiche provenienti dagli altri predoni.

La reazione non poteva mancare. Un assaggio significativo fu l’attacco alla tedesca Volkswagen portato qualche tempo fa dall’amministrazione americana, un semplice ed evidente episodio di guerra commerciale da parte di un complesso politico-produttivo-militare cui nulla interessa davvero di ambiente ed inquinamento. Che il Presidente di allora fosse di altro “colore”, che la bugia dei “crediti di CO2” trovasse spazio e considerazione presso quella amministrazione, fa parte del copione.

La “globalizzazione”, la politica di libero scambio, che oggi favorisce Germania, Cina e Russia, contrasta con gli interessi degli Stati Uniti. E gli Stati Uniti tendono a denunciare e ritirarsi dagli accordi commerciali globali, puntando su accordi bilaterali separati.

Non può mancare, in questo clima di scontro latente fra capitalismi nazionali, il risorgere dei nazionalismi. È evidente che gli altri capitalismi europei soffrano per la formazione di un polo imperialistico a guida tedesca, conseguenza di capacità produttive, di surplus commerciale, di forza industriale; quindi di preminenza politica. Ed è altrettanto prevedibile che sorgano, in opposizione a questo, movimenti di stampo nazionalistico, più o meno tollerati o incoraggiati, ma per il momento di natura essenzialmente piccolo borghese e ultra-reazionaria.

Particolarmente impotente quello che vede nella Unione Europea a conduzione tedesca la negazione delle identità nazionali e della libertà di scelta di politiche economiche e finanziarie nazionali, che i “lacci” comunitari impediscono o limitano. Il tutto travestito da difesa della democrazia, delle libertà fondamentali, del sacrosanto diritto a condurre i propri affari e sfruttare i “propri” operai, in nome del bene nazionale, e non “dell’Europa dei burocrati”. Le ricette per la salvezza nazionale, una volta sbarazzatisi della Germania, dell’Euro e dell’Europa, sono le più disparate, ma sempre in osservanza del sacro principio del profitto capitalistico che, moderato e nazionale, solo potrebbe accompagnare la “uscita dalla crisi”.

È una storia vista e rivista. Ogni classe e ogni mezza-classe esprime le sue ideologie, talvolta in conflitto fra loro. Ma tutta questa gente, stretta intorno all’interesse nazionale, i piccoli borghesi accodati ai grandi, la ritroveremo, quando sarà il momento del risorgere di un vero movimento di classe antiborghese, anticapitalista e contro tutte le patrie e nazioni, con la camicia del “colore giusto” addosso, avversari della rivoluzione.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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