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(20 Febbraio 2010) Enzo Apicella
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L’INDIPENDENZA DELL’INDIA E LA FASE CONCLUSIVA DEL COLONIALISMO

(15 Agosto 2017)

Gandhi

Gandhi

Oggi si compiono settant’anni dalla proclamazione dell’indipendenza dell’India ed eguale distanza di tempo ci separa dalla proclamazione dello stato di Israele, mentre in questo 2017 si celebrano anche i 55 anni dall’indipendenza dell’Algeria.
Occorre ricordare prima di tutto che a quegli avvenimenti tutto il mondo progressista europeo guardava con ansia e ammirazione considerandoli come punto – simbolo, di vera e propria “rottura”, di un processo di liberazione dei popoli che si pensava sarebbe potuto essere considerato come la vera e propria “chiave di volta” per una profonda trasformazione degli equilibri politici e sociali dell’intero pianeta.
Erano tempi di grande fermento all’Est come all’Ovest nel mondo diviso in blocchi.
La gran parte di quelle attese furono deluse ma ancor oggi vale la pena di ricordare quella fase storica: ed è quello che si cercherà di fare attraverso questo abbozzo molto parziale di ricostruzione storica.
Il tema della colonizzazione e della decolonizzazione investe tanti aspetti della vita mondiale che affrontarlo, specialmente in tempi nei quali quella che è stata definita come “globalizzazione” e che ha presentato aspetti di vero e proprio “neo colonialismo” (con relativo aspetto bellico), espone ai rischi di un’eccessiva semplificazione.
L’INDIPENDENZA DELL’INDIA
In India i leader del partito indipendentista del Congresso avevano risposto al coinvolgimento senza consultazione nella guerra sia con l’aperto dissenso sia con una campagna di disubbidienza civile, proclamata nel 1940. Nel 1942 a una proposta inglese di indire, per la fine del conflitto, una consultazione popolare per l’ottenimento dello status di Dominion Gandhi rispose con una rivolta aperta che fu repressa e portò all’arresto di tutti i dirigenti del partito.
Gli inglesi allora, stretti dalla presenza giapponese in Birmania e Malesia, cercarono interlocutori più disponibili e cercarono di appoggiarsi sulla Lega Musulmana di Jnnah, il quale puntava sulla creazione di uno stato musulmano ponendo in secondo piano l’obiettivo dell’unità indiana.
Nel 1946 i rapporti tra i due partiti, quello del Congresso e quello della Lega Musulmana peggiorarono e, nello stesso tempo il viceré generale Wavell dichiarò che una politica di repressione delle istanze indipendentiste in India non fosse più praticabile.
La svolta conclusiva si ebbe con la nomina a viceré dell’ammiraglio lord Mountbatten: all’inizio del 1947, svanite le ultime speranze di riconciliazione, il governo di Londra si pronunciò in via ufficiale per il trasferimento dei poteri a “uno o più governi indiani”.
Per accelerare i tempi il Partito del Congresso accettò anche il principio dell’adesione al Commonwealth dei nuovi Dominions India e Pakistan, che ricevettero l’indipendenza nell’agosto 1947.
I capi induisti e musulmani dei principali partiti indipendentisti firmarono il trattato con la Gran Bretagna alla mezzanotte del 15 Agosto 1947 (lo scrittore Salman Rushdie ha collocato il suo più celebre romanzo proprio a quella data “I figli della mezzanotte”).
Sorse allora, oltre alla questione dei 500 principati indipendenti e il problema della determinazione dei confini tra di due Stati.
La commissione incaricata di tracciare il confine stabilì che lo stato musulmano avrebbe dovuto essere diviso in due parti, quella più abitata da musulmani: il Bengala attorno a Dacca e sul delta del Gange, e il Pakistan occidentale, nelle regioni del Belucistan, del Sind e del Punjab.
Una decisione fondamentale fu quella di assegnare il Kashmir in gran parte all’India.
L’incerta determinazione dei confini etnico – religiosi nel Punjab e nel Kashmir diede luogo a un imponente esodo di popolazione nelle due direzioni.
In un clima di terribili atrocità forse due milioni di persone persero la vita durante gli scontri che accompagnarono quell’esodo.
Gandhi stesso fu una delle vittime di questo clima d’odio, restando assassinato nel gennaio 1948 da un fanatico hindu.
Ma in relazione al Kashmir i rapporti tra India e Pakistan ebbero, a partire dal 1947, un andamento conflittuale, sfociato in momenti di guerra aperta (1965).
Un conflitto che dilagò anche nel Punjab, un’area d’incertezza che ha condizionato per lungo tempo la vita nel su-continente.
Nemmeno il Pakistan ha avuto una storia internazionale lineare.
Nel 1971 i crescenti conflitti tra due parti dello stesso Stato, così remote e così diverse per interessi strategici e condizioni economiche, portarono a una guerra civile dei Bengalesi orientali contro le forze del Pakistan occidentale presenti nel loro territorio.
L’appoggio indiano favorì la causa dei ribelli e portò alla nascita di uno Stato musulmano indipendente che assunse il nome di Bangladesh.
Molto più pacifica fu la transizione a Ceylon, toccata solo indirettamente dalla guerra.
Nell’isola lo sviluppo costituzionale poté continuare lungo i binari prefissati a Londra, sulla base della collaborazione con le élite tradizionali locali, prive di una base di massa e disposte al compromesso con gli europei.
Nel 1948 si giunse alla determinazione dello status di Dominions, secondo un modello di transizione che parve allora una formula ideale di compromesso tra gli obiettivi della metropoli e quelli della periferia imperiale.

IL QUADRO GENERALE NELLA FASE DEL SUPERAMENTO DEL COLONIALISMO
Il processo di colonizzazione definibile di stampo imperialista, acquistò un peso centrale nella vita internazionale nel corso degli ultimi decenni del secolo XIX e nei primi del XX secolo perché attraverso di esso si realizzarono formidabili concentrazioni di risorse e di potenza, grazie alle quali un numero molto limitato di paesi europei riuscirono ad acquisire il dominio di gran parte del pianeta.
Non vi è dubbio che l’imperialismo fu direttamente collegato alla crescita del sistema capitalistico in Europa e di questo rappresentò una delle sue massime espressioni.
L’assunto leninista che indica nell’imperialismo la fase suprema del capitalismo tocca senz’altro il punto centrale del rapporto coloniale.
In tal senso le colonie e gli imperi erano uno dei fondamenti della ricchezza e della potenza degli Stati europei e lo strumento del loro dominio mondiale.
Il colonialismo fu anche, e non va dimenticato, trasferimento di potere politico e di modelli organizzativi che si sovrapposero e sostituirono quelli autoctoni.
Un potere che esigeva collaborazione e complicità delle forze locali ma che suscitava la reazione di tutti coloro che venivano danneggiati nelle loro preesistenti potestà: politiche, economiche o spirituali che fossero.
Il colonialismo rappresentò inoltre una fase di colossale trasferimento di merci: materie prime verso la grande industria delle singole nazioni imperiali o prodotti verso i mercati coloniali, a condizioni protette o in regime di libera concorrenza ma pur sempre con il risultato di trasformare in modo radicale la vita economica dei vari territori colonizzati.
Il risultato di questi trasferimenti era la trasformazione delle società coloniali in società economicamente dipendenti dal nuovo assetto produttivo, protetto dal potere politico centrale.
Equilibri sociali antichi venivano travolti dal cambiamento e si generavano fenomeni di proletarizzazione, urbanizzazione, acculturazione tali da mutare profondamente i precedenti assetti politici, sociali, culturali.
In sintesi il sistema imperialistico aveva investito in modo rapace territori di vario grado di cultura, ricchezza, civiltà, organizzazione politica.
Aveva violentemente provocato cambiamenti sociali e politici, piegato etnie e modi di produzione alla logica dell’economia di mercato.
Aveva inserito l’Africa, che sino al 1870 era stata appena sfiorata dalle influenze europee, l’Oceania e vasti territori dell’Asia orientale che si aggiunsero agli antichi domini britannici in India e a quelli olandesi nell’arcipelago indonesiano.
Il risultato di questo complesso mutamento si manifestò alla fine in due modi, nessuno dei quali aperto alla persistenza dei sistemi imperiali:
1) La rivolta delle forze autoctone contro chi li aveva esautorate dal potere o dalle autorità tradizionali.
2) L’assimilazione delle critiche diffuse contemporaneamente in Europa contro il sistema dominante.
3) Per via di queste spinte opposte e concomitanti entrò così in crisi il controllo europeo e prese il via quel processo di enorme valore storico definito come “decolonizzazione”.

La seconda guerra mondiale rappresentò un vero punto di svolta per come la decolonizzazione si era presentata nel corso degli anni ’20 – ’30 se pensiamo allo scioglimento dell’impero ottomano e alla formazione della Turchia kemalista e al forte movimento impostosi all’attenzione mondiale per l’indipendenza dell’India.
Le potenze coloniali europee, che spesso durante le ostilità avevano invocato o imposto l’utilizzazione di reparti provenienti da territori coloniali per vincere una guerra basata sui principi della dichiarazione delle Nazioni Unite, si trovarono, dal momento del declino dell’Asse (1943 – 44) indebolite dallo sforzo bellico e impegnate nel processo di ricostruzione interna. Aveva così inizio un periodo di profondo mutamento nel complessivo contesto delle relazioni internazionali sul quale ebbe un’influenza enorme l’avvento della guerra fredda e la suddivisione in blocchi tra la sfera raccolta attorno agli USA e quella raccolta attorno all’URSS, in particolare dopo la vittoria comunista in Cina.Molti territori coloniali erano stati teatro della guerra: l’Africa settentrionale e quella orientale, il Medio Oriente sia pure in una dimensione limitata, tutta l’Asia orientale, sino a lambire l’India.
Nulla tornò come prima in quei territori.

QUALCHE RIFLESSIONE CONCLUSIVA

Quale valore può avere oggi questo principio di ricostruzione storica al riguardo della fase conclusiva del colonialismo?

Risposta difficile da fornire.

Al più si può tentare di elaborare un punto riassuntivo al riguardo della fase nella quale ci troviamo a proposito delle novità intercorse nel quadro delle relazioni internazionali.


Il quadro mondiale sta mutando rapidamente di segno rispetto alla fase contraddistinta dalla caduta dell’URSS, dall’accelerazione della globalizzazione, dall’assunzione da parte degli USA del ruolo di “gendarme del mondo”.
Le guerre esplose in diversi punti del pianeta, e di nuovo in Europa, presentano un segno diverso: quello della possibilità di essere propedeutiche o anticipatrici di un nuovo conflitto globale tra superpotenze, asimmetriche tra loro dal punto di vista della forza militare ma entrambe impegnate nello svolgimento di una funzione di tipo imperialista.
Di nuovo di fronte, insomma, USA e Russia: con l’oggetto del contendere, sotto l’aspetto bellico, della conquista di “spazio vitale”.
L’Europa torna così a essere oggetto di contesa.
Una “già visto” però soltanto in apparenza.
L’obiettivo della pace assume una valenza prioritaria, quasi di sintesi delle contraddizioni di questa fase della modernità: di sintesi e di riassunto al riguardo delle stesse prospettive di permanenza in vita dell’umanità sul pianeta.
Prospettive messe in discussione dall’assalto capitalistico alle risorse naturali, al territorio, all’ambiente. Assalto spinto fino al punto di alterare equilibri millenari e far presagire una vera e propria “espulsione” della vita umana dal globo nel giro di qualche generazione.
Senza la pace non vi può essere “politica” ed è questo il motivo perché bisogna far ritornare questo punto in cima ai nostri obiettivi in qualunque punto del Pianeta si lotti per il superamento del capitalismo.
Sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sfruttamento dell’uomo sulla terra, sull’acqua, sull’aria, genocidi, stermini di massa: un intreccio mostruoso che trova proprio il suo punto di saldatura nell’idea di guerra globale.
Il pericolo di guerra è tornato avere una sua logica razionale e strumentale all’interno del concetto e della pratica della modernità.
Dentro la globalizzazione era venuta a mancare la distinzione tra guerra e terrorismo, fra civili e militari, fra Stati e gruppi armanti “privati” e questo aveva fatto smarrire il senso della piena internazionalizzazione del conflitto.
Gli USA, autonominatisi “gendarme del mondo” avevano risposto a vari livelli con la guerra “asimmetrica” contro il terrorismo, la guerra “umanitaria” collocata ben oltre il principio della non ingerenza, la guerra “preventiva” collocata ben oltre il divieto delle guerre di aggressione: il tutto raccolto, a un livello superiore, nella guerra per “l’esportazione della democrazia” che si fondava sull’ipotesi che esistessero nessi cogenti fra la qualità interna di un ordine politico e la sua propensione alla guerra e che in un mondo tutto democratizzato la guerra divenisse impossibile.
Da lì i tanti disastri sparsi per il pianeta, dal Medio Oriente, all’Asia Centrale, all’Africa del Nord a quella sub-sahariana a quella orientale.
Il movimento anti-globalizzazione è stato su questo balbettante se non silente proprio per via della sua impostazione iniziale che escludeva la sua piena politicizzazione, tagliando fuori ogni possibilità che da esso sortissero ipotesi politiche strutturate di trasformazione radicale della società.
Il movimento no-global, in sostanza si è definito semplicisticamente anti-liberista perché ha accettato, nel profondo, il dettato filosofico della “fine della storia” enunciato da alcuni politologi americani di destra ispiratori – appunto – della politica aggressiva dei repubblicani USA al governo tra il 1981 e il 2009, con la sola interruzione della presidenza Clinton che aveva però accettato e introiettato il principio di fondo appena enunciato, come del resto la presunta “sinistra” occidentale: dal new Labour di Blair alla SPD di Schröder , all’Ulivo italiano principalmente nelle versioni D’Alema e Veltroni. Con il governo D’Alema, ricordiamo sempre, protagonista dei bombardamenti in Jugoslavia nel 1999.
Il processo definito di globalizzazione, oggi apparentemente in regresso con una ripresa di forte tendenza nazionalista, ci lascia in eredità : il cosmopolitismo e il fondamentalismo. Questi sono appunto effetti opposti della globalizzazione. Mentre il cosmopolitismo si basa sul dialogo (difatti ‘cosmopolita’ deriva dal greco kosmos = ‘mondo’ e polites = ‘cittadino’) e sul rispetto per le altre culture, il fondamentalismo si pone come obiettivo l'affermazione della propria cultura in tutta la Terra ed è caratterizzato dalla xenofobia.
Da questo scontro a livello globale sono riemerse logiche di divisione in blocchi , nuovi pericoli di guerra, l’allargarsi dei fenomeni di razzismo, una ripresa del fascismo in varie forme, il crescere di tendenze alla dittatura nell’ambito di una crisi evidente delle forme ritenute “classiche” della democrazia liberale.
E’ il caso di riprendere la riflessione su tre punti :
1) La lotta per la pace come priorità di un’agenda che non dobbiamo farci imporre da nessuno;
2) L’internazionalizzazione del movimento per la pace
3) La connessione, sul piano teorico e politico, dell’idea della pace con il complesso delle contraddizioni riguardanti lo sfruttamento dell’uomo, della natura, della vita in ogni angolo del pianeta.
In sostanza: un nuovo movimento internazionalista che unisca pace e lotta per l’uguaglianza.
Un brusco cambiamento di rotta, un necessario mutamento di paradigma proprio nel rapporto tra pace e guerra nel contesto più ampio.
Un mutamento di rotta dal quale dovrebbe sortire un’ipotesi e una possibilità di cambiamento nell’azione e nella strutturazione politica in modo da affrontare assieme il tema del rischio di guerra, della crescita disuguaglianza, dell’abbandono di interi popoli a condizioni di povertà assoluta e di possibilità di distruzione.
E’ stato questo il risultato finale della conclusione dell’era coloniale?
Si sono affossate completamente le prospettive aperte dalla fase tumultuosa del processo di liberazione dei popoli aperto proprio dall’indipendenza dell’India di settant’anni fa ?
Difficile fornire una risposta: forse è il caso di aprire una riflessione particolarmente profonda.

Franco Astengo

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