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L’IDEOLOGIA SOCIALIMPERIALISTA
DELLA TENDENZA ALL’UNIFICAZIONE EUROPEA

(13 Settembre 2017)

È oggi una lettura assai diffusa quella secondo cui lo scenario europeo sia attraversato da imponenti, e talvolta sconcertanti, novità: la Brexit, l’avanzata dei populismi, l’effetto Trump sulle varie competizioni elettorali del Vecchio Continente.
Ma questi fenomeni rappresentano davvero una assoluta novità, l’imporsi repentino di fattori prima inesistenti?
Una riflessione più ponderata porta ad escluderlo.
Il quadro politico borghese britannico era già profondamente diviso prima dell’esito del referendum sull’appartenenza all’Unione europea e la possibilità per il Front National di guadagnarsi un posto in prima fila nel panorama politico francese, e più in generale l’emergere di un fronte elettorale ostile al progredire dell’integrazione europea, sono l’esito di un processo che ha ormai un respiro decennale.
Si può concordare sul fatto che questi fenomeni abbiano conosciuto un’intensificazione e un incremento di forza.
Frazioni borghesi penalizzate dalla cosiddetta globalizzazione, unite a strati piccoloborghesi e parassitari, sono riusciti a conquistare frange di proletariato non più controllato da una politica opportunista ormai in declino, garantendo in questo modo vittorie e avanzate elettorali alla formula populista.
Frequentemente quest’ascesa viene attribuita alle specifiche forme assunte dalle istituzioni comuni europee (un processo gestito da élite lontane dalla sensibilità e dalle effettive esigenze degli elettorati, dell’opinione pubblica, al servizio dei banchieri etc. Etc.).
Ma questo significa non tener conto di come tali forme non siano l’arbitrario disegno di cenacoli ristretti, ma l’esito compromissorio di profonde interazioni e lotte nel quadro imperialistico, europeo in primis.
Ben difficilmente l’Unione europea avrebbe potuto essere qualcosa di molto differente dall’attuale conformazione.
Per l’aristocrazia intellettuale borghese, l’unificazione politica è un’aspirazione e un’ideologia.
Ancora il 31 agosto, Sergio Romano, dalle pagine del Corriere della Sera, ribadiva che la costruzione della Ue è l’unico antidoto alle guerre che hanno devastato il suolo europeo.
L’opportunismo socialimperialista, riscoprendo improbabili padri nobili, ci appiccica il concetto di tendenza, nel tentativo di rendere credibili le aspirazioni borghesi a una lettura superficiale pseudo-marxista.
Coloro che interpretano la situazione attuale come novità o improvviso deragliamento dalla “normale” linea di sviluppo dell’ineluttabile integrazione politica europea, finiscono per ergersi a difensori di questa stessa linea, diventando paladini dei Corbyn o dei Macron.

TENDENZA O NON TENDENZA?
La costruzione socialimperialista è tale perché giunge di fatto a valutare l’unificazione politica dell’imperialismo europeo in armonia con il corso storico: non si tratterebbe, quindi, di appoggiare le volontà di alcune frazioni borghesi ma di prendere atto di una tendenza, mirando a ricavarne i massimi vantaggi per il proletariato.
Le attuali difficoltà incontrate dalla presunta tendenza sono, quindi, ascrivibili all’ azione di fattori “irregolari”, di estemporanee non corrispondenze rispetto al “naturale” procedere del corso storico.
Ma questa lettura, per mostrare un tale sbilanciamento sul tema della novità, non può che avere operato una assolutizzazione del concetto di tendenza, di fatto reso alieno dalla presenza e dall’effetto di controtendenze. Solo avendo concepito ormai una tendenza operante senza più controtendenze, o riducendole a fattori di fatto irrilevanti, si è potuto arrivare a raffigurare l’affermazione di fenomeni estranei od ostili alla tendenza come qualcosa di nuovo e inaspettato.
In realtà una tendenza può esistere solo insieme alle controtendenze, controtendenze effettive, operanti e significative (al punto da meritare la definizione, appunto, di controtendenze e non di semplici contrappunti).
In mancanza di tali controtendenze, una tendenza cessa di essere una tendenza per diventare un puro e semplice accadimento, un dato di fatto senza la possibilità di alternative reali. Nella lettura socialimperialista, una lettura di fatto ideologica, della questione europea le controtendenze vengono nei fatti annichilite da un fattore essenziale: il procedere inesorabile della comprensione, ai vertici politici degli imperialismi europei, della necessità di arrivare alla costruzione di uno Stato più grande per confrontarsi alla pari con altri imperialismi organizzatisi statualmente su scala continentale. Di qui l’accettazione della tesi del processo di formazione del nuovo e superiore Stato europeo marciante sulla base di una graduale e progressiva cessione di sovranità.
Ma, e qui risiede l’aspetto dirimente, è effettivamente in azione una simile tendenza?
Cioè una vocazione, racchiusa in ogni singolo imperialismo europeo, a rinunciare alla propria effettiva e sovrana dimensione statuale per confluire in un superiore assetto continentale.

QUALE TENDENZA?
La questione della centralizzazione politica dell’imperialismo europeo, manifestatasi in passato in forme di acuta conflittualità, basti pensare alle due guerre mondiali, ha assunto davvero i connotati di una espansione della coscienza della necessità dell’unificazione politica tra le borghesie europee?
Davvero il nodo dell’esercizio della forza, elemento di cruciale importanza nei precedenti cicli in cui si era espressa la questione europea, è stato sostituito dal canovaccio dell’adeguamento istituzionale alla comprensione di una necessità storica da parte delle frazioni più avanzate delle borghesie del Vecchio Continente?
Il decorso dei fatti ha fornito una risposta che, solo rimanendo imprigionati nello schema ideologico, può essere rifiutata e negata ricorrendo alla formula del prevalere elettorale di componenti irrazionali non confacenti ai “veri” interessi di un astratto capitale europeo.
Il momento dell’esercizio di una forza adeguata a portare a termine una centralizzazione, da imporre anche e prima di tutto all’interno del quadro delle borghesie europee, rimane centrale e non può essere nemmeno risolto ideologicamente nello schema della “nuova” modalità di costruzione dell’Europa unita attraverso una consensuale formulazione sovranazionale. Se di tendenza si può parlare, e riteniamo che si possa fare senza alcuna concessione a fatalismi e teleologismi, è semmai di una tendenza all’emergere di una forza imperialistica, imperniata essenzialmente sull’imperialismo tedesco, proiettata ad imporsi negli equilibri europei, modificandoli per adeguarli alla propria egemonia.
Non c’è mai stata, in sintesi, una tendenza degli Stati europei a confluire e spontaneamente depotenziarsi. La tendenza è finora stata quella di uno Stato o di un’alleanza di Stati imperialisti a sottomettere gli altri: questa è stata finora l’unica, vera tendenza a dare vita ad un assetto politico centralizzato.
La lettura socialimperialista della questione europea ha dovuto man mano elaborare e dare forma ad addentellati con cui cercare di far quadrare i conti di un’impostazione che, proprio perché di natura ideologica, si trovava in crescente difficoltà di fronte allo sviluppo storico reale. Ecco, quindi, l’unificazione politica continentale diventare il logico e di fatto inarrestabile complemento della dinamica della concorrenza tra imprese: la consapevolezza dei vertici dei maggiori gruppi imprenditoriali europei di doversi confrontare con imprese capaci di disporre di Stati di stazza continentale diventava così il fattore basilare e vivificante del procedere dell’integrazione politica in Europa.
Questo esercizio di logica grettamente formale, priva dell’apporto di un influsso della lezione dialettica, è stata applicata ad una realtà storica che non poteva che contraddirla.
Nel concreto dell’analisi del capitalismo reale, storico, risulta quantomeno assai spericolato, azzardato e inconsistente prefigurare come condizione basilare dei futuri passaggi verso lo Stato europeo l’emergere, già decenni fa, di una diffusa consapevolezza, ad esempio nel mondo imprenditoriale tedesco o francese, della necessità di dare vita e di operare già concretamente nella direzione di uno Stato che potesse misurarsi alla pari con lo Stato del capitalismo cinese.
Tanto più che quest’ultimo all’epoca non costituiva un fattore di minaccia alla concorrenzialità del capitale tedesco o francese tale da imporre una simile accelerazione concreta.
L’aspetto paradossale, che peraltro mostra a quali contorsioni ideologiche si è costretti nel momento in cui si abbandona il metodo marxista, è che in questa impostazione ideologica trovava spazio la tesi del processo di unificazione europea come componente di una dinamica transatlantica che vedeva un’oggettiva alleanza tra lo Stato imperialistico europeo in fase di formazione e l’imperialismo statunitense in chiave di contrasto all’ascesa delle potenze asiatiche.
Il tratto paradossale risiedeva nel fatto che semmai era proprio l’imperialismo statunitense, più che i concorrenti asiatici, effettivamente emergenti ma ancora lontani dal livello di maturità imperialistica della potenza americana, a costituire il più impellente, pressante fattore di concorrenza e antagonismo nei confronti dei complessi capitalistici europei. La via di fuga da questo travisamento avrebbe potuto profilarsi solo in un ulteriore salto di qualità nella distorsione ideologica della natura di classe della borghesia: i vertici “avanzati” delle borghesie europee in grado di prefigurare e concertare un piano di cessione di sovranità nel solco della costruzione consensuale di uno Stato europeo, giocando di sponda con gli Usa, al momento più agguerriti ma prospetticamente declinanti, per fare fronte in futuro alle forze che si sarebbero rivelate più dinamiche.
Insomma, una borghesia giunta ad un livello capace di consentire l’ideazione e la coerente realizzazione di uno Stato sulle spoglie dei vecchi assetti statuali, riconosciuti come retrogradi e anti-storici, il tutto sorretto dall’ottica lucida e di lungo periodo dei compiti e delle implicazioni del divenire futuro del quadro imperialistico globale.
Se così fosse stato, per noi rivoluzionari lo spazio di intervento nelle crepe, nelle congenite contraddizioni e nei limiti intrinseci dell’ordinamento borghese, si sarebbe drasticamente, forse fatalmente, ridotto. Non è andata così. Il maggiore momento di accelerazione del processo di integrazione europea nel secondo dopoguerra non è coinciso con un affievolimento o con una fase di negazione dei rapporti di forza tra Stati nazionali e della dinamica basata sugli sviluppi di questi rapporti. Al contrario, la moneta unica e la Banca centrale europea, finora le punte più avanzate di una effettiva dimensione comune dell’imperialismo europeo, e non a caso finora mai più eguagliate, sono il frutto di una specifica e intensa fase di accadimenti e ridefinizione degli equilibri tra potenze imperialistiche: il crollo dell’Unione Sovietica e dell’ordine di Yalta, la riunificazione tedesca e l’esigenza, avvertita da un significativo fronte di imperialismi, di contenere la ripresa della Germania, imponendo ad essa la cessione-condivisione del marco come contraltare alla ritrovata unità politica (il fatto che i passaggi successivi di questo confronto abbiano visto la Germania agire a sua volta per influenzare e imprimere il proprio segno alla gestione della moneta unica non solo non smentisce questa chiave di lettura, ma anzi la conferma).

LA QUESTIONE EUROPEA TRA LIBERISMO E PROTEZIONISMO
Né appare più corretto associare una presunta fatalità dell’esigenza dell’unificazione europea all’andamento e all’alternanza dei cicli mondiali di liberismo e protezionismo.
Indubbiamente è legittimo tenere presente l’influsso di questi orientamenti complessivi del mercato mondiale sul concreto configurarsi delle linee e delle condotte politiche degli imperialismi. Ma considerare quei fenomeni in genere definiti “populismi”, “sovranismi” etc., quali fattori di ostacolo alla tendenza all’unificazione europea, collegati ad un possibile emergere di una fase protezionistica, e quindi assumere il quadro liberista quale terreno d’elezione del processo di formazione di un’unificazione politica dell’imperialismo europeo, si scontra innanzitutto con un fondamentale dato storico: finora i momenti in cui si è realizzata e si è prefigurata una forma di effettiva, per quanto effimera e parziale, centralizzazione politica del continente hanno coinciso con quei momenti di scontro militare che implicano una forte dose di protezionismo. Anche sul piano dell’analisi della natura dei fenomeni attuali di ostacolo alla presunta tendenza all’unificazione spontanea e consensuale dell’Europa, la loro connessione e riconducibilità all’apertura di un ciclo protezionista stride con la condizione presente della complessiva fase imperialistica. Un conto è ipotizzare processi di rinegoziazione, di riformulazione della distribuzione e della spartizione del plusvalore mondiale, da non escludere, un altro è ipotizzare nella fase attuale una scelta di chiusura e di esclusione nei confronti di mercati come quello cinese da parte delle maggiori centrali imperialistiche.
In definitiva, le presunte “novità” hanno il solo merito di smascherare la sostanza socialimperialista degli apologeti della tendenza all’unificazione politica del continente europeo.

Prospettiva Marxista

Fonte

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