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La messinscena della lotta nazionale in Catalogna

(16 Novembre 2017)

Ci è stato segnalato questo scritto, comparso sul n. 386 (2017) de "Il Partito Comunista". Ai fini del dibattito, lo pubblichiamo.

Ieri, 6 ottobre del 1934, sono da poco passate le 20, il presidente della Generalitat Lluis Companys è affacciato a un balcone del palazzo dell’istituzione di cui è il massimo responsabile e di fronte a una nutrita folla proclama l’indipendenza della Repubblica Catalana.

La risposta del governo centrale spagnolo è immediata. Il primo ministro Alejandro Lerroux ordina al generale Domingo Batet, di origine catalana, di dichiarare lo stato di guerra e di arrestare senza indugio Companys e gli altri capi del movimento indipendentista.

Nella notte a Barcellona vengono erette barricate per fronteggiare l’esercito. Un battaglione di fanteria leale a Madrid, dotato di una batteria di artiglieria, sale lungo le Ramblas. Un primo scontro si ha davanti alla sede di un’organizzazione sindacale, dove si sono asserragliati un gruppo di uomini armati di fucili, fra cui alcuni militanti del Partito Catalano Proletario. Gli indipendentisti sparano e uccidono un sergente; il loro improvvisato fortilizio è allora preso a cannonate. Fra gli indipendentisti si contano morti e feriti. Poco dopo i cannoni sono schierati davanti al palazzo della Generalitat, difeso da un centinaio di mossos d’esquadra.

Companys invita Batet a unirsi ai ribelli, ma il generale risponde “sono per la Spagna”. Si spara, gli indipendentisti hanno la peggio. Alle sei del mattino Companys si arrende. Si conclude così dopo soltanto 10 ore la breve vita della Repubblica Catalana. Companys è arrestato, processato e condannato a 30 anni di carcere per ribellione.

Oggi, 27 ottobre del 2017, dopo una pacifica sceneggiata, al centro dell’attenzione dei media per oltre due mesi, in una diatriba giuridico-istituzionale col governo spagnolo guidato dal premier Mariano Rajoy, deciso a reprimere ogni velleità del nazionalismo catalano, il parlamento della Comunità Autonoma approva con voto segreto la dichiarazione unilaterale di indipendenza e proclama la Repubblica Catalana. Il presidente della Generalitat catalana Carles Puigdemont viene indagato per ribellione dalla procura generale dello Stato spagnolo. Rischia 30 anni di carcere. Allora ecco che Puigdemont parte in automobile dalla natia Gerona alla volta di Marsiglia, da dove si imbarca in un volo per Bruxelles. In una conferenza stampa nella capitale belga il presidente catalano dichiarerà nei giorni successivi a che tornerà in Spagna soltanto se avrà la garanzia di un processo equo, si dichiara “cittadino europeo” e parla della capitale belga come della “capitale d’Europa” faro dei diritti umani.

La pantomima di guerra di indipendenza popolare catalana del XXI secolo si conclude, da entrambe le parti, pienamente nel religioso rispetto dei riti elettorali, delle parlamentari istituzioni democratiche e del diritto costituzionale, senza azzardare nemmeno una barricata né un solo colpo di fucile. Marx insegna che gli eventi storici si ripetono, ma la prima volta in tragedia, la seconda in farsa. In questo caso la velleitaria tragicommedia del 1934 si è ripetuta in una ancora più spenta commedia nella quale il fervore patriottico e i sacri furori dei due incrociati nazionalismi, quello catalano e quello centralista spagnolo, si sono oscenamente sgonfiati insieme alla boria dei protagonisti, privi anche del senso della vergogna e del ridicolo.

Dietro ai proclami e alle parole altisonanti non si scopre altro che la lotta per accaparrarsi quote del tesoro pubblico e la caccia al consenso elettorale da parte di fazioni politiche borghesi concorrenti e storicamente putrefatte le quali, per coprire la loro grottesca viltà, cercano di rifarsi e dare dignità alle gesta, pure insensate e ispirate da concezioni reazionarie, dei loro predecessori degli anni ’30.

Occorre ricordare che il 1934 era in Spagna segnato dall’insurrezione proletaria delle Asturie, la quale si poneva scopi ben diversi ed ormai opposti a quello di creare un’altra piccola patria borghese.

Cosa rappresenta l’indipendenza della Catalogna e come si è generata questa almeno apparente spinta centrifuga che rende sempre più precario il quadro istituzionale della Spagna post-franchista definito dalla costituzione del 1978?

Innanzitutto occorre ricordare che per noi marxisti la forza di coesione di uno Stato, cioè dello strumento di oppressione della classe dominante rispetto alle altre classi della società, è direttamente proporzionale alla sua potenza economica.

Se lungo gli oltre cinque secoli successivi all’unificazione dei regni di Castiglia e d’Aragona la Spagna ha visto a più riprese il manifestarsi di forti tendenze centrifughe, questo è dovuto certamente alle sue peculiari caratteristiche geografiche e storiche. La relativa povertà delle impervie e semi aride regioni del centro della penisola iberica è stato a lungo in contrasto con il relativo sviluppo delle zone costiere, attratte più dai traffici sulle lunghe distanze che dal proprio retroterra. Queste cause economiche hanno fatto sì che il processo di accentramento statale sia stato lento, difficile e che anche nella fase di affermazione dell’assolutismo le rivolte regionali non fossero affatto infrequenti.

Così scriveva Carlo Marx nel 1854 nella serie di articoli pubblicati sulla “New York Daily Tribune” dal titolo La Spagna rivoluzionaria, che abbiamo ampiamente commentato nel nostro studio “Marx ed Engels sulla Spagna” in Comunismo n.38: «Nella formazione del regno spagnolo si verificarono circostanze particolarmente favorevoli alla limitazione del potere regio. Da una parte, le terre della penisola iberica furono riconquistate poco a poco durante le lunghe lotte contro gli arabi e strutturate in regni diversi e separati tra di loro: in questo periodo nacquero leggi e costumi popolari e le conquiste successive, realizzate specialmente dai nobili, diedero a questi un enorme potere, mentre diminuiva quello del re. Dall’altra parte, le città e i borghi così conquistati si preoccuparono di dare sicurezza e solidità all’organizzazione interna, dato lo stato di necessità in cui si trovava la popolazione nel momento della loro fondazione. Doveva infatti abitare in comunità chiuse come piazzeforti, unico modo per avere una certa sicurezza di fronte alle scorrerie continue degli arabi. Nello stesso tempo, la conformazione peninsulare del paese e il continuo interscambio con la Provenza e con l’Italia fecero nascere importanti città commerciali e marittime sulla costa. Sin dal lontano secolo XV, le città costituirono l’elemento più importante all’interno delle Cortes, composte dai loro rappresentanti assieme a quelli del clero e della nobiltà. È pertanto degno di essere messo in rilievo il fatto che la lenta riconquista contro il nemico arabo, in una ostinata lotta di quasi ottocento anni, abbia dato alla penisola iberica, nel momento della sua piena emancipazione, un carattere del tutto diverso da quello dell’Europa contemporanea: agli inizi dell’epoca del risveglio europeo, la Spagna si trovò con i costumi dei goti e dei vandali al nord, e con quelli degli arabi al sud» (New York Daily Tribune, 9 settembre 1854).

Dunque il processo di accentramento dello Stato spagnolo giunse a compimento con un certo ritardo rispetto a quanto era avvenuto ad esempio in Francia e quando si realizzò non riuscì a creare uno Stato unitario altrettanto forte. Questa debolezza relativa della monarchia spagnola permise alla Francia del XVII secolo, cioè nella fase in cui lo Stato assoluto raggiunse il suo auge, di trarre profitto dall’insurrezione catalana del 1640 per incamerarsi l’area storica della Catalogna transpirenaica, ovvero Perpignano e il Rossiglione, che oggi restano regioni francesi in cui si parla ancora la lingua catalana.

Oggi il fronte nazionalista pone al centro del propria giustificazione storica la dissoluzione delle istituzioni catalane, la Generalitat e i Fueros (leggi locali), con i decreti di Nueva Planta che seguirono l’assedio di Barcellona del 1713-14 da parte delle truppe regolari francesi e spagnole contro i partigiani di Carlo III nell’ambito della guerra di successione spagnola.

Come continua a spiegarci Marx nello stesso articolo: «Quale spiegazione, dunque, si può fornire del singolare fenomeno consistente nel fatto che, dopo quasi tre secoli di una dinastia asburgica seguita da un’altra borbonica – ognuna delle quali basta e avanza per schiacciare un popolo – sopravvivono ancora come allora le libertà municipali della Spagna? E che proprio nel paese in cui, tra tutti gli Stati feudali, nacque la monarchia assoluta nella sua forma meno leggera, il centralismo non sia ancora riuscito a piantare le proprie radici?

«La risposta non è difficile. Le grandi monarchie si formarono nel XVI secolo e si affermarono ovunque seguendo la decadenza delle contrapposte classi feudali: l’aristocrazia e le città. Però, negli altri Stati europei la monarchia assoluta si presentò come un centro di civiltà, come promotrice dell’unità sociale. Fu in quegli Stati il laboratorio dove si mescolarono ed elaborarono i diversi elementi della società in maniera tale da indurre le città ad abbandonare l’indipendenza locale e la sovranità medievale in cambio della legge generale delle classi medie e del dominio comune della società civile.

«In Spagna, al contrario, mentre l’aristocrazia si inabissava nella degradazione senza perdere i suoi peggiori privilegi, le città persero il loro potere medievale senza guadagnare in importanza moderna. Fin dallo stabilirsi della monarchia assoluta, le città vegetarono in uno stato di continua decadenza (…) Con il declino della vita commerciale e industriale delle città divenne sempre più scarso il traffico interno e meno frequente il contatto tra gli abitanti delle varie regioni, si trascurarono i mezzi di comunicazione e furono abbandonate le grandi strade (...)

«In questo modo la monarchia assoluta trovò in Spagna una base materiale che, per sua stessa natura, respingeva il centralismo. Essa stessa, inoltre, fece quanto fu in suo potere per impedire che si sviluppassero interessi comuni basati in una divisione nazionale del lavoro e in una moltiplicazione del traffico interno, unica e vera base sulla quale poter creare un sistema amministrativo uniforme e leggi generali.
«Così, la monarchia assoluta spagnola, malgrado la sua apparente somiglianza con le monarchie assolute dell’Europa in genere, deve essere piuttosto catalogata vicino alle forme di governo asiatiche. Come la Turchia, la Spagna continuò a essere un conglomerato di repubbliche mal governate con alla testa un sovrano nominale. Il dispotismo presentava caratteri diversi nelle varie regioni a causa dell’arbitraria interpretazione della legge generale da parte dei viceré e dei governanti. Malgrado il suo dispotismo, il governo non riuscì a impedire che continuassero a esistere nelle varie regioni diversi diritti e costumi, monete, bandiere o colori militari, oltre ai vari sistemi fiscali».

Non è dunque un caso se anche a compimento del convulso processo che portò all’affermazione definitiva del capitalismo in Spagna si siano perpetuate grandi differenze nel grado di sviluppo economico delle diverse regioni, le quali hanno alimentato forme di ribellismo rispetto allo Stato centrale, trapassato frattanto dal dispotismo di tipo orientale al moderno dispotismo borghese.

Non fu un caso dunque se alla fine dell’Ottocento, nelle regioni in cui maggiore era la vitalità economica e dove più solidamente si era impiantato il nuovo modo di produzione, favorendo dunque un certo sviluppo industriale, si assistette alla rinascita di nazionalismi come quello catalano e quello basco. In entrambi i casi questi movimenti non esprimevano una necessità rivoluzionaria nazionale borghese. Questa in realtà si era già compiuta, in varie ondate, in un lungo tormentoso percorso storico, che aveva subito un forte impulso a partire dalla dominazione napoleonica e dalla successiva guerra di liberazione nazionale contro i francesi, alla base della costituzione liberale del 1812.

Allora, aveva spiegato ancora una volta Marx, si era avviato un processo che trascinò con sé, anche nelle sue fasi più avanzate, una carattere fortemente contraddittorio che lo segnò sin dall’inizio come un peccato d’origine: «Tutte le guerre per l’indipendenza dirette contro la Francia comportano contemporaneamente sia l’impronta della rigenerazione, sia quella della reazione; ma in nessun’altra parte il fenomeno si presenta con l’intensità con cui esso avviene in Spagna».

Nella visione marxista il processo della genesi delle nazioni moderne non vede come fattore principale l’affermazione dell’autodeterminazione dei popoli oppressi, come vuole la vulgata borghese. Certo, in date fasi storiche e in certi paesi, il programma del “Manifesto del Partito Comunista” del 1848 prescriveva ai comunisti di appoggiare i partiti che si ponevano quale scopo da raggiungere l’emancipazione nazionale. Lo sviluppo del capitalismo ha portato con sé la formazione di entità statali, le quali erano in fase di gestazione già in epoche preborghesi, ma questo si è manifestato più come un processo di agglomerazione che di frammentazione lungo linee basate su aspetti etnici, culturali o linguistici.

Il rifiuto di appoggiare aprioristicamente ogni movimento di autodeterminazione nazionale lo precisammo con notevole chiarezza nel lontano 1950 nell’articolo dal titolo Il proletariato e Trieste apparso sul numero 8 di “Battaglia Comunista”: «È controrivoluzionaria la ideologia piccolo-borghese secondo cui per dare slancio alle rivendicazioni di classe in Europa conveniva attendere la liberazione di ogni “nazionalità” oppressa, la soluzione di ogni problema etnico marginale ai grandi Stati. Tutti questi oppressi nella lingua, nelle università, nelle carriere borghesi, soprattutto in quella più “cannaruta” [in napoletano “ghiotta” ndr] delle deleghe elettorali, avrebbero vietato in eterno agli operai di accorgersi dello sfruttamento padronale, dell’oppressione sociale».

Il nazionalismo catalano e quello basco, pur nelle loro diversità, hanno avuto lungo tutta la loro storia un segno sostanzialmente reazionario perché, proponendosi come obiettivo l’affermazione di nazioni fittizie, hanno costantemente sviato l’attenzione dei lavoratori dai propri interessi economici immediati e dai i loro fini storici.

Si consideri soprattutto che le rivendicazioni incentrate su questioni culturali o linguistiche in entrambi i casi dovevano fare i conti con il fatto che da alcuni secoli le principali città catalane, e da sempre quelle del Paese Basco, hanno visto una netta preminenza del castigliano, non solo come strumento linguistico veicolare, usato cioè fra madrelingua diversi, ma anche di uso quotidiano, rispetto al catalano e all’euskera, i quali restavano confinati prevalentemente nelle campagne. Mentre l’euskera non è mai stato una lingua veicolare ed è rimasto frantumato in numerosi dialetti fino al tentativo iniziato nel 1968 (cioè in regime franchista) di unificazione a tavolino (il cosiddetto “euskera batua", cioè basco unificato) operato dall’Accademia della lingua basca, il catalano ha conosciuto invece anche una fase, nel tardo medioevo, in cui ha svolto effettivamente il ruolo di lingua ufficiale dello Stato aragonese. Inoltre quella catalana è stata una delle prime lingue, fra quante derivano dal latino, in cui si sia sviluppata una produzione letteraria considerevole che abbracciava anche la filosofia e la scienza. Notevole in questo senso il caso del filosofo e poeta Raimondo Lullo (Ramon Llull in catalano) morto nel 1316.

Tuttavia già agli inizi del XV secolo il catalano aveva incominciato a perdere terreno come lingua di cultura, per poi essere messo ulteriormente a margine con l’adozione del castigliano a lingua ufficiale della monarchia spagnola, unificata dai Re Cattolici Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia nell’ultimo quarto del secolo.

Ma queste glorie passate poco importavano una volta entrati nel vortice della modernità, con la loro funzione progressiva esaurita da secoli, sepolta sotto la coltre di un’unità statuale non troppo solida, sebbene con una lunga tradizione di continuità. In tale cornice, piaccia o meno ai cultori della “purezza” culturale e razziale delle patrie, si è svolto anche in Spagna il processo di creazione di un mercato nazionale, alla base dell’organizzazione territoriale dello Stato che tanta importanza ha avuto nello sviluppo del capitalismo moderno. Fatto questo che noi poniamo a presupposto indispensabile alla predisposizione delle condizioni oggettive del comunismo, fondato sull’alto sviluppo delle forze produttive raggiunto dalla formazione economico-sociale borghese.

In Spagna dunque si sono sviluppati questi nazionalismi, dal punto di vista della storia nati già morti, fuori tempo massimo rispetto alla stagione delle rivoluzioni nazionali borghesi in Europa. Infatti hanno preso forma quando lo Stato unitario e il mercato nazionale erano realtà già assodate. Questi movimenti, anche qualora riuscissero a creare Stati indipendenti staccandosi dal resto dello Stato spagnolo, ipotesi sempre altamente improbabile, non conquisterebbero alcuna reale indipendenza politica ed economica e sarebbero precipitati nella forza d’attrazione esercitata dalla Francia e dall’Europa centrale.

Dopo la fine del regime franchista, il cui esplicito centralismo veniva espresso dal motto “España una, grande y libre”, il nuovo quadro democratico, nel quale pure si trasfondevano gli elementi essenziali di quello apertamente dittatoriale precedente, volle dare una risposta alla spinosa questione delle minoranze con il sistema delle Comunità Autonome, alle quali furono assegnate una parte delle funzioni fino ad allora prerogativa del governo centrale. Questo significava andare incontro alle esigenze e agli interessi di quegli strati borghesi e piccolo-borghesi che attraverso l’identità della minoranza etnica, reale o fittizia che fosse, avevano veicolato le istanze delle libertà borghesi attraverso i quattro decenni della dittatura franchista. Né si può nascondere che anche negli ultimi anni del regime, grazie anche a un certo allentamento della censura nei confronti delle lingue regionali, le aspirazioni di affermazione della piccola borghesia furono incoraggiate a incanalarsi verso i risorgenti nazionalismi.

Tale strada si rivelava di una certa efficacia per rafforzare la base di consenso al nuovo regime democratico, a distogliere l’attenzione dal conflitto sociale offrendo all’opinione pubblica la rappresentazione spettacolare di conflitti nazionali e regionali in gran parte fittizi, anche quando esteriormente armati e violenti. Si veda il nostro approfondito studio “Le cause storiche del separatismo basco” in Comunismo n.42.

Questa diffusione, sedimentazione e accumulazione di motivi ideologici regressivi ha continuato ad avere un ruolo importantissimo nel sopire e distogliere le lotte dei lavoratori per quattro decenni. Tali “imbalsamati nazionalismi”, mantenuti artificialmente in vita, hanno avuto il loro peso a favore della conservazione: se non si è assistito ad una sostanziale ripresa delle lotte operaie anche dopo la crisi del 2008, che ha messo a terra l’economia spagnola, ha determinato un peggioramento drastico delle condizioni di vita dei lavoratori e ha creato milioni di nuovi disoccupati. Anzi, a partire da allora, la parziale perdita di coesione interna della sovrastruttura statale nazionale è diventata un ulteriore strumento delle politiche anti-operaie di austerity dettate alla borghesia dalla crisi. Spesse volte infatti la repressione delle manifestazioni di dissenso più innocue per il potere, e noi diremmo anche più imbelli, è stata affidata a forze regionali. Questo è avvenuto nel 2011 quando i mossos d’esquadra, la polizia catalana cui hanno inneggiato nelle ultime settimane gli indipendentisti qualificandola come “la nostra polizia”, repressero con inutile brutalità una manifestazione pacifica del movimento degli “indignados" provocando 33 feriti e arrestandone 20 in Plaza de Catalunya, nel centro di Barcellona.

La sceneggiata che ha tenuto banco negli ultimi mesi, e fatto trepidare la rincoglionita opinione pubblica, è inspiegabile prescindendo dalle preoccupazioni di natura volgarmente elettorale di un ceto politico corrotto e miope. Dopo avere pasturato per decenni le masse proletarie e piccolo borghesi con temi ideologici di segno opposto, ma di eguale natura, sciovinismo spagnolo monarchico e centralista contro nazionalismo repubblicano catalano, ora i politicanti raccolgono i frutti del veleno che hanno somministrato. I notabili del politicantismo borghese di entrambi i fronti hanno da atteggiarsi a strenui difensori della democrazia, della costituzione, della libertà della patria borghese.

Da una parte la coalizione non può fare a meno di premere l’acceleratore (a motore spento! elettorale!) sull’indipendenza, illudendo che senza la zavorra della Spagna e delle tasse da devolvere all’amministrazione centrale dello Stato le ricchezze della Catalogna resterebbero ai catalani di tutte le classi. Tale tema, caro ai demagoghi che in molti paesi europei agitano i vessilli del regionalismo e dell’indipendentismo, compreso il leghismo nostrano, ha facile presa sulle mezze classi e sull’aristocrazia operaia, sempre disposti a farsi imbonire con vuote promesse.

Infatti, nell’attuale fase di capitalismo decrepito, non basta richiamarsi alle radici culturali della Catalogna, la mistica della nazione non avrebbe alcuna presa senza riferimenti all’indipendenza fiscale. Infatti le secessioni o anche le unioni di Stati non sono mai un fatto prevalentemente “culturale”, anche se elementi come la lingua nazionale hanno svolto in passato un ruolo centrale nel processo di unificazione del mercato, un fatto che corre parallelamente all’affermazione del modo di produzione capitalistico.

Non è certo il bisogno di sentirsi liberi di parlare il catalano che può motivare l’aspirazione di una fazione consistente della borghesia catalana di liberarsi dalla soffocante tutela del governo madrileno. Oggi la lingua catalana moderna, alla cui unificazione ha contribuito solo un lavoro accademico svolto “a tavolino”, grazie alla politica linguistica della Comunità Autonoma, non solo è tornata a svolgere un ruolo importante in Catalogna a ogni livello della vita sociale, forse ancora più di come accadeva fino ai primi anni del XV secolo nel regno aragonese, ma viene imposta in molte occasioni della vita sociale come veicolo linguistico obbligatorio, soppiantando il castigliano. Questo avviene anche nei corsi universitari, anche se frequentati da molti studenti stranieri, costretti a seguire lezioni in catalano, chiudendo a chi parla castigliano, la lingua di oltre mezzo miliardo di uomini.

Tale atteggiamento ideologico, che fa il paio con l’imposizione franchista del castigliano, è una versione “colta” del vecchio disprezzo col quale la borghesia e le mezze classi catalane trattavano i xarnegos, cioè gli immigrati provenienti dalle regioni depresse della Spagna che fino agli anni ’70 arrivavano in Catalogna per lavorare. Essi e i loro figli non parlavano e non imparavano il catalano, e per questo affibbiavano loro un’etichetta paragonabile a quella di “terrone” in Italia agli immigrati nelle città del Nord industriale dalle zone più arretrate del Meridione, per dividerli dai fratelli di classe autoctoni.

Oggi il fronte che si raccoglie dietro al nazionalismo catalano deve fare dimenticare i propri peccati, primo fra tutti quello di avere governato la comunità autonoma di Catalogna sia pure con brevi interruzioni per complessivi trent’anni a partire dal 1980.

Ma il radicalismo altisonante di questo movimento indipendentista, che agita la bandiera a strisce rosse e gialle ereditata dalle guerre medievali della Reconquista contro i Mori (la senyera, il vessillo adottato a metà del XII secolo), avrà qualche difficoltà a scardinare il quadro istituzionale dello Stato spagnolo. Questo, paradossalmente, potrebbe anche uscire rafforzato dalle vicende di questi mesi, grazie alle dosi massicce del veleno sciovinista, di segno contrario, fautore dello Stato unitario. La borghesia spagnola ha giocato la carta della repressione aperta del referendum del 1° ottobre scommettendo consapevolmente sulla rinascita del nazionalismo monarchico.

Sull’altro fronte borghese l’estrema sinistra dello schieramento capitalistico, in Spagna, in Italia e ovunque in Europa, si è invece unita al coro dei fautori dell’inesistente, impossibile e reazionaria indipendenza catalana. Con diverse, ma sempre ingannatrici sfumature, che non nascondono la sostanza della loro collocazione all’interno dello schieramento di classe borghese, stalinisti, trotzkisti, anarchici e le loro correnti nei sindacati di regime e di base, non hanno saputo resistere alle sirene del nazionalismo e dell’ennesima patria borghese, che vorrebbe dare i natali a un nuovo Stato, che si affiancherebbe a tutti gli altri nell’oppressione della classe lavoratrice.

Alcuni hanno voluto vedere una “mobilitazione delle masse”, pura messa in scena dei sindacati traditori catalani che il 3 ottobre hanno chiamato ad uno “sciopero generale”, in gran parte una vera e propria serrata in combutta con i padroni! L’attivismo e il movimentismo sono i nostri nemici più insidiosi perché vogliono fare dimenticare che in questa contesa, tutta interna a fazioni della classe nemica, ugualmente reazionarie, il proletariato non ha nulla da guadagnare e tutto da perdere, qualunque sia il fronte borghese che ne uscirà vincitore.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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