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Un bel di' vedremo

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(16 Dicembre 2010) Enzo Apicella
In tutta l'Europa cresce la protesta contro il capitalismo della crisi

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(Lotte operaie nella crisi)

COSA INSEGNA IL “DEFAULT” ARGENTINO

(27 Novembre 2017)

Dal n. 59 di "Alternativa di Classe"

que se vayan todos

Il 14 Novembre 2002, esattamente quindici anni fa, l'Argentina andava ufficialmente “in default” (cioè diventava “insolvente”) su un pagamento di 805 milioni di dollari alla Banca Mondiale. Il colosso finanziario costringeva, così, le banche nazionali argentine ad annullare ogni tipo di debito o credito verso i propri utenti. Ciò che interessa al capitale, infatti, è la solvibilità di un Paese, cioè la sua possibilità, da ottenere con ogni mezzo che gli convenga utilizzare, di garantirgli, più che il mero pagamento del debito, dei margini di valorizzazione, e perciò di “profittabilità”.
Le cause di tale epilogo sono da ricercarsi, già a partire dalla fine anni '70 ed inizio anni '80, nel periodo della dittatura, quando fu accumulato un grosso debito soprattutto per finanziare la Guerra delle Falkland- Malvine (1982), che, nonostante il corale appoggio di quasi tutta la sinistra, già di per sé era stata, da parte argentina, una risposta nazionalista ad alcuni sintomi di crisi interna. Vi fu, così, l'appropriazione statale del debito privato, oltre all'apertura alle politiche neoliberali, imposte dal FMI (Fondo Monetario Internazionale), ispiratore di tutte le politiche economiche del Sudamerica.
Col passaggio dalla dittatura alla democrazia borghese nel 1983 la situazione non è certamente migliorata, e con l'avvento nel 1989 del Presidente C. Menem, seguendo le direttive del FMI, furono privatizzati i servizi ed alcune imprese di importanza nazionale, aprendo la strada a quel capitalismo privato nazionale ed internazionale (la “nostra” Enel ha messo le mani sul 40% dell'erogazione del gas), il quale, alla ricerca del massimo profitto immediato, ha messo in ginocchio quella scarsa economia che rimaneva, e contemporaneamente venne smantellato lo stato sociale.
Infatti già nel 1989 l'inflazione aveva raggiunto il tasso mensile del 200% ed i salari reali si erano dimezzati. Le rivolte popolari avevano, così, fatto cadere il Governo di R. Alfonsin a favore di Menem. Egli, con il Ministro dell'economia Domingo Cavallo, prese la decisione nell'Aprile del 1991 di adottare un Curreney Board (Istituto alternativo alla banca centrale come sistema di emissione della moneta nazionale), che fissava rigidamente il tasso di cambio tra il Peso, valuta locale, ed il Dollaro. Questa parità, adottata nonostante i marginali rapporti commerciali intrattenuti con gli USA, aveva indotto una sopravvalutazione reale della valuta argentina, che, già allora, rendeva le merci locali troppo costose in termini relativi sui mercati esteri.
Infatti, quando poi il Brasile, colpito da una grave crisi finanziaria, nonché principale partner economico di Buenos Aires, svalutò la sua moneta, il Real, per l'economia argentina fu un duro colpo. Sempre sotto la Presidenza Menem, l'economia dell'Argentina arrivò alla recessione nel 1998. Oltre a quanto detto, le cause dell'aggravamento dell'esposizione finanziaria risiedono in fattori strutturali, come la crisi di sovrapproduzione e la debolezza e subalternità della sua industria (escluso il settore automobilistico), costringendo il Paese ad importare prodotti industriali dall'estero.
Il settore pubblico, da parte sua, era caduto in una spirale debitoria, che costringeva il Paese, per pagare il debito pregresso in assenza di entrate fiscali adeguate, ad indebitarsi ulteriormente, ed a tassi di interesse sempre maggiori, indotti sia dal contesto internazionale, che dalla volontà del governo di attirare potenziali creditori. Così l'incremento dei tassi di interesse, insieme al deflusso dei capitali, aveva portato ad una grave recessione economica con tutte le sue conseguenze. Il prodotto interno lordo negli ultimi tre anni crollò del 10%, e la produzione industriale del 11% nel solo 2001. Il debito estero arrivò, così, a 132 milioni di dollari, i tassi di interesse erano schizzati oltre il mille per cento: uno dei Paesi più ricchi del pianeta, con una popolazione di 36 milioni di abitanti aveva 14 milioni di poveri e più del 35% della popolazione disoccupata o sottoccupata.
Il Governo De La Rua, presidente eletto nel Dicembre 1999, formato da un'alleanza tra i radicali (partito tradizionale della borghesia) ed il Frepaso (sinistra peronista ed ex comunisti e socialisti) proseguì nelle politiche neoliberiste anche perché una politica diversa avrebbe implicato uno scontro sia con la borghesia americana e sia con quella nazionale. La scelta di F. De La Rua fu così, ancora una volta, di far pagare la crisi ai lavoratori, richiamando, come ministro all'economia, D. Cavallo (quello della parità peso-dollaro), che lanciò subito la provocazione per un taglio del 30% alle pensioni e ai salari.
Intanto l'Argentina perse rapidamente la fiducia degli investitori, la fuga dei capitali aumentò ed i risparmiatori, temendo il peggio, cominciarono a ritirare grosse somme di denaro, convertendo i pesos in dollari e mandandoli all'estero. Lunghe code si formavano agli sportelli delle banche, ed il governo, per impedire il crollo del sistema bancario e finanziario, non avendo le banche i soldi da restituire ai clienti, ad inizio Dicembre 2001 decretò il blocco dei depositi bancari, il cosiddetto “corralito”, stabilendo che non si potevano ritirare più di 250 dollari alla settimana.
Si trattava di una provocazione, soprattutto verso la piccola borghesia, in particolare i piccoli commercianti, quando nello stesso tempo i grandi capitalisti avevano trasferito all'estero 15 miliardi di dollari solo nel 2001. Il 13 Dicembre le tre centrali sindacali dichiararono il settimo sciopero generale contro il Governo De La Rua. La partecipazione fu di massa e i dimostranti, partendo dalla periferia, aumentarono sempre più di numero, divennero un fiume di persone, e cominciarono gli assalti ed i saccheggi ai supermercati. La stessa polizia non riuscì a fermare i saccheggiatori perché erano l'espressione di una disperazione che proveniva da ogni settore della società colpito dalla crisi.
Il 19 Dicembre Fernando De La Rua dichiarava lo Stato d'emergenza, ma questo peggiorava la situazione, e così il 20 e 21 le proteste sfociarono nella Plaza de Mayo dove si ebbero scontri tra polizia e dimostranti. Il Presidente fu costretto a fuggire dalla Casa Rosada e, nell'arco di un mese, si succedettero quattro presidenti, di cui l'ultimo fu il peronista giustizialista Eduardo Duhalde (dal 2/1/2002 al 25/5/2003), “l'uomo (nuovo) della Provvidenza”, che, nonostante alcune modifiche alle scelte economiche di De La Rua, non riuscì a fermare la crisi. Dichiarò “il default” a Novembre '02; anche se comportò la fuga degli investitori esteri, si rivelò poi un fatto certamente positivo per i capitalisti e per le banche, giacché i primi potettero beneficiare della svalutazione, che consentiva l'aumento delle esportazioni, mentre le seconde ottennero un indennizzo di 35 milioni di dollari. X
E. Duhalde non riuscì neppure a fermare le mobilitazioni dei lavoratori, i quali avevano subito per molti anni la delinquenziale politica ultraliberale dei vari governi. Il “default”, infatti, non era dovuto solo alla forte recessione iniziata nella metà del 1998, ma si deve considerare tutto quanto era avvenuto a partire dalla metà degli anni '70, quando il lungo ciclo di ristrutturazione delle relazioni capitaliste aveva creato cambiamenti nelle relazioni tra capitale e lavoro e nella nuova funzione dello Stato a favore del capitale a più alta concentrazione. Ciò aveva generato una maggiore precarietà e flessibilità, aggravate da disoccupazione, sottoccupazione, marginalità e povertà, che ne erano derivate. Il capitale, cioè, investiva in fabbriche con utilizzazione intensiva dei mezzi di produzione, a scapito della forza-lavoro.
In Argentina all'inizio del XXI° secolo c'erano meno lavoratori industriali che negli anni'70. La classe operaia argentina, dopo quella brasiliana la più forte di tutta l'America Latina, ha cercato di opporsi, e sono state proprio le forti manifestazioni del dicembre del 2001 a dare una svolta alla costruzione di un'offensiva dei lavoratori nel processo di lotta di classe. Si verificò la formazione di una nuova “istituzionalità popolare”, le cui caratteristiche sono le assemblee popolari, i piqueteros, e le occupazioni delle fabbriche.
Furono proprio queste ultime a cercare di dare risposta all'espulsione della forza-lavoro. Tali occupazioni, che coinvolsero circa 120 imprese e circa 10mila lavoratori, non si limitarono solo al settore manifatturiero, ma interessarono anche altri settori, come supermercati, cliniche, ecc. La maggior parte erano piccole imprese con tecnologia obsoleta ed in cattive condizioni per la mancanza di manutenzione, fabbriche in maggioranza in corso di fallimento, mentre soltanto in casi eccezionali, con la partecipazione delle assemblee di quartiere, si occupavano fabbriche chiuse da mesi o anni.
La maggior parte delle fabbriche “riappropriate” era concentrata nella Gran Buenos Aires, dove abitano circa 12 milioni di abitanti e dove si trovava il centro delle attività culturali, economiche e politiche del paese. Nelle occupazioni i lavoratori si trovavano davanti diversi problemi concreti, ma due erano i principali; il primo era l'approvvigionamento delle materie prime insieme alla mancanza di fondi, per cui dovevano ricorrere al mercato (fornitori o banche) in una situazione di recessione ed insufficienza di credito, il secondo era che i lavoratori dovevano resistere continuamente ai tentativi di sgombero. Così, o si appellavano al potere giudiziario, o cercavano di negoziare con le amministrazioni locali o, infine, dovevano usare la forza fisica per respingere la polizia. In questo ultimo caso, studenti, assemblee di quartiere, organizzazioni di disoccupati, gruppi e partiti di sinistra partecipavano con i lavoratori agli scontri.
Due erano le dinamiche di classe: nella prima la classe dominante tentava di limitare il fenomeno e, se non poteva, cercava di contenerlo con le mediazioni del sindacalismo burocratico, come la CGT, e/o dei partiti politici politici tradizionali, come la UCR (partito di centro sinistra di ispirazione radicale e liberale) ed il P.J. (partito giustizialista, populista di matrice peronista), mentre nell'altra, la classe subalterna cercava la solidarietà con gli altri movimenti, quali le assemblee popolari e i piqueteros.
Le assemblee popolari, nate come coordinamento di attivisti, si allargavano successivamente a fasce più ampie della popolazione e iniziavano, nei quartieri di Buenos Aires e della periferia, a riunirsi settimanalmente. Esprimevano scelte estremamente democratiche ed ogni proposta veniva messa ai voti. Dalle lotte iniziali su contenuti limitati (contro il sequestro dei depositi bancari) passavano ad un programma di rivendicazioni molto avanzate che mettevano in discussione ogni aspetto del sistema capitalistico.
I piqueteros erano gli appartenenti al movimento dei disoccupati, nascevano nel 1995 nel sud dell'Argentina come forma di protesta per il taglio dei posti di lavoro degli idrocarburi, ma poi crebbero fortemente a causa della crisi e della relativa espulsione di forza-lavoro dalle fabbriche; hanno avuto un ruolo politico importante, stringendo alleanza con partiti politici (peronisti e movimenti di sinistra), causando, alla fine, una frammentazione nel panorama politico tradizionale.
Mentre si allargavano le occupazioni, si allargava anche nella classe il dibattito sulla forma da dare alla riappropriazione delle fabbriche. Cooperazione o Statalizzazione? Tutte le fabbriche occupate scelsero la forma cooperativa, escluse quattro, di cui due, la Bruekman e la Zanon, chiesero la statalizzazione con controllo operaio; rifiutavano la forma cooperativistica perché ritenevano che sia una forma specifica di proprietà privata sommersa in un mare di relazioni mercantili, non sfuggendo così alla logica del capitale. Su questi posizioni si trovavano la maggioranza dei militanti dei partiti della sinistra, che avevano come programma la statalizzazione in una prospettiva rivoluzionaria.
La soluzione cooperativistica era, invece, di quei gruppi di lavoratori e militanti, che esprimevano una forte opposizione ad ogni ingerenza statale e nutrivano una forte diffidenza verso i partiti, compresi quelli di sinistra, nonché ponevano l'accento sulla costruzione della soggettività nelle prospettive dello stimolo del potere popolare. Si riconoscevano di fatto nelle parole del dirigente della cooperativa IMPA: "Occupare, resistere e produrre, è il motto attuale per seminare un futuro dove il popolo lavoratore sia un protagonista della sua storia".
Va ricordato che lo stesso Marx, del resto, aveva visto nelle cooperative due caratteri contraddittori: da un lato ha sostenuto che le cooperative allontanano i lavoratori dalla lotta di classe, facendo loro credere che l'emancipazione è possibile entro la prospettiva di una impresa o di un insieme di imprese, senza capire che nel capitalismo la logica del capitale abbraccia l'insieme delle forme di imprese; dall'altro la formazione di cooperative può dimostrare, a certe condizioni, che il capitalista non è necessario come organizzatore del lavoro.
Insomma, queste mobilitazioni di massa dove il movimento operaio riusciva a trascinare dietro di sé le altri classi, la piccola borghesia impoverita dalla crisi ed il sottoproletariato, ponevano, soprattutto con l'occupazione delle fabbriche, il tema del potere. La situazione oggettiva, con le estreme conseguenze della crisi nazionale, era, contrariamente a quanto molta “sinistra” (sempre “contro la crisi”) vuole far credere, certamente favorevole per l'avvio di un reale cambiamento, per un possibile “innesco” locale, in un “anello debole” della catena imperialista del tempo, di un processo più ampio. Lo sbocco non potette, però, essere un cambiamento radicale con una rottura rivoluzionaria del sistema capitalistico, in primo luogo per l'assenza di una organizzazione politica che, sia in loco che, tanto meno, sul piano internazionale, fosse in grado di indirizzare quell'enorme potenzialità in una politica strategica coerente.
Lo slogan diventato famoso, "se ne vadano tutti", rivolto non solo al governo, ma all'intera elite politica ed alla Corte suprema, rappresentava il rifiuto delle istituzioni borghesi. Gli stessi partiti di sinistra avevano assunto diverse posizioni sulla linea politica da tenere, e quelli come FREPASO o IZQUIERDA UNIDA (elementi del PC e del Mst di tendenza trotskista), formazioni di carattere democratico e interclassista inclini verso il giustizialismo, vennero spazzate via, altri come il PO (partito operaio) ed il PTR (partito dei lavoratori per il socialismo), anche se presenti sia nelle assemblee che nel movimento piqueteros, di fatto portavano avanti una politica “centrista” e di freno al processo rivoluzionario: la stessa proposta, fatta dal PO e da altri, di un'Assemblea Costituente, nel contesto dato, era una proposta arretrata. Le uniche forze, che appoggiavano davvero il processo rivoluzionario come tale, erano gli internazionalisti ed i marxisti rivoluzionari, ma rappresentavano una piccola minoranza non sufficientemente radicata.
L'avvento al potere, con le elezioni del 2003, del riformista N. Kirchner, ex montonero, significò il mantenere la stessa politica economica di fondo (non cambiava neppure il nome del ministro, Roberto Lavagna) di Duhalde, ma coniugandola ad una nuova accessibilità a prestiti per la produzione locale verso l'esportazione, soprattutto della soia verso la Cina. La stessa nascita delle numerose cooperative autogestite, con una diminuzione del ceto parassitario, contribuì, aldilà delle intenzioni, all'Accordo sulla ristrutturazione del debito con le riserve di valuta estera della Banca centrale argentina nel 2005. Dal 2007 in poi fu la moglie di Kirchner a continuarne l'opera.
Dopo circa 15 anni dal “default” l'Argentina, sempre nelle tenaglie del FMI, cioè del capitalismo nazionale e dell'imperialismo internazionale, si ritrovava in una situazione sempre precaria. L'inflazione nel 2016 era del 40%, raggiungendo i livelli del 2002, incidendo drasticamente sul potere d'acquisto e sui salari dei lavoratori, ed attualmente ci sono 13 milioni di poveri su una popolazione di 44 milioni di persone (vedi anche ALTERNATIVA DI CLASSE Anno V n. 53 a pag. 4).
L'attuale presidente Macrì (di “Cambiemos”), eletto il 10 Dicembre 2015, con i suoi slogan elettorali sulla "rivoluzione dell'allegria" e sulla "povertà zero", ha solamente illuso gli argentini e, di fatto, con la politica della riduzione della spesa, ha colpito ancora i lavoratori. Ci sono stati licenziamenti massicci nell'amministrazione pubblica, nei settori della sanità e della cultura, le politiche recessive hanno dato impulso ai licenziamenti nel settore privato, le tariffe dei servizi pubblici sono aumentate dal 300% al 500%. Annullando il cambio fisso fittizio con il dollaro ed abbassando le tasse sull'export di minerali e prodotti agricoli, ha favorito il capitale che esporta e che riceve il pagamento in dollari, mentre il “peso” è stato svalutato del 7%, provocando un disastro sociale.
Oggi, al crescere delle diseguaglianze, si moltiplicano mobilitazioni e proteste e l'apparato repressivo mostra i muscoli, sia cercando di rivedere pesantemente il diritto di sciopero, sia intervenendo nelle piazze con le forze di repressione. Nell'ultimo anno, secondo il CORREPI (Coordinamento contro la repressione politica ed istituzionale), sono morte 259 persone, quasi una al giorno, per mano dei corpi di polizia statali: un triste record per il Paese. A queste morti vanno aggiunti i decessi in carcere, le sparizioni forzate, spesso legate alla tratta della prostituzione. La polizia ha "il gatillo facil", il grilletto facile, che usa specialmente sui giovani dei quartieri poveri, oggetti delle ricorrenti campagne mediatiche sulla sicurezza, che criminalizzano le loro condizioni di indigenza per etichettarli come ladri.
Un altro aspetto della repressione è quella contro i popoli indigeni, come ad esempio quella contro la Comunità mapuche del 1 Agosto, quando circa cento (100) agenti della Gendarmeria nazionale argentina (forze di sicurezza militari) sono entrati in modo irregolare e violento nel territorio della comunità, sparando proiettili di gomma e di piombo, e l'attivista Santiago Maldonado, sostenitore della causa Mapuche è scomparso nello stesso giorno per essere poi ritrovato cadavere ad ottobre nel fiume Chubut.
Tocca ancora ai lavoratori, agli sfruttati, portare avanti una battaglia per rivendicare il soddisfacimento dei propri bisogni di vita, che poi sono comuni con i lavoratori di tutti i Paesi. Essi non hanno bisogno di seguire illusorie chimere riformiste, dato che le congiunture dello “sviluppo” nazionale sono legate sempre di più e più strettamente, come dimostra anche la vicenda argentina, alle possibilità di remunerazione che il Paese, più o meno territorialmente grande che sia, può garantire al capitale. I proletari non possono che trovare stabilità di condizione come persone umane nella prospettiva rivoluzionaria, nel perseguire l'alternativa alla società capitalistica.

Alternativa di Classe

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