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Sull’indipendenza del Kurdistan irakeno, e sul petrolio, decidono gli eserciti non un referendum

(10 Gennaio 2018)

Il referendum fra le forme di consultazione democratica è quella che maggiormente si presta a dare l’illusione di esprimere la cosiddetta volontà popolare. Quando non si tratta di eleggere rappresentati negli organi rappresentativi, la lusinga che il “cittadino” possa fare valere le proprie istanze infilando una scheda nell’urna, ha presa sui delusi dai partiti e dalla politica borghesi. Se questo è vero nei paesi di più antico capitalismo, dove lo spettacolo offerto dal ceto politico e dai suoi maneggi è oltre i limiti dell’oscenità, non stupisce se in un paese come l’Iraq, in cui storicamente l’involucro politico della democrazia non ha mai celato la dittatura statale, l’istituto del referendum possa sedurre i ceti medi e alcuni settori della classe lavoratrice, i quali ancora non hanno avuto il tempo di fare i conti con la dura realtà dell’inganno elettorale.

Nel caso del referendum per l’indipendenza che si è celebrato il 25 settembre nel Kurdistan iracheno si è giocata una partita che va al di là della semplice gestione del consenso politico interno.

Tale “regione autonoma” ha visto un allentamento dei suoi legami col potere centrale dello Stato iracheno da molti anni, a essere precisi sin dal 1991 quando, con la prima guerra del Golfo, l’intervento di una coalizione a guida statunitense aveva istituito una zona di interdizione al traffico aereo, la no fly zone, che aveva impedito agli aerei di Baghdad di intervenire nella regione, dando così l’occasione alle milizie dei peshmerga curdi di sottrarre al controllo del governo centrale iracheno tre provincie del Kurdistan (Erbil, Dahuk e Sulaymaniyya). Questo ha permesso da allora di impiantarvi un embrione di Stato, che si rafforzò ulteriormente dopo la seconda guerra del Golfo, che nel 2003 portò al rovesciamento del regime del partito Ba’ath.

Stando così le cose, quando il governo del Kurdistan iracheno, con sede a Erbil e guidato da Mas’ud Barzani, nei primi mesi del 2017 ha deciso di accelerare i tempi per celebrare il referendum indipendentista, la nascita di un nuovo Stato avrebbe potuto apparire solo una ratifica dello status quo.

Ma le cose non erano così semplici. In realtà l’obiettivo del principale partito curdo, il Partito Democratico del Kurdistan, guidato dallo stesso Barzani, era quello di includere nel nuovo Stato, oltre alle tre province che costituivano tradizionalmente la regione autonoma, anche quei territori che le milizie curde dei peshmerga di recente avevano sottratto con le armi al controllo del sedicente Stato Islamico, che però in precedenza, anche dopo la caduta del regime ba’athista, erano rimaste sotto il controllo del governo di Baghdad. Bisogna inoltre considerare che queste aree acquisite manu militari dai peshmerga non vedevano una preponderanza etnica dell’elemento curdo e una di queste, il governatorato di Kirkuk, rivestiva un’importanza particolare perché vi si trova il maggiore giacimento petrolifero dell’Iraq e da lì parte un importante oleodotto che convoglia il greggio attraverso la Turchia fino al porto di Ceyhan, sul Mediterraneo. A questo occorre aggiungere che tale area, la quale storicamente era per eccellenza multietnica dato che vi abitano arabi, curdi, turkmeni e assiri, in seguito alle politiche governative del regime ba’athista, aveva visto il rafforzamento dell’elemento etnico arabo a scapito delle componenti curda e turkmena, le quali avevano subito un forte ridimensionamento.

Dunque l’entità statuale di fatto del Kurdistan iracheno aveva tentato una politica espansionista per accaparrarsi una parte cospicua della rendita petrolifera, contesa allo Stato iracheno. Un tale proposito veniva confessato in qualche modo anche nel quesito referendario scritto in quattro lingue (curdo, arabo, turkmeno e neo-aramaico): «Volete che la regione del Kurdistan e le zone curde al di fuori dalla regione diventino uno Stato indipendente?».

Questo atteggiamento da parte del governo di Erbil ha precluso ogni possibilità di mediazione con quello di Baghdad e ha aperto la strada alla prova di forza militare. Così a metà di ottobre, poche settimane dopo il referendum, che, come prevedibile, aveva visto una schiacciante prevalenza dei voti a favore dell’indipendenza (92,73%), si è arrivati a uno scontro diretto fra le truppe di Baghdad, coadiuvate dalla milizie sciite e quelle turkmene, e i peshmerga, fedeli al governo del Kurdistan. Quest’ultimi hanno presto avuto la peggio subendo anche numerose perdite.

Ma c’è un altro elemento destinato a pesare negativamente sul governo di Erbil. Il successo dell’attacco lanciato dall’esercito iracheno è stato dovuto anche una defezione in campo curdo: le milizie dell’Unione Patriottica del Kurdistan, la seconda forza politica curda per importanza, si sono ritirate dal teatro delle operazioni, cedendo alle pressioni del governo di Baghdad.

Questa dura sconfitta del Partito Democratico del Kurdistan ha costretto il suo capo indiscusso Mas’ud Barzani alle dimissioni dalla carica di presidente del Kurdistan Iracheno, aprendo una crisi politica di difficile soluzione, la quale si inserisce in un quadro di marasma economico e sociale. Infatti, se per molti anni il Kurdistan iracheno, grazie alla ricca industria estrattiva, era riuscito ad attrarre capitali e forza lavoro, negli ultimi anni questa prosperità è diventata un ricordo, sia a causa del ribasso del prezzo del petrolio sia delle conseguenze della guerra contro lo Stato Islamico.

Come sempre gli Stati capitalistici, siano essi riconosciuti internazionalmente o entità di fatto, tentano in ogni modo di scaricare le conseguenze della crisi di accumulazione del capitale sugli Stati rivali più deboli. Nel caso iracheno una disputa sulla quota dei proventi del petrolio che Baghdad avrebbe dovuto versare nelle casse del governo del Kurdistan, il quale a più riprese ha dovuto per questo ritardare i pagamenti ai dipendenti pubblici. Questo ha fatto sì che in varie ondate nel 2015 e nel 2016 si è assistito a scioperi che hanno coinvolto molte categorie di lavoratori, prevalentemente, ma non esclusivamente, nel settore statale dell’economia.

Ora la borghesia curdo-irachena dovrà fronteggiare la propria crisi politica cercando di riannodare quelle alleanze internazionali che si erano sospese nel momento del referendum, osteggiato da tutte le potenze coinvolte nella contesa mediorientale, con la sola eccezione di Israele. Una volta sfumata la prospettiva di uno Stato indipendente riconosciuto internazionalmente, il governo del Kurdistan, ridotto a un piccolo vaso di coccio fra i vasi di ferro delle potenze globali e regionali, sarà condannato a spremere ancora di più il proletariato locale, il quale comunque non avrebbe avuto nulla da guadagnare da una eventuale indipendenza.

Come abbiamo ribadito più volte la nostra corrente politica considera ormai chiusa, anche nell’area del Medio oriente, la fase in cui le nazioni possono rivendicare la loro autodeterminazione. Questo vale oggi in particolare per il Kurdistan iracheno, aborto di Stato petrolifero borghese, che già in embrione porta tutte le magagne di un capitalismo ovunque decrepito e prossimo alla decomposizione finale.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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