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La fatalità dominante

La fatalità dominante

(26 Novembre 2011) Enzo Apicella

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(Di lavoro si muore)

AVVELENATO IN FABBRICA O STRITOLATO IN UN CARRO BESTIAME, ESSERE LAVORATORI OGGI A MILANO È ANCHE QUESTO

(29 Gennaio 2018)

Un reparto è stato colpito da gas tossici, quattro morti e diversi feriti. Un treno diretto alle postazioni in prima linea è deragliato, tre morti e decine di feriti. Messa così sembra un bollettino di guerra, roba da Prima guerra mondiale.
Invece si tratta degli operai morti in una fabbrica metalmeccanica a Milano e dei pendolari del disastro ferroviario di Pioltello, stessi luoghi, la capitale economica del capitalismo italiano, a una decina di giorni di distanza.
E così ancora una volta i grandi giornali della borghesia hanno l’occasione per “scoprire” che gli operai esistono ancora e muoiono ancora sul luogo di lavoro. Che l’Italia è attraversata da fiumi di pendolari, lavoratori costretti a viaggiare su qualcosa di simile a carri bestiame, che pagano a caro prezzo viaggi su tratte che aggiungono fatica e sacrificio alle ore di lavoro. Le grandi testate di questo o quel padrone, schierate con questa o quella forza politica dell’arco parlamentare borghese, scoprono d’un tratto che esistono treni di serie A e di serie B (come se le ferrovie potessero astrarsi dalla divisione in classi che domina l’intera società), che centinaia di migliaia di lavoratori ogni giorno raggiungono una stazione mentre ancora è buio e che tornano a casa quando è già buio, il tutto spesso per un lavoro precario, per un salario con cui arrivare appena a fine mese. Durerà poco. Esauritosi il clamore mediatico, i lavoratori che pagano sulla loro pelle la massimizzazione dei profitti a spese della sicurezza torneranno nell’ombra, ignorati dalla grande stampa, dai talk show appaltati a demagoghi e politicanti che sempre più infoltiscono lo scenario della politica del capitale.
Persino la loro attuale celebrazione come eroi sui più importanti mass media, come martiri del lavoro, è falsa e funzionale al loro perdurante sfruttamento. Si dà loro lo zuccherino di un’effimera e spesso retorica glorificazione, li si saluta come la parte sana e martoriata del Paese, come l’Italia vera che nonostante tutto tira avanti la baracca. Ma tutta questa epica da quart’ordine, monca della precisa denuncia delle logiche capitalistiche che sacrificano al profitto la sicurezza dei lavoratori, priva della coerente indicazione secondo la quale solo la lotta dei lavoratori stessi può costringere il capitale a ritenere le loro vite e la loro sicurezza degne di considerazione, serve solo a dare un contentino agli sfruttati e alle vittime perché continuino ad essere sfruttati e vittime. Impressiona leggere editoriali e reportage grondanti pathos e partecipazione per le tristi sorti di operai morti o feriti in fabbrica e pendolari intruppati in treni sporchi, scassati e persino tragicamente insicuri, sugli stessi giornali pronti a scagliarsi con furia contro scioperi di lavoratori e proteste operaie, contro le forme di organizzazione dei lavoratori che non rispettano la sacralità del sindacalismo inoffensivo. I lavoratori che rischiano di crepare al lavoro o andando al lavoro meritano gli altari della celebrazione borghese solo se non alzano la testa, solo se rivolgono le loro speranze di un qualche miglioramento ai “legittimi” canali della politica borghese, alle forme di rappresentanze asservite a quelle stesse logiche che sacrificano la loro integrità psicofisica in azienda e nelle immonde tratte riservate a chi ha solo la propria forza lavoro come mezzo di sostentamento.
Anche in questo c’è qualche analogia con la gestione da parte delle classi dominanti delle tensioni e dei costi umani delle grandi guerre del Novecento: l’autorità si toglieva il cappello di fronte al reduce mutilato, si omaggiava il caduto proletario con un bel monumento impastato di patriottismo, si distribuivano medaglie e attestati, si spandevano inni e altisonanti epigrafi. L’importante era che le masse mandate al macello non si chiedessero a quali interessi il macello era servito, che non si volgessero contro quelle gerarchie di classe che le avevano scientemente ridotte a carne da cannone, materiale umano per la grande fabbrica di cadaveri e storpi. La sofferenza e la morte degli sfruttati andava sublimata, sospinta nei cieli della patria e del misticismo, perché non diventasse sulla terra momento di crescita nella coscienza di classe, alimento reale di una lotta di classe con cui mettere in discussione quel dominio capitalistico che aveva partorito la guerra e altre guerre aveva e ha in grembo.
L’omaggio che la borghesia e i suoi tirapiedi intellettuali tributano agli operai avvelenati, mutilati, perché non meritevoli di adeguati investimenti in sicurezza, ai pendolari intruppati come merci di infimo valore, è peggio delle classiche lacrime di coccodrillo. È una tecnica affinata nel tempo e che fa parte dell’arsenale dello sfruttatore.
L’unico ricordo sincero, l’unico omaggio degno alle vittime della logica del capitale è nella lotta, nella crescente consapevolezza della necessità di lottare contro questa aberrazione sociale.

Prospettiva Marxista

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