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Dietro la sceneggiata del 19° Congresso del Partito Comunista (!) Cinese

La potenza, e le fragilità, di un grande imperialismo

(5 Marzo 2018)

Da "Il Partito Comunista" N. 387 - gennaio-febbraio 2018

Xi Jinping

Xi Jinping

I commenti della stampa borghese al 19° Congresso del Partito Comunista Cinese sono concordi nell’esaltare la conferma del potere del presidente cinese Xi Jinping, consacrato terzo più potente nella storia della Repubblica Popolare dopo Mao Zedong e Deng Xiaoping. Il compassato The Economist gli ha dedicato la copertina, “l’uomo più potente del mondo”.

Ancora una volta l’impotenza borghese dimostra di aver bisogno di sognare grandi capi. Senza distinzione di parte politica tutti concordano nell’attribuire influenze determinanti sugli eventi passati e sui futuri all’opera e alle personali qualità dei mutevoli Presidenti. Per la borghesia e i suoi pennivendoli i processi storici sarebbero governati da capi geniali, perfidi o illuminati, e si esaltano e si prostrano in reverente ammirazione dinanzi a qualche personaggio in realtà più che banale. Più la società capitalistica è in putrefazione più si diffonde la religiosa convinzione che solo da questi grandi uomini bisogna attendere salvezza, o rovina. A determinare la storia sarebbero gli “uomini del destino” nel loro alternarsi al vertice degli Stati, non importa se attuato col metodo americano, russo o cinese.

Per noi questi grandi leaders sono solo “battilocchi”, «un tipo che richiama l’attenzione e nello stesso tempo rivela la sua assoluta vuotaggine». Il marxismo ha da sempre individuato la funzione degli uomini all’interno del processo sociale e in particolare sul ruolo di determinate grandi personalità. Scrive Engels: «Che un dato grand’uomo, e proprio quello, sorga in quel determinato tempo e in quel determinato luogo, è naturalmente un puro caso. Ma, se lo eliminiamo, c’è subito richiesta di un sostituto, e questo sostituto, bene o male, si trova, alla fine si trova». Il marxismo individua il vero motore della storia nelle necessità economiche materiali delle classi all’interno di un determinato modo di produzione e nella loro lotta sociale. Sono le circostanze che richiedono l’apparizione e il successo di determinati individui, è la storia che gioca con questi “superuomini”, non il contrario.

Già nel 1924, quasi un secolo fa, affermammo che «la nostra teoria del capo è molto lungi dalle cretinerie con cui le teologie e le politiche ufficiali dimostrano la necessità dei pontefici, dei re, dei “primi cittadini”, dei dittatori e dei duci, povere marionette che si illudono di fare la storia».

Fa quindi parte delle necessità del capitalismo in Cina che la “visione politica” di Xi Jinping sia stata aggiunta nella Costituzione del Partito come “pensiero di Xi Jinping”, il che fino ad ora era stato riservato solo a Mao Zedong; nel 1997 era entrata a far parte della Costituzione del Partito la “teoria di Deng Xiaoping”, che però era già morto. Mao, Deng e ora Xi, celebrati “grandi timonieri”, per la concezione marxista non rappresentano altro che tre diverse fasi della storia della nazione cinese.

Da Mao a Deng
Indipendenza nazionale e sviluppo del capitalismo

La Cina, che oggi si profila come potenza capitalistica mondiale, capace di competere con le vecchie potenze arrivate ad esserlo da secoli, all’inizio del Novecento si presentava in condizioni miserevoli a causa delle imposizioni degli Stati imperialisti, che arrivarono alla vergogna delle Guerre dell’Oppio.

A differenza dell’India e di altri paesi coloniali, la Cina era entrata nella storia moderna come la “colonia di tutti”. Ben presto l’esportazione di capitali in Cina prevalse su quella dei prodotti industriali, e per proteggere i loro investimenti le grandi potenze si accordarono per la spartizione del paese in sfere d’influenza. A Pechino l’insieme del corpo diplomatico disponeva delle finanze dello Stato.

Il dominio imperialistico, che prima aveva indebolito la dinastia imperiale per poi eliminarla completamente, aveva prodotto in Cina lo smembramento del territorio che, privo di un potere centrale, si trovava diviso in varie regioni sottomesse al dominio dei cosiddetti Signori della Guerra, capi militari assoldati dalle potenze imperialistiche e che detenevano il potere fondandosi su eserciti mercenari formati da contadini senza terra. Il controllo di una regione da parte di un Signore della Guerra corrispondeva alla sfera d’influenza della potenza straniera che lo sosteneva. I Signori della Guerra proteggevano gli interessi dell’imperialismo e della borghesia compradora sfruttando il proletariato delle città e delle campagne e appropriandosi di ogni ricchezza del paese. La debole borghesia nazionale, pur conscia della necessità di liberarsi dall’oppressione imperialista e di ristabilire l’unità territoriale della nazione, non disponeva delle forze necessarie per ottenere i suoi scopi.

La Cina di inizio secolo, gravida della rivoluzione borghese, aveva dunque di fronte a sé non solo l’imprescindibile compito di conquistare l’indipendenza nazionale, ma anche quello di attuare la riforma agraria, premessa dello sviluppo industriale. Restava in sospeso se a realizzare questi compiti sarebbe stata la borghesia o il proletariato.

Nel 1911 una rivoluzione dall’alto aveva abbattuto la dinastia imperiale ed instaurato la repubblica borghese sotto la presidenza di Sun Yat-sen. Ma ben presto ne emerse l’inconsistenza; la neonata Repubblica fu immediatamente affossata dall’intervento dei Signori della Guerra, sollecitato dalla stessa borghesia, che così dimostrava di non essere in grado di assolvere neppure i compiti della propria rivoluzione borghese. Questo principalmente nel timore di non poter controllare le potenti forze dei proletari e dei contadini che inevitabilmente il processo rivoluzionario avrebbe messo in movimento. La borghesia dunque era contro i Signori della Guerra ma nello stesso tempo era legata ad essi e se ne serviva nella repressione del movimento proletario. Nel 1911 Sun Yat-sen infatti spontaneamente abbandonò il potere nelle mani dei Signori della Guerra. Era chiaro che, come in Russia, la borghesia nazionale con le proprie forze non sarebbe stata in grado di condurre a buon fine la sua rivoluzione.

Intanto un fatto nuovo iniziava ad avere una influenza determinante sugli eventi mondiali. La Prima Guerra mondiale aveva prodotto in Russia la rivoluzione, e la vittoria del proletariato nell’Ottobre del 1917 aveva letteralmente sconvolto il mondo, ponendo tutti i paesi di fronte all’alternativa: rivoluzione comunista o controrivoluzione borghese. Il senso di tutte le Tesi dell’Internazionale Comunista sulla questione coloniale è collegare la lotta di classe nelle metropoli alle rivoluzioni nazionali nelle colonie, con la Russia comunista al centro, in una unica strategia mondiale che, in un ciclo complesso, si sarebbe conclusa solo con il rovesciamento in tutto il mondo del capitalismo. Come in Russia la classe operaia, in alleanza con i contadini poveri, si era strappata dal collo la catena del potere dei capitalisti e dei fondiari e aveva posto fine alla guerra imperialista, mentre in Occidente si poneva all’ordine del giorno la questione della pura rivoluzione proletaria, nei paesi arretrati come la Cina si sarebbe potuto e, per i comunisti rivoluzionari dovuto, ingaggiare direttamente la lotta per una doppia rivoluzione diretta dai comunisti nella forma di un regime di soviet.

L’abbattimento dal suo interno del potere proletario in Russia, con l’affermazione dello stalinismo, mise fine a questa prospettiva. La controrivoluzione trionfante nel mondo e in Russia consegnò anche il proletariato cinese nelle mani della borghesia. Nel periodo dal 1923 al 1927 lo stalinismo, che si ergeva a forza dominante in Russia e nell’Internazionale, impose che il Partito Comunista Cinese si sottomettesse alla direzione del partito nazionalista borghese, il Kuomintang, perdendo così ogni possibilità di lotta indipendente, necessaria per la vittoria rivoluzionaria.

I generosi tentativi rivoluzionari degli operai e dei contadini cinesi furono soffocati nel sangue. Il tragico epilogo si ebbe nel 1927. Nel marzo di quell’anno il proletariato di Shanghai, la città portuale più importante della Cina, dal punto di vista industriale e commerciale, particolarmente numeroso e combattivo, era riuscito con una insurrezione a prendere il potere nella città. Per la posizione dominante di Shanghai nella vita economica della Cina, questo episodio avrebbe potuto imprimere alla rivoluzione cinese, dato lo sviluppo che il movimento rivoluzionario operaio e contadino andava assumendo, una direzione decisamente antiborghese. Il Partito Comunista e le organizzazioni operaie che avevano in mano il potere, invece, sottomettendosi alle direttive di Mosca, lo cedettero a Chiang Kai-shek, che poco dopo spezzò l’alleanza con i comunisti e passò alla repressione aperta, imprigionando e massacrando comunisti e operai, distruggendo le loro organizzazioni politiche e sindacali. I massacri di Shanghai erano solo l’inizio di altri massacri che si abbatterono sugli operai e sui contadini in rivolta.

Il 1927 rappresenta la vittoria della controrivoluzione e e la sconfitta del movimento proletario rivoluzionario in Cina.

Un movimento rivoluzionario riprenderà solo dopo la seconda guerra mondiale, partendo dalle zone agricole e più arretrate della Cina, con un carattere di classe del tutto diverso, nazionalista ed antimperialista, non comunista.

Fu da quelle regioni che le armate contadine di Mao dilagarono a conquistare le città. Gli avvenimenti successivi e il carattere stesso della rivoluzione cinese, che nel 1949 porterà alla costituzione della Cina in Stato nazionale indipendente, si spiegano solo alla luce dei tragici avvenimenti degli anni Venti. Infatti la sconfitta del proletariato cinese e la repressione a cui fu sottoposto favorirono il trasferimento del moto rivoluzionario delle città alle campagne e il completo rovesciamento del suo carattere dal punto di vista di classe. Il successivo movimento rivoluzionario in Cina vede il proletariato completamente assente e si qualifica come un movimento piccolo borghese e contadino, chiuso nell’ambito della rivoluzione nazionale. Il partito che diresse questo movimento, anche se continuò a chiamarsi Partito Comunista, di comunista non aveva più nulla: era diventato nelle sue parole stesse il “vero Kuomintang”, cioè il vero rappresentante degli interessi della borghesia e della piccola borghesia nazionalista cinese. La base sociale del PCC era costituita da contadini e il suo principale obiettivo divenne la realizzazione dell’unità e dell’indipendenza nazionale, in nome non della dittatura proletaria, ma del “Blocco delle quattro classi”, cioè dello sviluppo borghese.

Benché noi definiamo reazionario il partito di Mao per aver abbandonato la tattica della rivoluzione doppia e la linea maestra che avrebbe portato all’affermazione storica del proletariato, la vittoria finale del PCC sul Kuomintang e l’instaurazione della Repubblica Popolare Cinese ha costituito un passo essenziale dal punto di vista dell’instaurazione del moderno capitalismo, che ha permesso, in un lungo e tormentato processo, l’enorme sviluppo dell’economia cinese e dunque di un moderno proletariato potente ed accentrato, futuro affossatore della società borghese.

La rivoluzione nazionale cinese fin dall’inizio dovette assolvere al suo compito storico di sviluppare il capitalismo, di favorire il commercio e l’industrializzazione dell’immenso paese, dominato da uno sconfinato ed arretrato mondo rurale. Sebbene traditori e falsificatori abbiano annunciato la “costruzione del socialismo” in Cina e altrove, il nostro Partito ha sempre ribattuto che tale “socialismo” altro non poteva significare che l’accumulazione del capitale e l’estensione di un’economia di mercato.

Sottolineammo però la grande portata storica di quegli eventi, e la figura di Mao rientrava in questo grandioso processo storico. Il “pensiero di Mao” non era nient’altro che l’espressione della rivoluzione democratico-borghese in Cina e della controrivoluzione proletaria mondiale.

Il processo di accumulazione del capitale in Cina aveva come necessarie premesse materiali l’unificazione nazionale, la costituzione di un mercato interno per lo scambio mercantile tra città e campagna, lo sviluppo di rapporti economici capitalistici, appunto basati sul lavoro salariato, associato e meccanizzato, nella prospettiva della vera e propria industrializzazione. Quindi il programma economico di Mao sostanzialmente consisteva nella statalizzazione delle grandi aziende e delle banche e nell’attuazione di una riforma agraria. Nonostante l’estremismo del verbo maoista, che esaltava la via cinese al socialismo saltando la fase capitalistica, era un programma che corrispondeva esattamente al programma della rivoluzione democratico-borghese. Il programma maoista si differenzia leggermente da quello del Kuomintang, aggiungendo ai “tre principi del popolo” di Sun Yat-sen (nazionalismo, democrazia e benessere) alcune misure come la giornata lavorativa di otto ore e una riforma agraria che veniva definita “radicale”.

La riforma agraria

Il primo importante atto della Repubblica Popolare Cinese fu infatti la Legge Agraria del giugno 1950. Questa riforma era perfettamente compatibile con il regime borghese, ne citiamo il primo articolo che non lascia alcun dubbio al riguardo: «Il regime del possesso della terra da parte dei contadini sarà instaurato allo scopo di liberare le forze produttive nelle campagne, di accrescere la produzione agricola e di preparare il cammino dell’industrializzazione della nuova Cina».

La riforma parve inizialmente realizzare il sogno millenario di una ripartizione egalitaria delle terre. La nuova Legge garantiva a ogni individuo che avesse compiuto i 16 anni un minimo da 2 a 3 mu di terra (un mu equivale a circa un quindicesimo di ettaro) a seconda delle regioni. In pratica, una famiglia di cinque persone doveva quindi poter disporre di un ettaro circa. Le attribuzioni di terra davano al nuovo proprietario anche i diritti di acquisto, di vendita e di affitto. La distribuzione della terra fu fatta innanzitutto a detrimento dei proprietari fondiari, le cui terre, animali da tiro, materiale agricolo, eccedenze di grani e di costruzioni rurali vennero confiscate senza compenso (essi conservavano tuttavia il diritto di ricevere come tutti da 2 a 3 mu di terra). Salvo in casi eccezionali le terre dei contadini ricchi, coltivate da loro stessi con l’aiuto di manodopera salariata, ed anche gli altri loro beni, erano protetti e non potevano essere toccati, così come protetti erano tutti i piccoli lotti di terra da loro posseduti e dati in affitto. Mentre le terre dei contadini medi compresi i più agiati di loro, erano inviolabili senza eccezione alcuna. In questo modo quasi la metà della superficie coltivata (47 milioni di ettari) fu ripartita fra 300 milioni di contadini, poco più di 0,15 ettari a testa, appunto 2,3 mu.

Ma la ripartizione della terra non poteva costituire per la Cina la soluzione della questione agraria. Da secoli la campagna cinese era estremamente parcellizzata: infatti la terra, anche se posseduta da un esiguo numero di proprietari fondiari, era data in affitto in piccoli lotti ai contadini. La terra era dunque già divisa, ed una sua ulteriore massiccia ripartizione non avrebbe risolto alcun problema. Per questo fino al 1927 la rivendicazione del proletariato rivoluzionario era stata quella della nazionalizzazione, che avrebbe facilitato la formazione di grandi aziende statali condotte da lavoratori salariati e con l’impiego di mezzi tecnici moderni. La parola d’ordine della ripartizione era la tipica rivendicazione dei contadini medi, cioè di quei contadini che già coltivavano un piccolo lotto di terra e che volevano liberarsi del pesante affitto dovuto al proprietario. Con la riforma l’affitto fu sostituito da una tassa statale che ammontava al 17-19% del valore del raccolto.

Se la riforma agraria aveva eliminato i proprietari terrieri e parte dei contadini ricchi, con la distribuzione di tutta la terra dei primi e parte della terra dei secondi, liberando così i contadini affittuari dalla necessità di pagare il canone al proprietario fondiario, tali innegabili vantaggi non potevano realizzare alcuna minima modifica dei rapporti di produzione nelle campagne, proprio per l’eccessiva parcellizzazione della conduzione agricola e per l’estrema arretratezza della struttura tecnica e delle modalità produttive agrarie che cozzavano con le esigenze di accumulazione di capitale.

La divisone delle terre, se portò ad un miglioramento immediato delle condizioni di vita dei contadini, non provocò nessun accrescimento delle forze produttive e non mise a disposizione eccedenze agricole. I contadini si preoccuparono soprattutto di raggiungere un tenore di vita migliore e la conduzione dei piccoli appezzamenti rimase ai metodi arretrati in uso da millenni. Così quando lo Stato borghese batté cassa, le campagne non solo non risposero, in quanto il surplus agricolo (valutato in circa 30 milioni di tonnellate di cereali) venne assorbito dai contadini. Già erano però apparsi significativi segni di polarizzazione sociale, con la compra-vendita di terre, l’usura ecc.

La sconfinata piccola produzione familiare contadina era divenuta la palude che bloccava i progetti di rapida industrializzazione. La bassa produttività della conduzione agricola parcellizzata era incapace di assolvere pienamente al compito schiettamente borghese di formazione e sviluppo del mercato nazionale, non era in grado di fornire alle città plusvalore e eccedenze di prodotti agricoli necessari all’industrializzazione ed a sfamare un accresciuto esercito di proletari. L’industrializzazione veniva frenata dalla campagna arretrata, senza macchine e capitali.

Sia per ovviare a questi sfavorevoli fatti materiali, sia per timore di non riuscire a controllare le differenze sociali che si manifestavano nelle campagne, verso la metà degli anni Cinquanta il regime lanciò il movimento delle cooperative e delle Comuni. Le sconvolgenti campagne di massa che furono organizzate si ispiravano ai vecchi principi sempre presenti nella millenaria storia cinese: la collettività è superiore all’individuo e la supremazia incontestabile spetta allo Stato centrale. Ma il punto fondamentale su cui si basavano queste iniziative era nell’aver individuato l’unica ricchezza dell’arretrata Cina nei suoi milioni di uomini. Si fece dunque leva sulle energie e sugli interessi diretti delle masse contadine, che si invitarono ad assolvere ad un nuovo immenso compito: non fornire allo Stato centrale plusvalore e maggiori derrate per lo sviluppo del settore industriale, ma surrogarlo con una piccola industria di villaggio che avrebbe utilizzato le risorse tecniche ivi disponibili e la forza lavoro eccedente il lavoro nei campi e nelle stalle.

Ma le fatiche delle comunità contadine per rispondere a questi nuovi compiti non solo non produssero capitali eccedenti ma giusero spesso ad un completo fallimento. Anche per le cattive condizioni meteorologiche e climatiche, si risolsero in un disastro che provocò nuova fame e miseria. Le forze produttive, che non si fanno dominare dalla volontà dei governi né dalla personalità di uomini più o meno grandi, imposero il loro passo; un brusco contraccolpo scosse un regime che fino ad allora si era mantenuto stabile al potere. Il fallimento di queste gigantesche campagne di massa, il Grande Balzo in Avanti e il movimento delle Comuni, ebbe come conseguenza una prima aspra crisi nel regime di Pechino che però, forse ancora per la forza e il prestigio della grande vittoria di un decennio prima, riuscì a mantenere integra e salda la propria struttura di Partito e di Stato. Mao Zedong dovette lasciare la carica di Presidente della Repubblica a Liu Shaoqi, il che non era una semplice sostituzione di uomini, al contrario era la iniziale manifestazione dello scontro di enormi forze sociali che per quasi vent’anni, con vicende più o meno cruente e spettacolari, tra cui la cosiddetta Rivoluzione Culturale, avrebbero percorso gli immensi spazi della Cina.

Il fallimento di quella prima mobilitazione maoista ridette forza a tesi già prospettate negli anni Cinquanta e bollate come di “destra”. Il problema più profondo e certo più minaccioso per la crescita e lo sviluppo della Cina fin dalla fondazione della Repubblica era una struttura della società ancora prevalentemente agricola. In essa dominavano forme di autosufficienza alimentare e artigianale di villaggio, che impedivano la fluidità necessaria nel rifornire di materie prime l’industria. All’industria occorreva che aumentasse la produttività del mondo agrario e che questo producesse per il mercato e non per il consumo diretto. D’altra parte l’industria nazionale, a causa del suo insufficiente sviluppo, era impotente a fornire alle campagne gli strumenti necessari a quella meccanizzazione e modernizzazione, che avrebbe potuto permettere un aumento della produttività.

Il superamento del ritardo dello sviluppo industriale in Cina aveva tra i suoi presupposti l’espropriazione di decine di milioni di contadini, costretti ad abbandonare la terra, e, privati dei mezzi di sostentamento, a riversarsi nelle periferie delle città avviando così la loro proletarizzazione. Ma un rapido processo in questo senso, terrorizzava il Partito Comunista al potere per la difficoltà di gestirlo e controllarlo evitando di mettere in pericolo l’ordine costituito.

Per risolvere questo problema, già a partire dagli anni Cinquanta si erano distinte due tendenze principali all’interno del PCC: una più decisa a venire rapidamente a capo della questione agraria procedendo alle riforme necessarie ad introdurre il sistema capitalistico anche nell’agricoltura; l’altra più preoccupata per gli effetti che queste avrebbero potuto provocare, più conservatrice e meno frettolosa di attuarle. Quest’ultima tendenza non dimenticava che la recente ascesa al potere del PCC era stata possibile per l’appoggio deciso dei contadini, di cui non poteva perdere il sostegno. Questa aveva cercato con il Grande Balzo in Avanti di raggiungere il traguardo dell’industrializzazione per la strada “contadina”, attraverso mobilitazioni forzate e gratuite di forza lavoro, mobilitazioni che richiedevano, non per pose estetiche ma per intima necessità, una società fortemente egualitaria e assolutamente collettiva, che combattesse ogni “individualismo” ed evitasse la polarizzazione sociale.

La tendenza cosiddetta di “destra”, quella più aperta alla necessità di introdurre riforme, sosteneva che, poiché lo Stato non era in grado di finanziare l’introduzione di capitali nelle campagne se non in misura del tutto insufficiente, sarebbe dovuta essere una parte dei contadini stessi ad assolvere questo compito storico arricchendosi di terre, macchine e capitali. Si sarebbe dunque dovuto invitare i contadini a commerciare ed arricchirsi in modo che lo Stato, attraverso le tasse e i prelevamenti potesse a sua volta irrobustire il suo apparato di controllo e mantenere nelle sue mani le formidabili leve del monopolio del commercio dei cereali e dei permessi di residenza e di spostamento della popolazione per impedire eccessivo ed incontrollato urbanesimo.

Le due linee che si scontravano, benché fossero definite di sinistra e di destra, corrispondevano entrambe alle esigenze dell’economia nazionale, alla necessità di sviluppare il capitalismo ed erano entrambe linee borghesi. Nonostante le differenze, concordavano sulla necessità di destinare ogni risorsa alla riproduzione ed alla accumulazione di capitale. Posteriormente possiamo affermare che la cosiddetta linea di “destra” intravvedeva una prospettiva più sicura e veloce di industrializzazione, decisa a precipitare velocemente buona parte dell’immensa classe contadina nel girone infernale della proletarizzazione e del lavoro salariato. Singificava tornare senz’altro all’azienda privata nelle campagne, con piena libertà di vendere la terra, di comprarla, di darla in affitto, per favorire una relativamente rapida rovina ed espropriazione della maggioranza dei contadini, con una finale formazione di un’agricoltura moderna, meccanizzata, fondata su grandi aziende a conduzione privata.

La Rivoluzione Culturale nella seconda metà degli anni Sessanta significò invece il tentativo delle linea più conservatrice di frenare i riformisti, che si videro espulsi dai loro posti di direzione. Le affermazioni propagandistiche e le frasi celebri devono essere decifrate nel contesto della lotta fra le forze economiche in atto: fu detta Rivoluzione Culturale perché erano gli ambienti piccolo borghesi studenteschi e degli insegnanti quelli che meglio accolsero e si fecero mobilitare dalla frazione maoista del partito e dello Stato.

Per l’affermazione definitiva della linea “riformista” la Cina dovette aspettare l’XI Congresso del PCC dell’agosto 1977, che sancì la scalata al potere di Deng Xiaoping. Si concludeva così l’epopea romantica della rivoluzione nazionale cinese che per oltre 60 anni aveva scosso l’immenso paese, e si aprivano allora per la Cina pagine ben più pragmatiche. Riposti miti e illusioni, si affermò il solo imperativo categorico del produrre di più, dello sviluppo delle forze produttive, della riduzione dei tempi e dei costi di produzione, dell’estensione costante e sicura del capitale nel mondo rurale, immenso e per buona parte da sovvertire e proletarizzare. Questa tappa ha rappresentato, in assenza di un vittorioso movimento proletario in Paesi capitalisticamente maturi, un necessario passaggio per la rottura di quei rapporti di produzione e forme di proprietà precapitalistiche che erano di ostacolo ad un ulteriore sviluppo delle forze produttive; ma tutto ciò al prezzo di un tragitto grondante dolore e sangue per le generazioni proletarie che lo hanno subito.

Xi Jinping e l’imperialismo cinese

La Cina di oggi ha concluso questo grandioso processo di sviluppo delle forze produttive, è diventata la “fabbrica del mondo”, il maggiore esportatore mondiale. Oggi la Cina può proiettare la sua forza economica e militare ben oltre i confini nazionali, e si presenta sul mercato mondiale come un brigante tra i briganti, in cerca di materie prime e di nuovi mercati. Ha iniziato a ridefinire i rapporti con gli altri Stati, non solo con quelli vicini, basta citare le tensioni nel Mar Cinese meridionale e orientale, ma minaccia direttamente il primato del massimo imperialismo mondiale: gli Stati Uniti d’America. L’imperialismo cinese prova a ridefinire gli equilibri mondiali, ad espandersi, ed è inevitabile che questa potente forza si traduca in riflessi ideologici e richieda la teorizzazione di nuove formulazioni per il Partito Comunista al potere in Cina.

L’ultimo congresso del PCC ha quindi confermato Xi Jinping al ruolo di guida del Partito e dello Stato, addirittura accrescendone il mito. Ma, come i suoi illustri predecessori, Xi non è altro che il prodotto di una determinata situazione sociale, di un determinato livello di sviluppo delle forze produttive alle quali, aldilà delle sue doti personali, non si può opporre. Il cosiddetto “pensiero di Xi” non può far altro che sintonizzarsi con il poderoso percorso storico che testimonia per la Cina la fine del periodo in cui era necessario “mantenere un basso profilo” e l’inizio di una nuova fase storica, la terza dopo quella di Mao e di Deng, quella dell’esplodere degli interessi dell’imperialismo cinese.

Come formulato al Congresso il pensiero di Xi è composto da “14 Principi” che esprimono chiaramente la maturazione imperialistica della Cina e la sua aspirazione a diventare una potenza mondiale. Il “sogno cinese” del “risorgimento della nazione”, retorica propria di tutti i leader cinesi a partire da Sun Yat-sen in poi, è oggi inteso come ritorno al ruolo di potenza mondiale dopo le umiliazioni subite tra il XIX e il XX secolo; intorno a tale concetto ruota il “pensiero di Xi Jinping” sul “socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”.

La Nuova Via della Seta

Enorme importanza viene attribuita al progetto delle Nuove Vie della Seta (Belt and Road Initiative, BRI), le nuove rotte commerciali che dalla Cina attraverso l’Asia arriveranno nel cuore dell’Europa. Questo progetto è stato inserito esplicitamente nello Statuto del Partito, tra i “14 Principi”, per sottolinearne la rilevanza nel “sogno cinese” di “risorgimento della nazione”.

Ma la Cina di oggi non deve solo trovare mercati dove vendere l’immane quantità di merci che produce, ha anche bisogno di investire all’estero i capitali accumulati e già eccedenti. Le sue riserve di moneta estera sono stimate in circa 3 mila miliardi di dollari; il progetto BRI permetterebbe di investire parte di questi capitali nella costruzione di infrastrutture nei molti Paesi attraversati, 65, che ospitano più della metà della popolazione mondiale, tre quarti delle riserve energetiche e un terzo del prodotto interno lordo globale. L’enorme progetto secondo Morgan Stanley richiederà 1.200 miliardi di investimenti in strade, ferrovie, porti, reti elettriche... Il BRI rappresenterebbe il più grande progetto di investimento mai compiuto prima, superando, al netto dell’inflazione, di almeno 12 volte il celebre Piano Marshall. Un piano Marshall globale.

La Cina già si è dotata dei necessari strumenti finanziari con la creazione del Silk Road Fund e dell’Asian Infrastructure Investment Bank, ma qualunque entità pubblica o privata nel mondo che abbia interesse è chiamata a prendere parte al progetto (ad esempio durante la visita di Trump in Cina è stato concluso un accordo tra l’americana General Electrics e il cinese Silk Road Fund).

Oltre al collegamento terrestre fra la Cina e l’Europa del Nord, con diramazione dall’Asia Centrale al Medioriente, con lo sviluppo di una fascia commerciale attraverso tutta l’Asia, è prevista una rotta marittima, la 21st Century Maritime Silk Road, una serie di porti di appoggio che collegherà i porti cinesi a quelli dell’Europa del Sud attraverso il Mare Cinese meridionale e l’Oceano Indiano. Queste infrastrutture ridurrebbero notevolmente i tempi di trasporto delle merci Europa-Cina, attualmente di 19 giorni per ferrovia e 29-35 per mare.

Le recenti tensioni

Riuscirà la Cina a realizzare il suo progetto?

L’espansione cinese entra in contrasto prima di tutto con l’imperialismo americano. I progetti cinesi non riguardano aspetti esclusivamente economici, hanno conseguenze strategiche di grande portata in quanto gli investimenti cinesi in altri Paesi, il finanziamento di grandiose infrastrutture consente alla Cina di espandere i propri interessi economici all’estero, facendo entrare nella propria sfera di influenza politica i Paesi coinvolti. È una chiara risposta al Pivot to Asia, alla strategia degli Stati Uniti volta a contenere l’ascesa economica e militare della Cina in Estremo Oriente, che prevede il consolidamento dei rapporti con gli Stati che percepiscono la Cina come una minaccia: Giappone, India, Corea del Sud, Vietnam, Filippine, Australia.

Con i suoi progetti la Cina non si rivolge esclusivamente all’area continentale eurasiatica, ma Pechino, come abbiamo descritto in precedenti articoli, rivendica il controllo di gran parte del Mar Cinese Meridionale, contendendone la sovranità agli altri paesi rivieraschi, Vietnam, Filippine, Taiwan, Malesia, Indonesia. A tal fine la Cina sta costruendo delle isole artificiali per fini militari in queste acque, negli arcipelaghi Paracel e Spratly. L’obiettivo è proteggere la costa da possibili attacchi e controllare i transiti dei mercantili per la Cina. Una Cina in ascesa non può tollerare all’infinito l’intrusiva presenza militare degli Usa in quelle acque.

Dall’altro lato gli Stati Uniti si oppongono alla Cina nell’area sia mantenendo una consistente forza militare nelle basi del Pacifico, sia cercando di rafforzare i loro storici rapporti e alleanze con gli Stati asiatici che si sentono minacciati dalla Cina.

Nel suo viaggio in Asia dello scorso novembre, il viaggio più lungo intrapreso da un presidente americano negli ultimi 25 anni, Trump ha fatto tappa in Giappone, Corea del Sud, Cina, Vietnam e Filippine, viaggio che ha avuto come principale obiettivo quello di rassicurare gli alleati e riaffermare l’impegno americano nella regione.

Trump ha fatto tappa anche in Cina, dove ha incontrato Xi Jinping. Ma, oltre al dispiegamento della guardia d’onore, il menù del banchetto e l’itinerario della visita alla Città Proibita, i due “grandi leader” non hanno molta altra possibilità di influire sul corso degli eventi. La regione Asia-Pacifico rappresenta il cuore pulsante dell’economia mondiale, è in quest’area che i contrasti tra gli imperialismi saranno più accesi, è qui che si scatenerà il confronto diretto tra Cina e Stati Uniti.

Al momento questi contrasti rischiano di esplodere drammaticamente con la questione nordcoreana. Gli Stati Uniti, minacciando azioni commerciali contro la Cina, cercano di costringerla a tenere a freno le ambizioni nucleari della Corea del Nord. Ma, se da un lato Pechino non può spingersi troppo nell’adottare misure drastiche contro la Corea del Nord perché non vuole un crollo di quel regime, d’altro lato Pyongyang continua i propri test missilistici e nucleari per garantire la propria sicurezza. Un ultimo test missilistico è avvenuto lo scorso 28 novembre. Il lancio, avvenuto dopo oltre due mesi dal precedente, ha fatto salire la tensione nell’area, tanto che si è parlato di guerra. Da più parti si è riferito di preparativi militari cinesi in vista di un possibile scontro tra USA e Corea del Nord. La Cina, anche se continua a promuovere il dialogo tra i due paesi, sta prendendo contromisure al confine sino-coreano. Negli ultimi mesi c’è stata un’accelerazione nelle attività cinesi in questa parte di paese, che hanno riguardato l’aumento delle truppe e lo svolgimento di esercitazioni militari. Intanto i media cinesi parlano di un possibile conflitto imminente nella penisola coreana.

La questione di fondo è che la nascita di un nuovo grande imperialismo ha sconvolto gli equilibri globali e ha messo all’ordine del giorno una nuova spartizione del mondo, nel quale l’imperialismo cinese aspira a prendere il posto degli Stati Uniti. Questo è in sostanza il “sogno cinese” e per realizzarlo i proletari cinesi saranno chiamati a versare il proprio sangue per la Patria.

I costanti allarmi di una imminente guerra in Corea lanciati dai media dei diversi Paesi coinvolti, anche se per ora potrebbero rispondere solo a propaganda, servono comunque a preparare i lavoratori al momento in cui saranno chiamati a sacrificarsi per la “salvezza della Patria” quando questa li chiamerà alle armi. I proletari cinesi come quelli degli altri paesi non hanno da schierarsi a sostegno del proprio imperialismo, il “sogno” di cui parlano i dirigenti cinesi non è che una illusione per distogliere i proletari dalla lotta per i propri interessi, per fermare le lotte rivendicative che crescono sempre di più. Essi devono al contrario continuare ad estendere la lotta per aumenti salariali, per la riduzione dell’orario di lavoro, per la libertà di associazione e di sciopero, dando impulso all’organizzazione di classe, alla rinascita di sindacati classisti, e ricollegarsi con il programma del comunismo rivoluzionario.

Il giovane proletariato cinese ha una gloriosa tradizione a cui richiamarsi, esso deve ritornare ai metodi di lotta e di organizzazione delle sue prime generazioni operaie. Negli anni Venti il proletariato cinese, nonostante la sua scarsa consistenza rispetto alle masse contadine, si pose alla testa della rivoluzione. I sindacati, quasi inesistenti in Cina prima degli anni Venti, si formarono in quegli anni, conducendo lotte e scioperi che furono delle vere e proprie guerre di classe, che hanno lasciato sul campo tanto sangue operaio ma anche un’ennesima conferma storica che il proletariato può lottare per il potere e vincere, come è accaduto per la vittoriosa insurrezione di Shanghai di novanta anni fa.

Oggi in Cina lo sviluppo del capitalismo ha disgregato le campagne cinesi e ammassato i proletari in centinaia di gigantesche metropoli industriali, creando centinaia di Shanghai. Per questi proletari il “sogno cinese” del “risorgimento della nazione” significa soltanto l’incubo dello sfruttamento per il Capitale, certi che domani la Patria li chiamerà a versare sudore e sangue.

La risposta dovrà essere come a Shanghai nel 1927: guerra di classe per l’abbattimento del regime capitalistico e la presa del potere. Di quella insurrezione la storia non ha tramandato “nessun nome” illustre da commemorare, nessun “grande capo” da idolatrare. Anonimi proletari lottarono, forti delle proprie organizzazioni di classe e del loro Partito. Questo è un insegnamento da non dimenticare. Lasciamo alla vile e impotente borghesia il culto dei suoi omuncoli. Il proletariato, per vincere, non attende la venuta di nessun grande capo. Come abbiamo più volte affermato: la rivoluzione si alzerà di nuovo, anonima e tremenda.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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