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Salvate il soldato Manning

Salvate il soldato Manning

(11 Agosto 2010) Enzo Apicella
Continua la crociata contro Wikileaks e contro Bradley Manning, il soldato che ha reso pubblici migliaia di documenti segreti del Pentagono

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    (Imperialismo e guerra)

    Alberto Fazolo, Nemo, "In Donbass non si passa, La Resistenza antifascista alle porte dell’Europa"

    Roma, Red star press, 2018, pp. 250, € 18.00

    (3 Maggio 2018)

    Nel quarto anniversario del rogo della Casa dei sindacati di Odessa, nel ricordo delle vittime

    in donbass non si passa

    Nel febbraio 2014, in uno dei sui ultimi numeri analogici, “Patria indipendente”, il mensile dell’Anpi, metteva in copertina un‘immagine di Alba dorata in Grecia, titolando Neofascisti e neonazisti contro l’Europa, mentre la controcopertina ritraeva gli scontri di Euromaidan, con questa didascalia: Kiev, Qui sono morti anche per l’Europa. Premettendo che, grazie pressoché esclusivamente all’iniziativa delle sue articolazioni di base, come spesso accaduto, l’Anpi ha poi rivisto questa dicotomia fuorviante, per quale ragione l’organo dell’Associazione nazionale partigiani, sulle prime, ha voluto contrapporre ai fascisti greci i manifestanti di Kiev, lasciando intendere che questi ultimi fossero degli antifascisti dalla parte giusta?
    A quattro anni dal significativo misunderstanding, ecco una risposta esaustiva, documentata, appassionata e appassionante, ad opera di Alberto Fazolo (Roma, 1979), economista, giornalista e attivista politico, e Nemo, Commissario politico e Comandante della Interunit, l’unità militare operativa in Donbass nel battaglione Prizrak (fantasma, in russo), dal 2015 all’anno scorso.
    Le vicende ucraine vanno ad inserirsi nel più ampio quadro delle cosiddette rivoluzioni colorate. Un copione che trova le prime bozze nell’abbattimento dei regimi facenti capo al Blocco sovietico, collaudato a pieno sul crepuscolo del Secolo scorso, per annientare quanto restava in piedi della Jugoslavia, e che, proprio in Ucraina, nel 2004, si associava al nome d’un colore: la Rivoluzione arancione, appunto. Nelle guerre dell’Era contemporanea, dove la partita più importante
    è nella comunicazione e nell’informazione, nella fattispecie da quando è in tempo reale, occorre sì affinare le tecniche e le tecnologie militari ma, nel contempo, creare consenso, morale e politico, e predisposizione psicologica, attorno ad un conflitto che l’opinione pubblica, la cittadinanza, altrimenti rifiuterebbe. Se si vuole cercare l’origine di questa intuizione, essa è con ogni probabilità da individuare nella Guerra ispanoamericana di Cuba.
    Venendo ai nostri giorni, per quanto sia sempre riduttivo identificare i fenomeni con una singola personalità, il principale fautore di questa tattica è senza dubbio George Soros, magnate, sulla carta un filantropo che, però, tende ad indirizzare le sue elargizioni verso quei movimenti di destabilizzazione in seno ai regimi e agli stati non proni ai desiderata dell’Occidente, di Usa e Ue. I soli danari a questi movimenti non sono però sufficienti; occorre vendere all’estero un’immagine che li renda apprezzabili ai mass-media e all’establishment di cui sono espressione. Occorrono filmati e foto che evochino la contrapposizione tra il grigiore degli apparati repressivi e i colori, appunto, di chi protesta: giovani, possibilmente di bell’aspetto, barricaderi e trasognanti nelle arie, quel poco che basta per stimolare istinti e umori sessantottini, dopodiché è come rubare caramelle ad un bambino.
    Nell’Ucraina degli ultimi anni, ma si potrebbe anche dire nel Venezuela bolivariano e nella Siria baathista, è sostanzialmente successo questo. Sul finire del 2013 si verificavano qui proteste di piazza contro il Governo Yanukovich, Partito delle regioni, accusato di corruzione (del resto, si tratta di uno degli stati più corrotti sulla faccia della Terra), con una partecipazione plurale, anche di orientamento libertario e di sinistra. Ma una sollevazione durante un esecutivo “filorusso”, in un territorio importante in termini geopolitici ed economici, non poteva certo essere abbandonata al suo destino, e pressoché immediatamente sono iniziate infatti le ingerenze occidentali. Grazie a queste è repentinamente mutato l’orientamento delle mobilitazioni. Quando il sopracitato numero di “Patria indipendente” veniva consegnato agli abbonati, già era avvenuta una forte virata a destra, con il passaggio della sommossa in mani di gruppi, magari marginali e dalle percentuali elettorali irrisorie, di chiara ispirazione neonazista, già erano stati issati i ritratti di Hitler e di Stepan Bandera, il leader del collaborazionismo durante l’occupazione nazista dell’Ucraina, e già erano stati presi di mira persone, luoghi e monumenti riguardanti l’era sovietica, il socialismo e l’Antifascismo. Il 22 febbraio 2014, sotto la minaccia di quest’ondata di violenze, avveniva di fatto il golpe che ha portato al potere l’attuale Junta nazionalista.
    Sebbene i partiti comunisti dell’area non avessero preso automaticamente coscienza di quanto stesse accadendo, in risposta alla violenza neonazista, che nei proclami e nei fatti traeva ispirazione proprio dall’esperienza collaborazionista della Seconda guerra mondiale, si era avuto un moto popolare spontaneo di autodifesa dal basso. Ne emergeva una guerra civile che trovava il culmine, smascherando i propositi degli Euromaidan, con il rogo e la strage alla Camera del lavoro di Odessa, il 2 maggio di quell’anno. Frattanto, le popolazioni della Crimea avevano reclamato e ottenuto il ritorno alla Russia e, nella parte orientale dell’Ucraina, quella operaia, con una tradizione di sinistra, si assisteva alla sollevazione delle regioni del Donbass. Nascevano quindi le repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, nasceva lo scontro con l’Esercito di Kiev. Per i media occidentali si trattava d’un conflitto tra nazionalismi, causato dall’invadenza russa con Kiev parte lesa, con trasmissioni e approfondimenti vari tendenti a porre l’accento sulla partecipazione di elementi d’estrema destra sul fronte “filorusso”, per il vero assai marginali. Si ignorava invece, con ogni probabilità non involontariamente, il moto di solidarietà sorto accanto a questa esperienza, per indole e momento storico sinceramente e spiccatamente antifascista, con il campo che si andava man mano sempre più delineando. Un moto che si estendeva a livello internazionale, con la creazione di appositi comitati. In Italia, senza ombra di dubbio, un contributo fondamentale per la conoscenza dei fatti, ed il conseguente supporto, è stato dato dal gruppo musicale della Banda bassotti, che ha promosso e poi sostenuto la Carovana antifascista per il Donbass, con eventi di sottoscrizione in tutt’Italia.
    Qui si entra nel vivo delle vicende narrate dal libro, con i due autori che prendono parte attiva, di lotta e cronaca, nella Interunit, l’unità di combattenti accorsi nel Donbass dall’estero, inserita nel battaglione Prizrak, con diretto richiamo all’esperienza delle Brigate internazionali in Spagna, di cui, infatti, veniva ripreso il simbolo, tra i diversi proposti con una consultazione on line.
    Il testo è una confutazione di tutti i luoghi comuni e le vulgate mistificatorie che la propaganda occidentale ha diffuso e fatto consolidare in questi, ormai quasi, cinque anni, con particolare riferimento ai fattori etnici, che sono stati reputati centrali, e alle pulsioni rossobruniste, qui respinte in blocco. Guai, tuttavia, a pensare a questa monografia come ad un panegirico agiografico del fronte “antimaidan”, anzi: senza fare sconto alcuno e senza negare la complessità degli elementi ricostruiti, sono elencati limiti, contraddizioni e, sani, dubbi. Comunque, al netto di tutto ciò, e delle incertezze sugli assetti sociali e politici a venire, in Donbass non si passa: l’esperienza della repubbliche, pur vivendo il conflitto una fase ora di stallo, non è stata schiacciata, ha saputo resistere. E questa è un po’ la notizia, dopo un’abitudine pluridecennale a sconfitte e ritirate, per nulla strategiche.

    Silvio Antonini

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