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(4 Gennaio 2011) Enzo Apicella
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    Capitale e lavoro:: Altre notizie

    La lotta dei portuali in Israele

    (20 Giugno 2018)

    Da quasi cinque anni dura in Israele, senza alcun risultato, la trattativa sulla riforma dei porti, condotta dal sindacato dei portuali, federato alla confederazione sindacale Histadrut.

    Mentre passava il tempo, è avanzata a grandi passi la costruzione di due nuovi porti, in mano privata, la cui apertura è prevista per il 2021, a lato di quelli già esistenti di Haifa e di Ashdod, che sono di proprietà pubblica. Un investimento di cui la borghesia, nazionale ed estera, vuole servirsi anche per aumentare lo sfruttamento dei portuali.

    La riforma dei porti prevederebbe una riduzione dei posti di lavoro, più competizione fra gli scali, una riorganizzazione di piloti, rimorchiatori ed ormeggiatori, il peggioramento delle condizioni salariali, maggiore libertà di licenziamento. Come spesso accade i padroni puntano a sfondare su tutti i fronti, nella speranza di avere successo in almeno alcuni di essi.

    Il porto di Ashdod, uno dei settori più strategici per il capitalismo israeliano, ha riportato solo nell’ultimo anno guadagni per oltre i 200 milioni di shekels israeliani. Ma è anche uno dei centri industriali con più alto tasso di sindacalizzazione, vicino al 100%.

    Il passato mese di aprile, stanchi della interminabile ed inconcludente trattativa, preoccupati dalle voci di anticipazione dell’apertura dei nuovi porti, la pazienza dei lavoratori è finita. Due fattori hanno dato luogo alla classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il primo è stato la diffusione di una registrazione audio nella quale il segretario della Federazione sindacale dei trasporti – tale Avi Edri – faceva intendere la disponibilità dell’Histadrut a cedere anche se dalla trattativa non risultassero accolte le rivendicazioni del sindacato.

    Il secondo un decreto giudiziario emesso dal Tribunale del Lavoro che obbliga i portuali a recuperare determinate quote di quantità ed intensità del lavoro. Durante l’ultima settimana di aprile ed al principio di maggio, infatti, si sarebbe verificato un calo della produttività del 20% rispetto all’analogo periodo dell’anno scorso, un aumento del 39% nel tempo di trattamento della merce che arriva nel porto e quindi una diminuzione dei profitti. Questi dati, prodotti da un ufficio statistico pagato dalle aziende, sono stati presentati come prova di un supposto sabotaggio della produzione da parte dei lavoratori e sulla loro base la Corte ha emesso un giudizio nel quale si sono accusati i portuali di attuare quello che, curiosamente, viene colà chiamato uno "sciopero alla italiana", cioè un rallentamento volontario dell’attività lavorativa, si intimavano di recuperare la produttività suppostamente perduta e li si ammoniva a non intraprendere azioni sindacali fintantoché il processo negoziale fosse stato in atto.

    Così il 9 maggio, senza alcun preavviso e senza consultare l’Histadrut, i portuali di Ashdod e Haifa, guidati dai capi del loro sindacato di categoria, hanno abbandonato il posto di lavoro in modo organizzato, paralizzando completamente l’attività portuale, senza stabilire un termine allo sciopero e, quindi, calpestando il decreto giudiziario emesso dalla corte.

    I padroni, come sempre accade in questi casi, hanno iniziato a strillare, per il tramite dei loro potenti mezzi stampa, del danno all’economia del paese, di quantità enormi di merce danneggiata e irrecuperabile, di astronomiche perdite ogni giorno, di Stato di diritto, democrazia, e dell’Histadrut quale necessario sindacato collaboratore.

    La magistratura ha prontamente dichiarato lo sciopero illegale, ordinando ai lavoratori di «interrompere immediatamente l’azione di forza» e ammonendo l’Histadrut di «applicare la sua forza organizzata per ricondurre i portuali al lavoro». Una preziosa dimostrazione circa la natura di questa confederazione sindacale.

    I lavoratori, agendo coi metodi della lotta di classe, autonomamente e contro i desideri dei sindacati venduti al capitale, si sono trovati ad affrontare tutto l’armamentario ideologico e repressivo della classe dominante, che parte dai sindacati collaborazionisti, passa per i mezzi di comunicazione di massa, gli esperti della classe media, fino ad arrivare alla repressione bruta, si chiami magistratura, polizia, carcere e, se necessario, esercito.

    Il giorno successivo, il 10 maggio, a fronte della prosecuzione dello sciopero il tribunale ha dato mandato alla polizia di cercare ed arrestare i capi del sindacato dei portuali. Il segretario della Federazione sindacale dei trasporti, confederata all’Histadrut, ha dichiarato che i dirigenti ricercati risultavano «introvabili» ma che la confederazione avrebbe per quanto possibile «collaborato con tutti i mezzo disponibili per riuscire ad ottenere un dialogo con loro» (dal giornale on line della Confederazione sindacale Histadrut "Davar Rishon”, dell’11 maggio).

    Il potere giudiziario, che anche in Israele è vantato dalla sinistra borghese come un baluardo del mito controrivoluzionario della democrazia, ha mostrato la sua natura scagliandosi contro i lavoratori che hanno osato spezzare la gabbia legale costruita a difesa del borghese regime di sfruttamento, criminalizzando ed attacando con la repressione la lotta di questi proletari. «Ciò che è accaduto – ha affermato al quotidiano economico borghese "Calcalist" il 13 maggio il giudice Ilan Atikh, vicepresidente del Tribunale Nazionale del Lavoro e firmatario del decreto giudiziario – è qualcosa di impensabile in uno Stato di diritto (...) è una questione non particolare ma d’ordine nazionale (...) è qualcosa che non può passare sotto silenzio». Siamo perfettamente d’accordo con questo eminente esponente del regime borghese. Ma crediamo di poter puntare ancora più in alto e con più precisione: si tratta di una questione di rilevanza non nazionale ma internazionale e, soprattutto, di classe. Che non deve passare sotto silenzio ma essere portata a conoscenza dei lavoratori al di sopra dei confini nazionali.

    Che i lavoratori tornino ad utilizzare i metodi della lotta di classe, che oppongano il loro interesse di classe a quello della borghesia, da essa spacciato come generale, è qualcosa di impensabile per ogni regime capitalista, in quanto per esso ormai troppo pericoloso, insostenibile, tale da far subitaneamente cadere la maschera democratica e lasciar intravedere il volto reale della dittatura del capitale.

    Il Tribunale Nazionale del Lavoro ha colpito i capi del sindacato dei portuali con multe smisurate dell’ordine di 25 mila euro ciascuno, ha ordinato alla polizia di cercarli e di consegnare loro il giudicato, minacciandoli con il carcere e con l’aumento della multa per ogni ora di prosecuzione dello sciopero.

    Dal canto suo l’Histadrut per tutta la durata dello sciopero non ha mosso un dito in aiuto ai portuali, stendendo un cordone sanitario intorno alla loro lotta isolandola per aiutare il regime borghese a sconfiggerla, dimostrando in tal modo ancora una volta la sua natura di sindacato corrotto e venduto al Capitale. L’ha confermato la dichiarazione di un suo dirigente, in sintonia con quelle del magistrato: «Per l’Histadrut lo stato di diritto ed il rispetto della legge sono un principio fondamentale» (“Ynetnews”, 10 maggio), al quale subordinare le condizioni di vita e di lavoro dei proletari, aggiungiamo noi.

    L’azione repressiva combianata a quella d’isolamento compiuta dal sindacato di regime israeliano hanno raggiunto lo scopo di soccorrere il padronato in difficoltà e il 12 maggio, dopo tre giorni consecutivi di blocco totale delle attività dei porti ed una manifestazione durata fino a notte inoltrata, con centinaia di lavoratori fuori dal tribunale, lo sciopero è stato sospeso.

    Al di sopra di questo esito contingente, il ritorno all’impiego dei metodi di lotta classisti è una vittoria in sé per la classe lavoratice che ha potuto saggiare come la democrazia sia solo una maschera del dominio politico della borghesia e come la centrale sindacale Histadrut sia un impedimento a delle lotte efficaci, invece che uno strumento utile a questo scopo.

    I giorni immediatamente successivi i lavoratori hanno chiesto all’Histadrut di proclamare uno sciopero nei limiti di legge, minacciando in caso contrario di uscire dalla Confederazione, ed al segretario della Federazione dei trasporti – il sopracitato Avi Edri – di rassegnare le dimissioni. L’Histadrut, visto che ormai aveva ottenuto il suo reale scopo, ha avviato la procedura per la proclamazione dello sciopero per il 12 giugno, ma il 10 giugno il permesso è stato negato dall’organo statale competente.

    Il padronato ha continuato a lamentare il calo della produzione e l’Histadrut da suo canto di essere sull’orlo della perdita del controllo dei lavoratori. Cosa che ci auguriamo accada quanto prima, permettendo la costruzione di un’organizzazione sindacale che non rivendichi, come fanno i vari fantocci del regime capitalista, lo "stato di diritto" e la "legalità" ma l’impiego dei metodi di lotta classisti: scioperi senza preavviso, ad oltranza, senza servizi minimi.

    PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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