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(15 Agosto 2012) Enzo Apicella

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LE LEGGI FERREE

(6 Ottobre 2018)

Pubblichiamo questo contributo di Franco Astengo, per il notevole interesse che può suscitare il ragionamento complessivo che vi è contenuto. Va precisato, però, che la discussione sullo Statuto di Potere al Popolo, a cui si accenna nello scritto, ha preso nelle ultime ore una piega inaspettata, con la scelta da parte di Rifondazione Comunista di ritirare la propria proposta e di non partecipare alle votazioni in merito.

Gramsci

Due punti di premessa:
1) Ogni generazione che si affaccia sul proscenio della storia, o almeno della propria vita, dovrebbe essere lasciata libera di determinare il proprio percorso e gli appartenenti alla generazione precedente limitarsi ,nel loro tempo residuo, ad assistere;
2) Ogni soggetto politico,lo si voglia denominare come si vuole (partito, movimento, coalizione, rassemblement, ecc,ecc) costruisce in partenza un gruppo dirigente che funziona in base alle “leggi ferree dell’oligarchia” costituendosi in “circle inn” ( con denominazione giornalistiche varie: le più recenti, cerchio magico, giglio magico, ecc,ecc). A questa legge obbediscono anche quelli che sdegnosamente rifiutano di definirsi “gruppo dirigente” e ritengono di essere disposti alla massima apertura, contaminazione dal basso, ecc, ecc. La verifica avviene quando il “circle inn” entra in conflitto con analogo soggetto all’interno della stessa organizzazione. Allora la contaminazione, il merito, l’apertura cedono il passo ad un solo criterio: quello della “cordata” basato sulla fidelizzazione possibilmente verso un Capo oppure al riguardo di un gruppo dirigente ristretto, molto ristretto. Naturalmente gli esponenti di ogni generazione hanno il diritto di proclamare il loro operato unico e inedito nella storia.
Preso atto di ciò mi limiterò ad alcune citazioni dedicandole ai gruppi dirigenti oggi operanti nella (questa sì che si può definire residuale)sinistra italiana.
Dedicato a:
In Potere al Popolo sta svolgendosi una conta (online) su due ipotesi diverse di Statuto. Cioè ci si divide (anche con toni aspri, del resto richiesti dalla “scena” della lotta politica) prima ancora di nascere. Non si racconti, per favore, la favola che “questo è bello” e che “fa crescere”. Tra l’altro si stanno sperimentando anche le “truppe cammellate” via web. Verificheremo gli esiti concreti.
Egualmente c’è chi si riunisce all’insegna del “Rifondazione ieri, oggi, domani” senza tentare di stilare un bilancio di questi vent’anni di vita dell’organizzazione e delle sue condizioni attuali. Basterebbe un breve flash partendo dall’analisi delle varie scissioni, dal G8 di Genova, dall’esperienza di governo con ministro e presidente della Camera fino all’Arcobaleno, Rivoluzione Civile, Potere al Popolo. Ma pare proprio che compiere una semplice operazione di presa d’atto della realtà faccia paura.
Nello stesso tempo la promessa avanzata dal gruppo dirigente di LeU “non saremo un cartello elettorale” sta sfumando irrimediabilmente tra antagonismi vari e punti di separazione vecchi di decenni. Per chi ha frequentato la cosiddetta “nuova sinistra” anni’70 il dilemma, allora, dei rapporti con il PCI era pane quotidiano, occasione di lanci di proclami di cedimento, ecc,ecc. (ogni riferimento oggi al rapporto con il PD è puramente voluto e non casuale. Come si diceva una volta: la storia si ripete da farsa in commedia).
La promessa “non saremo un cartello elettorale” si è sentita tante volte in campagna elettorale: la più tragica, in questo senso, dall’Arcobaleno che entrato alle elezioni con il Presidente della Camera, un ministro, quattro sottosegretari, cento parlamentari ,uscì a zero e nessuno mosse una paglia: tutti avanti ciascheduno per proprio conto senza nemmeno il tentativo di un’analisi complessiva (anzi con ulteriori scissioni questa volta fondate sul personalismo: vedi SeL).
Anche la redazione di un giornale può rappresentare un “circle inn”. Al Manifesto, per esempio, si era pensato,nei mesi scorsi, ad una grande manifestazione contro la situazione che si sta creando in Italia con il governo giallo – verde (il modello era rappresentato dalla manifestazione del 25 aprile 1994 contro il governo Berlusconi e l’approdo del MSI al governo). I lettori sono stati invitati ad aderire: molti lo hanno fatto entusiasticamente, dimostrando anche una notevole pazienza. L’appuntamento avrebbe dovuto essere realizzato per la metà di settembre, adesso il segnale di tappa sembra spostato a metà ottobre (dopo la Perugia – Assisi). Nel frattempo addirittura il PD si è già fatto vedere in piazza e la situazione precipita. Anche in questo caso nessuno riflette e se si interpella qualcuno del gruppo dirigente sul”come vanno le cose” arrivano risposte stizzite nel nome della guida (intangibile) del proletariato e della “funzione storica” che il giornale rappresenterebbe.
A questi soggetti mi permetto allora di dedicare queste tre citazioni:
LA LEGGE FERREA DELL’OLIGARCHIA
1) La legge ferrea dell’oligarchia, formulata nel 1911 dal politologo tedesco Robert Michels nel suo libro Sociologia del partito politico, teorizza che tutti i partiti politici si evolvano da una struttura democratica aperta alla base, in una struttura dominata da una oligarchia, ovvero da un numero ristretto di dirigenti. Questo deriva dalla necessità di specializzazione, che fa sì che un partito si strutturi in modo burocratico, creando dei capi sempre più svincolati dal controllo dei militanti di base. Con il tempo, chi occupa cariche dirigenti si “imborghesisce”, allontanandosi dalla base e diventando un’élite compatta dotata di spirito di corpo. Nello stesso tempo, il partito tende a moderare i propri obiettivi: l’obiettivo fondamentale diventa la sopravvivenza dell’organizzazione, e non la realizzazione del suo programma.
Michels, che elabora le sue tesi principalmente grazie all’osservazione del Partito Socialdemocratico Tedesco(a cui lui fu iscritto), fornisce quattro prove a sostegno della sua tesi:
1. La democrazia non è concepibile senza una qualche organizzazione.
2. L’organizzazione genera una solida struttura di potere che finisce per dividere qualsiasi partito o sindacato in una minoranza che ha il compito di dirigere e una maggioranza diretta dalla prima.
3. Lo sviluppo di un’organizzazione produce burocratizzazione e centralizzazione, che creano una leadership stabile, che col tempo si trasforma in una casta chiusa e inamovibile.
4. L’insorgenza dell’oligarchia deriva anche da fattori psicologici, in particolare la “naturale sete di potere” di chi fa politica e il “bisogno” delle persone di essere comandate.
GRAMSCI E IL PARTITO
Per Gramsci, invece, il partito politico era elemento imprescindibile nello stato moderno. Egli individuava tre gruppi di elementi fondamentali per l’esistenza e la resistenza di un partito politico:

1) Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo. Senza di essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe neanche “solamente” con essi. Essi sono una forza in quanto c’è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Non si nega che ognuno di questi elementi possa diventare una delle forze coesive, ma di essi si parla appunto nel momento che non lo sono e non sono in condizioni di esserlo, o se lo sono lo sono solo in una cerchia ristretta, politicamente inefficiente e senza conseguenza. 2) L’elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero zero o poco più; questo elemento è dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche (anzi forse per questo, inventiva, se si intende inventiva in una certa direzione, secondo certe linee di forza, certe prospettive, certe premesse anche): è anche vero che da solo questo elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe più che non il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani. Tanto vero che un esercito [già esistente] è distrutto se vengono a mancare i capitani, mentre l’esistenza di un gruppo di capitani, non tarda a formare un esercito anche dove non esiste. 3) Un elemento medio, che articoli il primo col terzo elemento, che li metta a contatto, non solo “fisico” ma morale e intellettuale [Q 1733-34] [1].

Il secondo elemento, “l’elemento coesivo principale”, i “capitani affiatati, d’accordo tra loro, con fini comuni”, in una parola il “gruppo dirigente”, svolge una funzione cardine nel moderno partito politico, al punto che «un “movimento” diventa partito, cioè forza politica efficiente, nella misura in cui possiede “dirigenti” di vario grado e nella misura in cui questi “dirigenti” sono “capaci”» [Q 1133]. Occorre però che esistano “le condizioni materiali oggettive (e se questo secondo elemento non esiste, ogni ragionamento è vacuo) sia pure allo stato disperso e vagante” [Q 1734].

La formazione del gruppo dirigente del partito politico, soprattutto del partito che si propone come fine la trasformazione rivoluzionaria della società è dunque questione centrale. Non a caso Palmiro Togliatti ne ripropone agli inizi degli anni ’60 una riflessione storico-documentaria, pubblicando La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924 [Editori riuniti, Roma, 1962].

Ma i gruppi dirigenti di un partito comunista – che è antitetico al partito politico borghese – non devono sostituirsi al corpo del partito e alle masse. Nel 1925, opponendosi alla concezione di Bordiga, Gramsci scrive:

Il Comitato centrale, anzi, il Comitato esecutivo era tutto il partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo. Se questa concezione venisse permanentemente applicata, il partito perderebbe i suoi caratteri distintivi politici e diventerebbe, nel migliore dei casi, un esercito (e un esercito di tipo borghese), perderebbe cioè la sua forza d’attrazione, si staccherebbe dalle masse [Introduzione al primo corso della scuola interna di partito].
TOGLIATTI E IL PARTITO NUOVO
Succede di sentir parlare del « partito nuovo » o « par¬tito di tipo nuovo », teorizzato dopo la Liberazione, come di una specie di invenzione. Un brusco rivolgi¬mento di tradizione, perlomeno, imposto dalla perso-nalità di Togliatti, dalla politica «nazionale» di Saler¬no, da una rinuncia all'azione armata per la conquista del potere. C'è del vero, in questa immagine semplifi¬cata. Ma è, appunto, una immagine semplificata, che indulge alla mitologia.
In realtà, l'impianto dell'organizzazione politica comu¬nista nel dopoguerra ebbe un fondamento oggettivo poderoso. Una svolta si era compiuta, prima che a Sa¬lerno, nella storia e nella coscienza di grandi masse con la vittoria armata sul fascismo. E si era compiuta non solo con l'insurrezione come momento terminale, ma nel corso della resistenza come iniziativa «spon¬tanea» (se è lecita questa parola sospetta), come ma-turazione di coscienze, ed anche come volontà e pratica di autogoverno popolare.
C'è sempre stata, anche a sinistra, una tendenza a svalutare il potenziale rivoluzionario di questa « irru¬zione » operaia e popolare nella lotta sociale e politi¬ca. Ma la resistenza non fu né un moto «indipenden¬tista», né un fatto di generazione (la generazione della resistenza come la generazione del Vietnam), né un fenomeno primitivo per la «immaturità» delle masse (giudizio sempre odiosamente ideologico), né il riflesso senz'anima di una situazione di emergenza mi¬litare e economica. C'era un bisogno generale di rige¬nerazione della società, una grande carica di radicalizzazione sociale. Nella sensibilità di tutti, la lotta ingag¬giata era lotta per decidere dell'assetto del paese per un intero periodo storico.
I comunisti diventano partito di massa perché le masse hanno vissuto questa esperienza storica. I 5 mila o poco più del 25 luglio 1943 sono quasi 2 milioni alla fine del 1945. Non ci sarà bisogno di spezzare alcuna tradizione «settaria». Non ci sarà da irreggimentare e plasmare un'«orda» inerte. C'è inesperienza poli¬tica, ma una comune volontà di portare a compimento una rivoluzione interrotta ma non compromessa, di portarla a compimento di fronte alla miseria delle no¬stre classi dirigenti, al disfacimento dello Stato borghe¬se, alla condanna senza appello della borghesia come classe che il trionfo in Europa dell'esercito rosso sem¬bra decretare. In questa ispirazione è il segreto della capacità di mobilitazione delle masse che percorre la storia di questi anni, l'« originalità » della situazione italiana nell'area occidentale.
Ma con quali caratteri prende forma il «partito nuovo»? Come raccoglie e orienta questa spinta? In che senso fu veramente nuovo, e in che misura la sua novità fu quella di cui c'era bisogno, per contrastare la restaurazione capitalistica prima, per uno scontro col sistema poi?
Semplice e lineare, in apparenza, è lo schema di To¬gliatti. Il partito sarà «nuovo» in quanto sarà di massa, cioè capace di organizzare nelle proprie file il più alto numero di lavoratori, e poi capace di non restare «chiuso in se stesso, com'era il carattere che avevamo una volta», ma di essere «il più vicino al popolo», di «portare» la propria politica tra le gran¬di masse esterne all'organizzazione. Il partito sarà «nuovo», inoltre, in quanto «non si limita più sol¬tanto alla critica e alla propaganda ma interviene nella vita del paese con un'attività positiva e costruttiva», traducendo nella sua politica «quel profondo cam¬biamento che è avvenuto nella posizione della classe operaia rispetto ai problemi della vita nazionale». Cioè, in quanto sarà finalizzato a una politica di unità antifascista, democratica e popolare, che pare la più adatta a raccogliere la molteplicità delle spinte e delle aspirazioni del paese. In questo senso, il partito nuovo è figlio della resistenza ma anche del VII congresso dell'internazionale e della strategia dei fronti popo¬lari, che lascia alquanto implicito e irrisolto il rapporto tra obiettivi democratici e obiettivi socialisti. Nell'assumere questa « dimensione», il «partito nuo¬vo» fa però integralmente propri anche i cardini della dottrina leninista del partito.
Vecchio o nuovo, il par¬tito è lo strumento pressoché esclusivo, « principale », che le classi sfruttate possono darsi per conquistare il potere (a differenza della borghesia, che ha « la fonte del suo dominio nel mondo della produzione »). Il partito è il depositario della coscienza della classe, solo in esso il momento rivendicativo e corporativo è supe¬rato e « si giunge alla politica ». Spetta al partito ritra¬smettere questa coscienza alla classe e alle masse, farle coscienti, guidarne le lotte e generalizzarne le esperienze.
(da un articolo di Luigi Pintor: Il Manifesto rivista n.4 settembre 1969)
Memento: siamo nani sulle spalle di giganti

Franco Astengo

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