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Francia: luddismo e casseurs

(14 Novembre 2005)

Ci sono, a mio parere, due questioni che avvicinano la rabbia impotente dei luddisti dell’800 e quella dei casseurs delle banlieues europee: l’impossibilità a vedere un futuro dignitoso e l’esplosione violenta, incontrollata e dispersiva contro un simbolo.

La classe operaia inglese seppe fare un salto di qualità: il passaggio dal simbolo (la macchina responsabile della disoccupazione) all’agente (il nascente capitalismo che attraverso le macchine sfruttava). La massa lavoratrice subalterna e sfruttata si avviava a diventare classe sociale. Ma ci vollero più di quindici anni durante i quali la repressione fu durissima, i processi contavano centinaia di imputati, e decine furono le condanne a morte prima di veder riconosciuti alcuni (pochi) diritti per i lavoratori.

Oggi assistiamo a questa aggressione fisica a simboli di una finta opulenza o a strutture che in nome dell’integrazione in realtà normalizzano e emarginano, assegnando ruoli e caste sociali.

È del tutto evidente che questa Europa che opera ormai da anni alla conquista di un predominio economico e militare, lasciato pericolosamente zoppo dopo la caduta del vecchio bipolarismo URSS/USA, ripropone al suo interno un concetto ormai desueto ma molto in voga alla fine degli anni ’90: il conflitto tra nord e sud del mondo. E la bocciatura del referendum sulla Costituzione europea è passata anche attraverso le banlieues francesi.

Non mi convince completamente la lettura sociologica dell’emarginazione della terza generazione di immigrati, se non nell’analisi dei flussi migratori certamente più evidenti nei paesi di tradizione coloniale. Flussi migratori che hanno “semplicemente” dato nuove identità ad una massa sempre più vasta di emarginazione, precariato, sfruttamento, creando forme di sottoproletariato che non sanno che farsene del riconoscimento di nazionalità. Ma che vivono continuamente una situazione di degrado violentissimo, che trova nella strutturazione urbana, le banlieues appunto, l’esemplificazione fisica e strutturale.

Vidal su Le Monde Diplomatique a proposito scrive: “Quello delle periferie è un cocktail esplosivo una realtà di cui i giovani si sentono vittime due volte. Prima di tutto per la situazione disastrosa in cui si trovano a vivere: nei quartieri il fallimento scolastico è due volte più elevato che nel resto della città, la disoccupazione è al 50% e c'è un deserto culturale, per cui oltre ad essere senza lavoro non hanno neppure niente da fare. Nelle banlieues scompaiono anche gli uffici postali, gli sportelli bancari... In secondo luogo perché i giovani - sono soprattutto ventenni quelli che si stanno confrontando con la polizia in questi giorni - percepiscono di essere vittime anche di un sistema di discriminazione razziale. Ecco, quella che si vive in Francia oggi è una forma di Apartheid, non politico come era in Sud Africa, ma sociale e urbano. Di fatto i quartieri sono dei ghetti dai quali lo stato si ritira»

Ma che siano magrébini, pakistani o francesi, belgi, rappers, greci o italiani non cambia.

Sacche sempre più crescenti di giovani trovano nell’azione distruttiva una risposta inadeguata ai loro bisogni, e del tutto colludente col sistema repressivo. Inadeguata perché crea una pericolosa frattura tra quanti invece potrebbero riconoscersi politicamente nelle loro rivendicazioni, se non per contiguità sociale. Una contiguità sociale assai drammatica, il cui confine labile che separa la miseria disperata dalla povertà sufficiente viene “controllato” da quegli stessi che vedono con orrore il rischio di una precipitazione della propria già fragile condizione economico-sociale. E che per controllare meglio rischiano di considerare come utili ed imprescindibili gli strumenti oppressivi dello stato, producendo recinti sempre più strutturati e funzionali. Ecco quindi che la collusione (del tutto inconsapevole) consente al sistema di rispolverare e rendere attuali vecchie leggi repressive, sempre pronte nel cassetto di qualsiasi sedicente democrazia.

Il passaggio dall’”atto” all’”elaborazione”, così come avvenuto nei primi decenni dell’800, però non può avvenire senza un processo di analisi, di riconoscimento della struttura capitalistica, e di conseguente proposta politica e sociale.

Credo non sia opportuno parlare di integrazione così come di assimilazione come risposte alla segregazione ed emarginazione. Sono termini e concetti che si richiamano alla strutturazione del Sistema in quanto tale, rispetto al quale può esistere solo un “dentro” contrapposto ad un “fuori”, entrambi composti e strutturati in sottosistemi tra loro integranti e funzionali al reciproco riconoscimento e ruolo.

Se l’obiettivo è quello della trasformazione del Sistema nella convinzione di una risposta ai bisogni espressi occorre uscire da quella contrapposizione e porsi pragmaticamente l’obiettivo di restituire a queste espressioni lo status di classe, di riconoscerne il conflitto fornendo adeguata espressione politica e sociale. Perché qui sta la tragica scommessa : chi prenderà in mano le redini di questo conflitto? Si tratta di rilanciare una idea “politica” di egemonia capace di interpretare, orientare, far pesare la realtà di una nuova condizione dello sfruttamento “urbano”, laddove l'alienazione dal lavoro e quella della condizione di quotidiana vivibilità si intrecciano per formare una base diversa di insorgenza sociale, da non lasciare allo spontaneismo dell'esplosione immediata.

Patrizia Turchi

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