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L'Islanda riconosce lo Stato Palestinese

L'Islanda riconosce lo Stato Palestinese

(3 Dicembre 2011) Enzo Apicella
Martedì scorso il parlamento islandese ha votato a favore del riconoscimento dei Territori Palestinesi come stato indipendente.

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    La Palestina è lo snodo strategico per una pace giusta in Medio Oriente

    Per questo Sabato 18 novembre tutti in piazza a Roma

    (17 Novembre 2006)

    La manifestazione nazionale per la Palestina del 18 novembre a Roma, è diventata un momento politico e di mobilitazione di massa altamente significativo e chiarificatore su diverse questioni. Su almeno quattro di esse vorremmo aprire una discussione con tutte le forze che non hanno abdicato all’internazionalismo e alla propria dignità.

    1. Giustamente i compagni del Forum Palestina nel loro intervento pubblicato su "Il Manifesto", sottolineano un dato che rischia di venire consapevolmente o inconsapevolmente sottovalutato: la questione palestinese resta una questione politica e non un problema umanitario. Il secondo, infatti, è la drammatica conseguenza del primo. E’ dagli anni ’60 e con la nascita dell’OLP, che la resistenza palestinese ha tentato con ogni mezzo di porre il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese come questione politica all’agenda internazionale e non, dunque, come un problema di profughi da liquidare come tale affidandolo alle agenzie umanitarie dell’ONU. Negli ultimi anni, di fronte alla drammatica emergenza umanitaria provocata dalla politica di annientamento perseguita sistematicamente dai governi israeliani (e legittimata in modo vergognoso dall’embargo adottato da Stati Uniti ed Unione Europea contro i palestinesi dopo la vittoria elettorale di Hamas), è riaffiorato con forza il progetto di mettere mano alla questione palestinese come mera soluzione umanitaria. In questo senso è evidente il tentativo di delegittimare politicamente le istituzioni e le organizzazioni palestinesi per costringerli con ogni mezzo ad accettare soluzioni inaccettabili e ridurre così la Palestina ad un semi-stato basato su una serie di bantustan senza sovranità, senza identità, senza continuità, senza possibilità di sviluppo indipendente.

    2. La piattaforma della manifestazione di Roma, coglie, forse al di là stesso di una buona intuizione originaria, un nervo strategico delle relazioni tra Italia e Israele: l’accordo di cooperazione militare di cui viene chiesta l’abrogazione. Le reazioni ostili a questo punto centrale della piattaforma rivelate dal Corriere della Sera, rendono evidente come questo accordo assuma in sé fortissime e ampie connessioni economiche, politiche, militari e strategiche. La richiesta di revoca dell’accordo militare Italia-Israele, picchia infatti sul nervo scoperto delle strette relazioni tra governi di Italia, Israele, Stati Uniti e aziende strategiche come Finmeccanica, ampiamente premiata nell’ultima Legge Finanziaria con ingenti stanziamenti per le spese in armamenti, tecnologie militari e nuove armi. La rete di complicità economiche, militari e tecnologiche è cresciuta a dismisura nell’epoca della guerra preventiva e dell’economia di guerra e l'Italia vi è pienamente inserita, anche con le scelte del nuovo governo (fino a prova contraria).

    3. La manifestazione di Roma sostiene proposte importanti e concrete. Chiede in sostanza che il governo italiano di centro-sinistra faccia su Palestina e Medio Oriente scelte diverse da quello Berlusconi, servile verso gli USA e Israele. Gli indirizzi della politica estera del governo Prodi intendono presentarsi come equidistanti (o equivicini) nel conflitto israelo-palestinese, ma gli atti concreti (e le stesse precisazioni di D’Alema in questi giorni) rivelano pubblicamente come l’equidistanza affidi invece la priorità nelle scelte e nelle decisioni al rapporto preferenziale con le autorità e il ruolo di Israele in Medio Oriente. La stessa ipotesi di D’Alema su una forza di interposizione a Gaza sul modello di quella Unifil in Libano, tradisce una doppiezza che va compresa bene. Non si capisce infatti perché l’unico strumento della politica estera debba essere l’ultima delle opzioni a disposizione (l’invio di truppe sul terreno), evitando di mettere prima in campo misure come le sanzioni commerciali, la sospensione della collaborazione militare ed economica bilaterale, l’irrigidimento dei rapporti diplomatici. Non solo, ma i sostenitori dell’interposizione sanno benissimo che i governi israeliani non accetteranno mai la presenza di truppe internazionali sul proprio territorio. Il rischio è che, come in Libano, le truppe di interposizione a Gaza finirebbero per sancire sul campo i fatti compiuti (i confini imposti da Israele con la forza), si schiererebbero solo sul già ristretto territorio palestinese, si trasformerebbero in gendarmi internazionali dello status quo a scapito dei palestinesi. E’ vero che i palestinesi chiedono da tempo la protezione di truppe internazionali dalle aggressioni israeliane. Ma in questi anni hanno chiesto anche altre cose che la sinistra italiana ed ora il governo non hanno mai inteso adottare come il boicottaggio e le sanzioni contro Israele. E’ curioso e sospetto che l’unica richiesta palestinese al quale governo, sinistra di governo e associazioni pacifiste siano sensibili, sia quella che prevede l’invio di truppe. Non sarà che le ambizioni coloniali dell’Italia stiano delineando una propria area d’influenza in Medio Oriente e una parte del movimento pacifista finisca per diventare – consapevolmente o meno – un ascaro e un veicolo di consenso di massa a queste ambizioni? Ed è ancora più curioso che queste ambizioni vengano presentate come quelle che possono dare una svolta allo scenario politico mediorientale quando in realtà le forze che hanno cambiato concretamente questo scenario sono le forze della resistenza in Iraq, in Libano e in Palestina che hanno fatto fallire sul campo il progetto USA del Grande Medio Oriente e della Grande Israele.

    4. L’ultima questione attiene ai rapporti tra la sinistra italiana ed Israele, o meglio, con il sionismo. La gran parte della sinistra italiana ha introdotto una gravissima distorsione nell’analisi della realtà quando si parla di Israele. Viene infatti assunta come verità il fatto che “Israele sia l’unica democrazia del Medio Oriente”. Sulla base di questo assioma, tutte le forze dell’occidente – siano essere reazionarie e neoconservatrici o progressiste e liberali – non possono che schierarsi al fianco di Israele sempre e comunque nei suoi contenziosi con il mondo arabo. Dal punto di vista politico, questa tesi assume infatti una asimmetria clamorosa come punto di partenza per ogni ragionamento che va assai oltre l’equidistanza tra le ragioni dei palestinesi e quelle israeliane, posizione questa già di per se ingiustificabile di fronte alla realtà. In questa tesi infatti vi è l’assunzione piena e rinnovata della logica colonialista, per cui anche il peggiore occidente era più avanzato e civile del migliore popolo colonizzato. Ma non solo, vi è anche un implicita contraddizione per cui un paese può essere “democratico con i suoi cittadini” ma oppressore e razzista verso tutti gli altri. La realtà israeliana questa contraddizione la esprima tutta intera e non occorre avere più alcuna paura delle parole nell’indagarla e nel definirla né di confrontarsi su questo con i compagni israeliani, i quali, tra l’altro ne sono ben consapevoli e agiscono con grande coraggio politico.
    Israele come stato confessionale, è un orrore della storia prodotto da un altro orrore. E’ uno Stato che non si è potuto dotare di una Costituzione perché l’identità su cui fondarsi non è riuscita ad essere altro che “lo Stato degli ebrei”. E’ uno Stato fondato su una ideologia nazionalista come il sionismo che separa nettamente gli ebrei dagli altri. Le cosiddette componenti progressiste del sionismo, sono state liquefatte e neutralizzate proprio con la nascita di Israele dove il sionismo si è fatto Stato ed ideologia di Stato, dando applicazione ad una politica di colonizzazione violenta che ha espulso migliaia di palestinesi, ha escluso i non ebrei dalla piena gestione dello Stato, ha costruito concretamente un regime di apartheid interno (verso gli arabi-israeliani) e un modello colonialista verso i territori palestinesi occupati.

    La manifestazione per la Palestina a Roma del 18 novembre, ha dunque il grandissimo merito di tenere aperta una questione politica come quella dell’autodeterminazione del popolo palestinese, di aver centrato un obiettivo sensibile e decisivo nei rapporti di complicità tra l’Italia e l’occupazione militare e coloniale israeliana, di aver aperto una discussione sulle opzioni su cui delineare un processo di pace con giustizia in Medio Oriente e di non consentire che si confonda uno stato colonialista ed oppressore con una democrazia. Se i dioscuri della sinistra di governo pensano che i soggetti e i contenuti di questa manifestazioni stiano fuori da quella che definiscono “comunità politica”, commettono un clamoroso autogol dal quale non li salverà la manifestazione di Milano su una piattaforma più arretrata della realtà e delle stesse possibilità sul campo.

    La Rete dei Comunisti

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