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Licenziamento

 

Il licenziamento per essere formalmente valido deve essere comunicato al lavoratore in forma scritta (art. 2, co. 2, L . n.108/1990). Se il licenziamento viene comunicato verbalmente è opportuno non solo contestarne l’illegittimità per vizio di forma, ma conviene presentarsi comunque al lavoro.

La motivazione può non essere data immediatamente dal datore, in tal caso il lavoratore può chiederla entro 15 giorni dalla comunicazione del licenziamento, il datore sarà così obbligato a fornire le cause entro 7 giorni dalla richiesta. È consigliabile che il lavoratore presenti la richiesta della motivazione per iscritto ai fini della prova dell’avvenuta richiesta . I motivi devono essere esposti analiticamente onde consentire al lavoratore la piena esplicazione del diritto alla difesa.

Il licenziamento del dipendente è ammesso solo in pochi e tassativi casi indicati dalla legge ed è quindi considerato legittimo soltanto quando sussistono alcune condizioni:
1) Innanzitutto occorre che vi sia una “giusta causa” o un “giustificato motivo”, cioè il licenziamento deve trovare giustificazione in una ragione particolarmente grave;
2)In secondo luogo, il datore di lavoro, quando intende predisporre un licenziamento, ha l’obbligo di seguire delle procedure che salvaguardino la possibilità del lavoratore di contestare il licenziamento: deve comunicare per iscritto il licenziamento e, qualora richiesto dal lavoratore, deve indicarne i motivi.

Vi sono due categorie di lavoratori alle quali non è accordata alcuna tutela (tranne quella prevista contro i licenziamenti discriminatori) ed alle quali è possibile intimare il licenziamento con la semplice osservanza del preavviso ai sensi dell’art. 2118 c.c.

- La prima categoria è composta dai lavoratori con più di 60 anni in possesso dei requisiti pensionistici. Continuano, tuttavia, a godere della tutela contro i licenziamenti i lavoratori che, pur possedendo i requisiti per ottenere la pensione, non hanno ancora raggiunto il massimo di anzianità contributiva ed hanno scelto, ai sensi della legge n. 54/1982, di continuare nel rapporto di lavoro fino al sessantacinquesimo anno di età.

- La seconda categoria è quella dei lavoratori domestici di cui alla legge n. 339/1958.

Il preavviso

A esclusione del solo licenziamento in tronco (per giusta causa), il datore di lavoro è tenuto a dare il preavviso nel termine e nei modi previsti dal contratto. In caso di mancato preavviso, il datore di lavoro è tenuto a pagare un’ indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore durante il periodo di preavviso. Il periodo di preavviso decorre dal momento in cui il lavoratore riceve la comunicazione di licenziamento ed è utile ad acquisire tutti quei diritti (ad es. uno scatto di anzianità) che maturano durante il normale decorso del rapporto di lavoro. Se interviene, durante il periodo di preavviso, una causa di sospensione del contratto di lavoro (per es. una malattia, un infortunio ecc.) il preavviso si interrompe e riprende a decorrere dalla cessazione della causa sospensiva.

Il periodo di ferie non può mai essere computato come preavviso (art. 2109 c.c.).

La dispensa dal prestare servizio nel periodo di preavviso ha valore solo se concordata tra lavoratore e datore di lavoro. Pertanto, quando il lavoratore riceve la lettera di licenziamento con la dispensa di effettuare il servizio, può rifiutare tale dispensa e chiedere per iscritto ( tramite raccomandata A.R.) l’effettuazione in servizio del periodo di preavviso.

Impugnare il licenziamento

Qualora il lavoratore ritenga il licenziamento illegittimo può impugnarlo entro 60 giorni dalla sua comunicazione o dalla comunicazione dei motivi, se avvenuta posteriormente. La contestazione va fatta in forma scritta, con lettera raccomandata A.R. spedita al datore di lavoro (art. 6 della L. n. 604/1966). L’impugnazione del licenziamento è solo il primo passo della controversia sulla legittimità del licenziamento. Infatti prima che il caso venga sottoposto al giudizio del giudice sono previsti due ulteriori “passaggi”, uno obbligatorio “il tentativo di conciliazione”, l’altro facoltativo “il deferimento ad un collegio di arbitrato”.

Il lavoratore che non abbia proposto nel termine di 60 giorni l’impugnazione del licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo perde il diritto alla tutela garantita dalla legge.

Il D.L. 80/98 ha introdotto il tentativo obbligatorio di conciliazione innanzi alla competente Direzione provinciale del lavoro, che è tenuta a convocare le parti entro 60 giorni dalla ricezione della relativa richiesta: in mancanza di convocazione in detto termine o nel caso in cui il tentativo di conciliazione non sortisca esito positivo, il lavoratore potrà adire l’autorità giudiziaria o deferire, nel termine di 20 giorni, la controversia a un collegio di arbitrato, la cui composizione è stabilita dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicabile.

La revoca del licenziamento

La revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro si concreta in una proposta contrattuale avente ad oggetto la ricostituzione del rapporto di lavoro. Tale revoca ha efficacia purchè sia accettata dal lavoratore, anche per comportamenti concludenti (per es. il lavoratore, a seguito della revoca, si presenta sul luogo di lavoro per svolgere le proprie mansioni).

La revoca di un licenziamento illegittimo nell’ambito della tutela reale non esclude l’obbligo del datore di lavoro di risarcire il danno, dal momento che la tutela risarcitoria ha carattere sanzionatorio per il datore di lavoro. Se e solo nel caso in cui il rapporto di lavoro, a seguito dell’immediata revoca del recesso, non ha subito alcuna interruzione, il lavoratore non ha diritto al risarcimento.

Sanzioni per licenziamento illegittimo

Allorché il giudice constata che il licenziamento è illegittimo individua la sanzione da applicare al datore di lavoro, in base a una serie di criteri che riguardano la dimensione occupazionale dell’azienda.

La tutela reale.

Nelle realtà produttive aventi la maggiore consistenza occupazionale si applica la cosiddetta tutela reale, cioè il giudice ordina la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro, prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (modificato dalla l. n. 108/1990), e condanna inoltre il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore (cioè al pagamento di un’indennità pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali, con un minimo di 5 mensilità). La legge da la facoltà al lavoratore di rinunciare alla reintegrazione nel posto di lavoro, chiedendo in sostituzione un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto.

Tale richiesta deve essere avanzata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza.

La tutela reale si applica quando:
Il datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, nell’unità produttiva (sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo) nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa più di 15 lavoratori dipendenti (più di 5 dipendenti se si tratta d’imprenditore agricolo);
- Il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, occupa nell’ambito dello stesso comune più 15 dipendenti (più di 5 dipendenti se si tratta di imprenditore agricolo), anche se ciascuna unità produttiva non raggiunge, considerata isolatamente, i limiti sopra indicati;
- Il datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, occupa più di 60 dipendenti;
Nel calcolo dei limiti sopra indicati rientrano i lavoratori part- time (per la quota di orario effettivamente svolta).

Dal computo dei dipendenti, ai fini dell’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, vanno esclusi i lavoratori assunti con contratto a termine, gli apprendisti, il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea retta e collaterale.

La tutela obbligatoria.

Nelle aziende più piccole il licenziamento illegittimo è colpito con sanzioni meno gravi e onerose; in questi casi si applica la cosiddetta tutela obbligatoria: il giudice condanna il datore di lavoro a riassumere il lavoratore entro 3 giorni oppure a versare al lavoratore un’indennità. È quindi il datore di lavoro a scegliere la sanzione (riassunzione o pagamento dell’indennità) che ritiene preferibile.

Tale indennità viene stabilita dal giudice e può variare da 2,5 a 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, tenendo conto del numero dei dipendenti dell’azienda, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore, nonché del comportamento e delle condizioni delle parti in causa.

La tutela obbligatoria si applica quando non sussistono i requisiti dimensionali per l’applicazione della tutela reale e quindi allorché:
- Il datore di lavoro privato, imprenditore non agricolo e non imprenditore, nell’unità produttiva (sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo) nella quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle proprie dipendenze fino a 15 lavoratori;
- L’imprenditore agricolo occupa fino a 5 dipendenti;
- Il datore di lavoro privato, imprenditore o non imprenditore, occupa fino a 60 dipendenti suddivisi in unità produttive con meno di 16 dipendenti.

La tutela obbligatoria si applica inoltre:
- Ai lavoratori dipendenti da enti pubblici in cui la stabilità non è garantita da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale;
- Ai lavoratori dipendenti da datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, d’istruzione ovvero di religione e di culto.

Licenziamento in malattia

La malattia del lavoratore non consente al datore di lavoro di recedere dal contratto se non dopo il decorso del periodo di conservazione del posto (cd. comporto), salvo che il licenziamento sia dovuto a giusta causa. Il superamento del periodo di comporto costituisce un’autonoma e speciale causa di licenziamento individuale legittimo, giustificata dal perdurare dell’impossibilità temporanea del lavoratore. La risoluzione non è prevista in via automatica, pertanto il datore di lavoro deve comunicare per iscritto la volontà di recedere dal rapporto di lavoro osservando l’obbligo del preavviso.

Licenziamento e maternità

Vige il divieto di licenziamento della lavoratrice a causa del matrimonio (l. n.7/1963). Il divieto si applica a tutti i datori di lavoro, con esclusione di quelli che occupano lavoratrici addette ai servizi familiari e domestici. Si presume intimato a causa di matrimonio (senza che la lavoratrice debba provarlo) quel licenziamento che intervenga nel periodo tra la richiesta delle pubblicazioni e fino ad un anno dopo il matrimonio della lavoratrice. Al di fuori di questo periodo la lavoratrice deve invece provare che il suo licenziamento è stato effettuato per causa di matrimonio.Il licenziamento può essere impugnato anche dopo 60 giorni dalla sua comunicazione e, nel caso di declaratoria di illegittimità, la lavoratrice ha diritto a essere riammessa in servizio ed alla retribuzione globale, dal momento del licenziamento fino al momento della riassunzione in servizio.

È vietato inoltre il licenziamento per il padre lavoratore in caso di fruizione del congedo di paternità (per la durata del congedo stesso e fino al compimento di un anno di età del bambino) e della lavoratrice durante il periodo di gravidanza (l. n. 1204/1971): fin dall’inizio del periodo di gestazione e fino al compimento di un anno di età del bambino, o in caso di aborto o di morte del figlio durante i primi tre mesi dal parto. La lavoratrice licenziata durante il periodo protetto ha diritto ad ottenere il ripristino del rapporto di lavoro mediante la presentazione, entro 90 giorni dal licenziamento, d’idonea certificazione volta a comprovare lo stato di gravidanza e puerperio all’epoca del licenziamento.

In questi casi licenziamento è nullo, cioè è come se non fosse mai stato intimato. Le sole cause che legittimano l’intimazione del licenziamento sono:
- Colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto;
- Cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta, in questo caso il datore di lavoro deve comunque dimostrare l’impossibilità di utilizzare la lavoratrice in un altro reparto;
- Ultimazione della prestazioni per le quali la lavoratrice è stata assunta;
- Risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine.

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